Sopra le vie del nuovo impero/Da Brindisi a Rodi

Da Brindisi a Rodi.

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La sciabola e non il codice Da Trianda, sul monte Smith, lungo i bastioni
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Nell’Egeo



Da Brindisi a Rodi.


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Rodi, Giugno.

Per portarsi d’Italia a Rodi e alle altre isole si lascia Brindisi il Lunedì d’ogni settimana.

Io partii da Brindisi Lunedì, 17 di questo mese.

Sullo Scilla, vecchia carcassa dei Servizii Marittimi degna di essere arsa in olocausto agli Dei marini in mezzo alle onde, trovai la compagnia della conquista. Vale a dire, uno di quei nuovi stuoli che quest’anno la patria nostra ha cominciato a mandar fuori de’ suoi confini: soldati e amministratori. C’erano a bordo ufficiali, medici militari, ricevitori di dogana, conservatori di ipoteche, gente di tribunale: e c’era anche con buona guardia il prigioniero turco: un sottoprefetto di Scarpanto che tornava a Rodi non so per quale motivo, uomo bruno, [p. 72 modifica]maschio, e compito signore che a tavola domandava i nomi italiani degli oggetti e li appuntava sul taccuino.

A me, navigando, tornava spesso pel capo il pensiero del grande romanzo che inaspettatamente l’Italia aveva preso a comporre tra l’Europa, l’Affrica e l’Asia con i suoi reggimenti e le sue corazzate. Sapevo di andare verso la nuova conquista da noi fatta in pieno Mediterraneo e non mi pareva vero; sapevo di andare verso la plaga dove noi abbiamo iniziata la nostra rivoluzione nello statu quo ben custodito dalle nazioni plutocratiche e non mi pareva vero. Un anno prima, l’anno scorso, attraversavo questo stesso mare andando in Grecia ed ero venuto via allora allora dalla Tripolitania e dalla Cirenaica. Toccata appena dopo l’Affrica la Sicilia, da Catania navigavo verso il Pireo, piena l’anima di desiderio, di dolore e d’ira. Il desiderio mi opprimeva delle regioni che avevo visitate, che la mia patria le occupasse, come se così le avessi occupate io stesso; e il dolore, perchè non credevo mai che saremmo giunti a tanto; e l’ira contro i nostri uomini di governo giudicati per lunga esperienza neghittosi e pavidi. Ma ora la grande favola era il grande fatto! Anzi il fatto era di più! Perchè non solo avevamo occupata l’Affrica, ma oggi [p. 73 modifica]un cittadino italiano poteva navigare verso l’isola di Rodi e vedere la bandiera italiana battere sugli stemmi dei Cavalieri. Io stavo insomma a bordo dello Scilla come colui che vede ciò che non crede.

La mattina dopo passavamo sotto il Salto di Saffo nell’isola di Leucade, e il Capo Ducato e l’isola d’Ulisse e Oxia che sta presso la punta della Scrofa, e entrati nel golfo di Patrasso ci lasciavamo a sinistra Missolungi e gettavamo l’áncora dinanzi a Patrasso poco dopo le 10.

Quivi s’imbarcarono sullo Scilla alcuni espulsi di Scio, della grande isola egeatica che aspettava e aspetta ancora i liberatori; e da quelli che dinanzi ai nostri occhi rappresentavano tutta la «dispersione» italiana sconvolta nel bacino mediterraneo orientale per la guerra e la bestialità turca, sapemmo quanto i liberatori italiani fossero e siano aspettati. Il popolo scioto ha inventato nella sua lingua un giuoco di parole e dice: — O Amelios mas amelí — Ameglio ci trascura. — Gli stessi turchi desiderano che lo sbarco degli italiani avvenga, perchè la loro paura abbia un termine. Lo stesso governatore dell’isola lo desidera vagheggiando forse nel segreto del suo cuore la buona prigionia in Italia, quale la gode il suo collega di Rodi. Egli tutte le sere lascia la città e va [p. 74 modifica]a pernottare presso il più vicino presidio della montagna a Cariès. E gli altri impiegati turchi tutte le sere attraversano in barca il brevissimo mare e vanno a pernottare a Cezmè dove mandarono le loro famiglie, sulla costa dell’Anatolia; poi la mattina spiano dalla riva e gli italiani non essendo ancora venuti, tornano a sbrigare le loro pratiche a Scio. La guarnigione turca tiene già la montagna in corpi sparsi, a due e tre ore dalla città, a Spartunda, Amitunda, Pitios e Colosirti dove ha anche cannoni, munizioni e viveri.

Salpata l’áncora a mezzogiorno preciso, lo Scilla filò verso il golfo di Corinto, in un vasto arco celeste, tutto celeste chiaro e vivo, cielo, mare e montagne. E noi che già ci eravamo lasciati dietro le spalle sull’acropoli di Patrasso il castello veneziano tramutato ora in caserma greca, imboccammo il golfo tra altri due forti veneziani, Rion e Antirion, che dalla riva bassa si spingono nel mare, l’uno dirimpetto all’altro, uno a destra dall’Acaja, l’altro dall’Etolia a sinistra. Poi passammo dinanzi a Lepanto. Poichè l’italiano che va verso Rodi, rivive la più bella storia d’Italia. Ed io mi ricordavo ancora dell’anno scorso e dello stesso viaggio, e a pensare agli avvenimenti che s’erano inaspettatamente compiuti e si compivano [p. 75 modifica]in Affrica e nell’Egeo, sentivo una gran gioia.

La costa d’Acaja a cui navigavamo vicino, eran montagne boscose che declinavano in spiagge delicate con casipole dai tetti rossi, e campi verdi, ricchi d’alberi, e biondeggianti di messi. Ora una striscia di terra si prolungava nel mare, tutta verde, portando cipressi e altri alberi; ora dal mare s’apriva una valle e spiegandosi si internava nelle montagne, ubertosa e delicata. Ecco Aigion e di contro, alla nostra sinistra, la punta Psaronita sulle coste della Focide più lontane e più rudi. Ed ecco il Parnaso era già apparso! Ecco già era apparso anche l’Elicona, e anche laggiù in fondo, lontanissimo, il Citerone! Siamo nel profondo cuore della Grecia, e la prima vita che è in noi tutti, si risveglia e prorompe. Ecco l’Acrocorinto nel cui castello veneziano che orla ancora intatto tutte le rocce, l’anno scorso m’inerpicai e errai lungamente, finché affannosamente e quasi per caso non toccai la vetta più alta dalla quale spaziai per il golfo Saronico e per il golfo di Corinto e mi parve che tutta la Grecia fosse sotto le mie pupille. Dinanzi a me stava il golfo di Corinto, alla mia destra il golfo Saronico con le isole, con piccole isole di cui ignoro il nome, e con le grandi, Egina e [p. 76 modifica]Salamina, fin verso Atene che si nascondeva in nebbia. Giù alla mia sinistra, lungo la sponda corinzia, fin dove il golfo par lago, chiuso qui dall’Argolide e dall’Achaja, là dalla Megaride e dalla Beozia, si distendeva una bella pianura coltivata, e anche l’istmo basso era coltivato sino ai monti della Megaride che si levavano di faccia, d’un color granato velato di viola. In faccia a me si stendevano della piccola Grecia, sì piccola che sembra si possa tutta coprire con una palma della mano, contenere nel cerchio della pupilla; si stendevano la Megaride, l’Attica, la Beozia, sino al monte Elicona che era azzurro confondendosi col mare e col cielo. Due vele erravano nel golfo di Corinto, nel lago di questo golfo; le isolette nel Saronico nereggiavano con del rossigno sul mare che era tutto una chiarìa celeste. Sull’alta vetta regnavano il silenzio e il vento.

Quest’anno si vive nella pienezza dei nostri tempi e si va verso Rodi. Il pensiero del popolo italiano rifatto attivo e conquistatore dà l’ebrietà della gioia.

Attraversammo il canale di Corinto dopo il tramonto, sentimmo qualche greco dall’alto delle pareti gridare evviva l’Italia, vedemmo qualche donna salutare, e quando sboccammo sul casolare d’Ismia nel golfo [p. 77 modifica]Saronico, già annottava. Le piccole isole del golfo e Egina e Salamina rapidamente scomparvero nella notte, si vedeva qua e là qualche lume, apparvero i mille lumi del Pireo, la sacra Atene restava invisibile nella profonda notte.

E il giorno dopo navigammo attraverso il gregge delle Cicladi tutte montuose, brune e brulle, Sifono, Strongilo, Despotico, Antiparos, Paros, Sikinos, Nio, Heraclia, Nasso, Karos, Arnorgo, Santorino, Anaphe, sino a Ophidusa che è una roccia dinanzi a Stampalia.

Passammo dinanzi al nudo scoglio di Ophidusa al cader del sole, e Stampalia s’allungò alla nostra sinistra, gran roccia anch’essa, rossa nel tramonto. L’orizzonte alle nostre spalle era rosso, e nel rosso erano gli scogli che cingono Stampalia. Quando avemmo girato il capo era notte; una torpediniera illuminata venne contro lo Scilla, mentre dalle alture dell’isola si vedevano partire razzi per segni navali. La torpediniera accostò, girò da poppa, rallentò, ci parlò col megafono, ci ordinò di seguirla all’ancoraggio, filò dritta davanti a noi. Era notte, ma persisteva il tramonto rosso sulle rocce. Demmo fondo, al comando, nella gran baia. Apparvero nere moli di corazzate, qua e là strisciavano torpediniere [p. 78 modifica]a lumi spenti dentro la baia e fuori in crociera; ancora partiva qualche razzo. Era l’officina della guerra navale, chiusa, la guardia e l’insidia, sparse nella notte. Ciò che si era raccontato di Stampalia e della sua occupazione, e della occupazione delle altre isole e di Rodi, e quanto le navi avevano fatto in tutti i mesi della guerra, da Tripoli a Tobruk, da Taranto alle coste arabiche, appariva nella sua officina chiusa, nella notte, vigilante e terribile, in atto e fuori di quell’ora e d’ogni ora, in un’ora remota e senza appellazioni. Vennero a bordo per la posta e altro marinai laceri, tutti tinti delle loro navi e de’ loro lavori. Lo Scilla stette fermo tre ore nella baia. Sulla cresta della roccia appariva il castello de’ Guerini. Era intorno un grandioso anfiteatro la cui linea tagliava netto il cielo. Ripartimmo prima di mezzanotte. Dai due capi della baia due riflettori incrociavano i loro fasci di luce e chiudevano l’apertura. Passammo attraverso a quello sbarramento luminoso, ci allontanammo, vedemmo ancora sì e no una torpediniera che strisciava nella notte. Mai avevo sentito nel mondo silenzio più profondo.

La mattina presto ero sul ponte, e già costeggiavamo Rodi. Pareva ancora come nel golfo di Corinto, perché a destra era [p. 79 modifica]la costa lunga di Rodi, a sinistra quella dell’Anatolia, e le due coste son prossime e ugualmente montuose. Rodi è montuosa come le Cicladi e le altre Sporadi, come le coste di Grecia e dell’Asia Minore. Il cielo era limpidissimo, il mare fermo e vivo con un venticello fresco; Rodi alla distanza di tre o quattro miglia era velata d’un velo di vapore bianchiccio, e dinanzi a noi, lontano lontano ancora, verso la sua punta settentrionale, si perdeva in uno sfolgorìo chiaro sotto il sole che saliva. Un ufficiale di bordo, tutt’animato anch’egli dalla grande novità che a noi tremava nel cuore, ci additava e nominava i luoghi della costa, a mano a mano che passavamo. Ecco Kalavarda dove sbarcarono i bersaglieri! Ecco, dietro quei monti è Psithos! Ecco Villanuova e il monte Fileremo con la cima piatta turrita di rovine, ed ecco finalmente la baia di Trianda il cui arco insieme con quello della costa asiatica, della Doride biforcuta, chiude il mare quasi in un lago! Qualche barca a vela passa dinanzi a noi. Oltre la punta di Rodi fumano due navi: è l’Amalfi e più in là la Vittorio Emanuele. Accostiamo. Costeggiamo ora la stessa città, la città nuova, tutta piccole ville bianche dai tetti rossi, che sale in costa tra giardini ed alberi. Ed ecco la torre di Sant’Elmo, la torre [p. 80 modifica]Sant’Angelo, i porti, le mura di pietra, ecco la città dei Cavalieri.

Demmo fondo poco prima delle nove. E a bordo tutti guardavamo chi la costa asiatica che scende su Rodi con una curva potente e delicata, chi la città vecchia e la nuova, chi il mare del più carico turchino che fosse mai visto, chi le nostre corazzate e le nostre bandiere che sventolano sulla conquista. E in ogni italiano scorgevo una gioia pari alla mia, una gioia intima nel più profondo essere di ognuno, per quella sì bella e grande novità che allora appariva. Era in ognuno la gioia della conquista nazionale, come per un suo nuovo possesso visitato allora la prima volta. Tanto più inebriante quella gioia, perchè l’isola era bella e splendida nel più puro spirito dell’aria e nel più radioso sole d’oriente.