Sopra alcune vittorie delle galere di Toscana

Gabriello Chiabrera

XVII secolo Indice:Opere (Chiabrera).djvu Letteratura Intestazione 28 luglio 2023 75% Da definire

Pitti, albergo de' Regi Alcune canzoni in lode del sommo pontefice papa Urbano VIII
Questo testo fa parte della raccolta Canzoni eroiche di Gabriello Chiabrera


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LXVII

SOPRA ALCUNE VITTORIE DELLE GALERE DI TOSCANA

CANZONE PROEMIALE.

Firenze al cui splendore
     Ogni bella cittate aspira indarno,
     Inclita figlia d’Arno,
     Che al Padre cingi d’ogni onore il crine,
     5Non conturbare il core,
     Se oggi mi prende obblío di tua memoria,
     Nè fo sonar la gloria,
     Sorta ben salda infra le tue ruine
     Mie labbra non sian mute
     10Al tuo nome; ventura
     Stimo carte vergar de i pregi tuoi;
     Emmi in cor la Virtute,
     Onde inalzò tue mura
     La magnanima man de i prischi Eroi
     15Tuoi germi; ora disvia
     Il suon dell’arpa mia
     Euterpe, e fammi ardente
     A dir ne’ salsi regni
     De’ tuoi feroci legni.
     20Spavento all’Orïente.
Che non si stanca in corso,
     Lo scettrato figliuol di Ferdinando,
     Anzi s’avanza, e quando
     La campagna del mar ponsi in periglio,
     25Agli afflitti nocchier porge soccorso,
     E cangiando fulgor d’ampi tesori,
     Con immortali allori,
     Dalla bella Virtù prende consiglio,
     Deh che giova sotterra
     30Tracciar tante miniere,
     E del volubil ôr tante far prede,
     Se in arca indi si serra?
     Hassi a sporre al volere,
     Ed alla man di non ben noto erede?
     35Deh no; l’oro è ricchezza,
     Che a ragion s’apprezza,
     Se il possessore onora,
     E quando in opra grande
     Nobile man le sponde,
     40Egli via più s’indora.
Aperti, o Cosmo altero,
     Son per le glorie tue varchi diversi;
     Ma pure oggi miei versi
     De’ tuoi famosi segni aman la scorta;
     45Nè quinci il mio sentiero
     Andrò radendo, l’arenosa sponda,
     Che per l’onda profonda
     Infaticabilmente ardir gli porta;
     Eolo mai non dislega
     50Spirto così sdegnoso,
     Che all’ampie vele osi di fare oltraggio;
     E se remo si spiega
     Per entro il campo ondoso,
     Lenta l’Aquila sembra in suo viaggio;
     55Però la terra Argiva,
     E l’Africana riva
     Ne son tremanti al nome,
     E scorgono dolenti
     Ognora infide genti,
     60O fuggitive, o dome.
Ma se tua bella armata
     Peregrinando in mare alza trofei,
     Tu non manco per lei
     Ben ferma gitti l’áncora nel porto
     65Di vita fortunata.
     A biasmare il mio detto alcun non mova,
     Che manifesta prova
     Fa schermo alla giustizia incontra il torto;
     Al mondo un cor gentile
     70Per uso arde desire
     Di fama illustre, e di ben gran possanza;
     D’altro lo studio è vile;
     Perchè di non morire
     Fra’ mortali sciocchezza è la speranza;
     75Ora tuo scettro appieno
     È grande, tuo terreno
     Bacco ama, e Tritolemo,
     E per te ricco ondeggia
     Il mare, e la tua reggia
     80È bella in sull’estremo.
Splendere a te d’intorno
     Veggiam lampi di gloria i più vivaci,
     E nel regno de’ Traci
     Ad ognor se ne carcano tue navi;
     85Dunque in van non t’adorno;
     Ma, per grazia, d’entrar mi sia concesso
     Nel giocondo Permesso,
     Onde il coro Febeo volge le chiavi.

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     D’Etiopia sul lido
     Scampò con forte mano
     Perseo da fiero mostro alma donzella,
     60E della Grecia un grido,
     Come d’uom sovrumano,
     Pur anco oggidì Perseo alto favella;
     Ed io dico, a’ dì nostri
     Farian ben mille mostri
     65Di donne empia rapina;
     Ma da sì fatti scempi,
     Cosmo con belli esempi
     Fa schermo alla marina.
Ed è ver, che s’ei scopre
     70De’ perfidi corsali al fiero sguardo
     Suo guerriero stendardo,
     Fa loro rimirar cento Meduse;
     Oh quale a sue bell’opre
     Forma alle mie vigilie dar sapranno,
     75S’una volta verranno
     In sull’incude dell’Aonie Muse?
     Il ciel delle sue lodi,
     Oltra l’uman costume,
     Senza nubi a mirar sereno puro,
     80Sento, che in mille modi
     Chiama a se le mie piume;
     Ed io saprò dedaleggiar sicuro;
     Il re de’ campi eterni
     Benigno ognor governi
     85Cosmo, tuoi legni ed armi;
     E tu giocondo in volto,
     Talora a me rivolto
     Non disprezzar miei carmi.

LXVIII

Quando nell’Arcipelago si conquistò la Capitana, e la Padrona delle Galere d’Alessandria, si ferono quattrocentoventidue schiavi, e centotrentacinque cristiani franchi.

I

Sulla terra quaggiù l’uom peregrino,
     Da diversa vaghezza
     Spronato a ciascun’ora,
     Fornisce travïando il suo cammino.
     5Chi tesor brama, chi procaccia onori,
     Chi di vaga bellezza
     Fervido s’innamora;
     Altri di chiuso bosco ama gli orrori,
     Ed in soggiorno ombroso
     10Mena i giorni pensoso.
A questa ultima schiera oggi m’attegno,
     E da ciascun m’involo;
     Amo gioghi selvaggi,
     D’alpestri Numi abbandonato regno,
     15Nè fra loro temenza unqua mi prende,
     Benchè romito e solo;
     Chè da’ villani oltraggi
     Le mie ricchezze povertà difende,
     Inni tra rime e versi
     20Di puro mel cospersi.
Qui già sacrai la cetra, e non indarno,
     Italia, a’ guerrier tuoi;
     Or lieto a’ vostri vanti
     Si rivolge il mio cor, Principi d’Arno,
     25Sferza de’vizj, alle virtù conforto,
     Norma d’eccelsi eroi;
     Per cui gli afflitti erranti
     In pelago di guai trovano porto;
     Da cui certa mercede
     30Proponsi a stabil fede.
Voi dal Tirreno mar lunge spingete
     I predatori infidi;
     E ne’ golfi sicuri
     Dell’Imperio Ottoman voi gli spegnete;
     35L’Egéo se ’l sa, che d’Alessandria scerse
     Dianzi ululare i lidi,
     Quando in ceppi sì duri
     Poneste il piè delle gran turbe avverse,
     E sotto giogo acerbo
     40Il duce lor superbo.
Oh lui ben lasso, oh lui dolente a morte,
     Che in region remote
     Non più vedrassi intorno
     L’alma beltà della gentil consorte!
     45Ella in pensar, piena di ghiaccio il core,
     Umida ambe le gote,
     Alto piangeva un giorno
     Il tardo ritornar del suo Signore;
     E così la nudrice
     50Parlava all’infelice:
Perchè t’affliggi invan? l’angoscia affrena;
     A che tanti martiri?
     Deh fa ch’io tra’ bei rai
     La cara fronte tua miri serena;
     55Distrugge i rei cristian, però non riede
     Il Signor che desiri;
     Ma comparte oggi mai
     Tra’ suoi forti guerrier le fatte prede,
     E serba a tue bellezze
     60Le più scelte ricchezze.
Così dicea, nè divinava come
     Egli era infra catene
     Là ’ve con spessi accenti
     Mandasi al ciel di Ferdinando il nome:
     65O verdi poggi di Firenze egregia,
     O belle aure Tirrene,
     Ed o rivi lucenti,
     Sì caro nume a gran ragion si pregia;
     O lieti, a gran ragione
     70Gli tessete corone.
Che più bramar dalla bontà superna
     Tra sue grazie divine,
     Salvo che giù nel mondo
     Sia giustizia e pietate in chi governa?
     75Io non apprezzo soggiogato impero,
     Benchè d’ampio confine,
     Se chi ne regge il pondo
     È di tesor, non di virtute altero:
     Ambizïone è rea;
     80Vero valor ci bea.

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LXIX

Quando sopra Braccio di Maina, Porto-Quaglio, e Longo Sardo si predarono alcune galeotte, si ferono duecentotrentaquattro schiavi e duecento cristiani franchi.

II

Allor che l’oceán, regno de’ venti,
     Ama di far sue prove,
     Da principio commove
     Nel profondo un bollor, che appena il senti:
     5Poi con onde frementi
     Vien spumando sul lito,
     Poi l’alte rupi rimugghiando ei bagna;
     Al fine empie del ciel l’erma campagna
     Di rimbombo infinito.
10Tal già mia cetra mormorò l’onore
     Di straniera corona;
     Ed or s’avanza e tuona
     Tessendo inni di gloria al mio Signore.
     Ei del mortal valore
     15Trapassa ogni confine;
     E se il mio dir sembra all’invidia duro,
     Scoppi di fiel; con esso Febo il giuro,
     Trapassa ogni confine.
Chi della pace alle stagioni amate
     20Conta sue glorie altere?
     D’Astrea leggi severe,
     Ed all’altrui digiun spiche dorate,
     Tante magion sacrate,
     Ove ad ognor per Dio
     25Di Dedalo novel suda l’ingegno,
     E scarpelli e pennelli, onde han sostegno?
     Ed onde Euterpe e Clio?
Merto ben singolar; nè solo spende
     Fra’ rai di sì bell’arte,
     30Ma con opre di Marte
     D’intorno sè fulgida lampa accende;
     Per cotal guisa ascende
     In alto, ove s’ammira
     Al ciel vicin su non calcate cime
     35Il bel carro di lui, tanto sublime
     Più d’un destriero il tira.
E certo è ver, che secondar buon duce
     Bene imitando è pregio;
     Ma più stimasi egregio
     40Chi bene oprando ad imitar conduce.
     Qui per me si riduce
     All’altrui rimembranza,
     Che trito calle il nostro re non corse;
     Anzi a placare il mar primiero ei sorse,
     45E mostrò sua possanza.
Onde usciano armi? e di qual porto vele
     A schermir questi liti?
     Non mai nocchieri arditi
     Moveano incontro al corseggiar crudele:
     50Ora somme querele
     Vanno volando intorno,
     E piange l’Asia e l’Africane arene,
     Rivolgendo in pensier l’aspre catene,
     Che minaccia Livorno.
55Che io nelle glorie tue non sia bugiardo,
     Flora trïonfantrice,
     Braccio di Maina il dice,
     Dicelo Porto Quaglio e Longo Sardo.
     A ragion, dove guardo,
     60Miro in danza allegrarsi
     Sovr’Arno di donzelle i bei vestigi,
     E vi miro a ragion del buon Dionigi
     Le tazze incoronarsi.
Ma fia scarso gioir; nulla non piace
     65Senza il coro Febeo;
     E perde ogni trofeo
     Peregrino valor, s’Euterpe il tace.
     O del Tempo rapace
     Figlia torbida e fosca
     70Obblivïon, non assalir miei versi;
     E i nomi in Lete non voler sommersi
     Della gran gente Tosca.

LXX

Quando nelle bocche di Bonifazio conquistossi una galera d’Algieri, e si sorprese la Prevesa, si ferono schiavi trecentotrentuno, e si presero sessantanove pezzi d’artiglieria

III

Quando il pensiero umano
     Misura sua possanza
     Caduca e frale, ei sbigottisce e teme;
     Ma se di Dio la mano,
     5Che ogni potere avanza,
     Ei prende a riguardar, cresce la speme.
     Ira di mar che freme
     Per atroce tempesta,
     Ferro orgoglioso che le squadre ancida,
     10Non turba e non arresta
     Vero ardimento che nel Ciel confida.
Sento quaggiù parlarsi;
     Un piccioletto regno
     A vasto impero perchè dar battaglia?
     15Alpe non può crollarsi;
     E di leon disdegno
     Non è da risvegliar, perchè t’assaglia. —
     Meco non vo’ che vaglia
     Sì sconsigliata voce,
     20Ed ella Gedeon già non commosse,
     Quando scese feroce
     Nell’ima valle, e ’l Madïan percosse.
Ei, gran campo raccolto
     Di numerose schiere,
     25Vegghiava a scampo del natío paese;
     E da lunge non molto
     Spiegavano bandiere
     Gli stuoli pronti alle nemiche offese:
     Ed ecco a dir gli prese
     30Il re dell’auree stelle:
     Troppa gente è con te, parte sen vada;
     Crederebbe Israelle
     Vittoria aver per la sua propria spada. —
Quivi il fedel campione
     35Di gente coraggiosa
     Sol trecento guerrier seco ritenne;
     Poscia per la stagione

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     Dell’aria tenebrosa
     Le squadre avverse ad assalir sen venne;
     60Poco il furor sostenne
     La nemica falange;
     Ei gli sparse e disperse in un momento.
     Febo, ch’esce dal Gange,
     Le nebbie intorno a sè strugge più lento.
65Così gli empj sen vanno,
     Se sorge il gran Tonante,
     Della cui destra ogni vittoria è dono:
     Il Trace è gran tiranno;
     Ma sue forze cotante
     70Nè di diaspro nè d’acciar non sono.
     Forse indarno ragiono?
     Ah no, che oggi sospira
     Algier de’ legni suoi l’aspra ventura,
     E Prevesa rimira
     75De’ bronzi tonator nude sue mura.
Diffonde Etruria gridi,
     Gridi che vanno al cielo,
     Al ciel seren per nostre glorie e lieto;
     Così nei cori infidi
     80Spandi temenza e gelo,
     Gran Ferdinando, per divin decreto:
     Mal volentier m’accheto;
     Nocchier, che i remi piega
     In bella calma, empie di gaudio il petto;
     85E cantor che dispiega
     Consigli di virtù, prende diletto.
Popolo sciocco e cieco,
     Che militar trofei
     Speri da turba in guerreggiar maestra,
     90Quali squadre ebbe seco
     Sanson tra’ Filistei,
     Quando innalzò la formidabil destra?
     Ei da spelonca alpestra
     S’espose in larga piaggia
     95A spade, ad aste di suo strazio vaghe,
     Quasi fera selvaggia
     Data in teatro a popolari piaghe.
Ma sparsi in pezzi i nodi,
     Onde si trasse avvinto,
     100D’acerba guerra suscitò tempesta;
     Per sì miseri modi
     All’esercito vinto
     La forza di sua man fe’ manifesta:
     E sull’ora funesta
     105Per lui non s’armò gente,
     Nè di faretra egli avventò quadrella;
     Ma vibrò solamente
     D’un estinto asinel frale mascella.
Al fin chi lo soccorse
     110Dentro Gaza, là dove
     Le gravissime porte egli divelse,
     E rapido sen’ corse,
     (Incredibili prove!)
     E le portò sulle montagne eccelse?
     115Dio fu, Dio, che lo scelse,
     E di fulgidi rai
     Si chiaro il fece ed illustrollo allora:
     Nè perirà giammai
     Chi s’arma, e del gran Dio le leggi adora.

LXXI

Quando sopra Rodi con varie prese si fecere trecentoventi schiavi Turchi.

VI

La ghirlanda fiorita,
     Ch’io tesso in riva di Castalia ombrosa,
     Ti giungerà gradita,
     Rodi diletta al Sol, Rodi famosa:
     5Chè la splendida gloria,
     Di cui tu miri adorno
     Oggi il nome Toscano,
     Ti promette vittoria;
     Onde si spezzi un giorno
     10L’aspro giogo Ottomano.
O lieta oltre misura,
     E del Signor chiarissima virtute,
     Che ciascun di procura
     Al periglio de’ suoi scampo e salute.
     15Turbo di Lete inferno
     Dunque non fia che opprima
     Del nostro Re la fama:
     Sì con desire eterno
     Di sì gran merto in cima
     20Ei stabilirsi brama;
Oggi nell’onde Argive
     Fu forte a soggiogar tanti guerrieri,
     Tante altronde cattive
     Già menò turbe de’ ladroni arcieri
     25Scorti non fur mai tardi
     Sulle spalmate prore
     Suoi duci a grande assalto,
     E suoi grandi stendardi
     Spandono tal terrore,
     30Che fanno i cor di smalto.
Stefano santo, a cui
     Consecrate già far, sì le difende,
     Che alla possanza altrui
     Fansi ad ognor le belle vele orrende;
     35Ne pur sul mare in guerra,
     Arno, d’ingiusti Regi
     Ei fa l’ingiurie vane,
     Anzi dà palme in terra,
     Onde t’innalzi e pregi;
     40E lo san dir le Chiane.
Quivi tronchi e mal vivi
     Lasciaro i tanto fier l’egra speranza;
     Quivi trionfi, quivi
     A’ tuoi scettri si crebbe alta possanza.
     45Però frondi gentili,
     Onde l’Arabia è verde,
     Ornino i sacri altari;
     Il Ciel guarda gli umili,
     E gli alteri disperde:
     50In Sennaär s’impari.
Oda ciascun: Parnaso
     Per alta verità fassi giocondo;
     Poichè l’orribil caso
     Vider le genti, e fu sommerso il mondo,
     55Lasciato ogni alto monte
     Elle dell’ampio Eufrate
     Posaro in sulla riva;

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     E con terribil fronte
     E con voci spietate
Nembrotte il ciel feriva.
     Ecco all’uman diletto
     Esposto, egli diceva, almo terreno;
     Qui per nostro ricetto
     Torre innalziamo infino al ciel sereno;
     Chè se mai più rinversa
     La destra onnipotente
     Pioggia di nembi oscuri,
     E vorrà mai sommersa
     Tutta la mortal gente,
     Quinci sarem sicuri.
Ma di qual meraviglia
     Ingombrerassi ogni futura prole,
     Faticando le ciglia
     In rimirar non comparabil mole?
     O di Noè gran seme,
     Ammirabile farsi
     E lodato desio;
     E dee la nostra speme
     Pur solo in noi fondarst.
     L’uomo a sè stesso è Dio. —
Ei favellava ancora,
     Che sorsero gli spirti al Ciel nemici,
     Ed ergeano ad ognora
     Gli eccelsi abbominevoli edifici;
     Quando il Rettor superno
     Dall’alto a guardar prese
     Sovra il lavor degli empi;
     E ne fe’ tal governo,
     Che le superbe imprese
     Fur di sciocchezza esempi.

LXXII

Quando ne’ borghi di Lajazzo e nella Fenicia si fecero duecento ottanta schiavi, e si predarono trentuno pezzi d’artiglieria.

V

Sen riede a noi dalle remote sponde
     Della Fenicia Argiva,
     E di dove Neréo rinfrange l’onde
     Pur di Lajazzo all’arenosa riva,
     5Del nostro re la bella armata, e riede
     Carca d’alme perverse
     In ogni tempo avverse
     Allo splendor della Cristiana Fede;
     E reca bronzi, che temprar fa Marte
     10In più mortal fucina,
     Quando di membra lacerate e sparte
     Ingombrar le campagne egli destina.
Nè molto andrà che de’ metalli stessi
     Un fulminar feroce
     15Udranno in Asia, di spavento oppressi,
     Ed in Libia ogni porto ed ogni foce;
     Ma se brama il convito i vin spumanti,
     Dolcezza alma di cori,
     E se i guerrier sudori
     20Su Pindarica cetra amano i canti;
     Flora gentile, Arno reale, il plettro
     Oggi in man vi recate,
     E di quell’arpa non men sparsa d’elettro,
     Di che si ricchi e si superbi andate.
25Che direm not? l’umane cose in terra
     Il caso le governa?
     Bestemmia: i cieli, e ciò che in lor si serra,
     Regge il saper della Possanza eterna;
     Quinci apparvero qui spiriti accesi
     30Verso i buon Citaristi,
     Onde i miglior fur visti
     Farsi il Parnaso lor questi paesi.
     A ragione in Val d’Arno e paschi e nidi
     Godono i Cigni egregi,
     35Poichè han da sollevar musici gridi,
     Lodando i Duci, e di Firenze i Regi.
Non conterò la cantatrice schiera,
     Nè pur dironne il nome;
     Chè pria l’arene, e pria per primavera
     40Potrei d’un bosco numerar le chiome:
     Ben afferm’io che sì gentil famiglia
     È de’ regni ornamento;
     E che al Febeo concento
     L’Aquila su nel ciel china le ciglia;
     45E sì dal sonno vinta abbassa l’ali,
     Che pur quegli abbandona,
     Onde è ministra, fulmini immortali,
     Perchè Giove quaggiù spesso non tuona.
Che più? le Parche, ove la bella Clio
     50Tempra l’Aonia cetra,
     I puri velli han di filar desío,
     E lungo stame nostra vita impetra;
     E Lete al suono dell’amabil arco
     Tranquilla i gorghi suoi,
     55Tal ch’indi i sommi eroi
     Ne’ golfi dell’obblío trovano il varco,
     Almo tragitto! e fan soggiorno al fine,
     Scorti dalla virtute,
     Infra le stelle d’or, magion divine,
     60Ove trombe per lor mai non son mute.
O quaggiù fra’ mortali alma diletta,
     Pregio de’ tuoi sublime,
     Gran Ferdinando, colassù t’aspetta
     Seggio ben scelto infra le sedie prime.
     65In tanto vivi lungamente, e godi;
     Tu di virtute altero,
     Tu singolar d’Impero
     Italia non avrai scarsa di lodi.
     Io certamente, o re, via più che d’oro,
     70Bramoso di tua gloria,
     Nudrirò di Parnaso un verde alloro,
     Per sempre coronar la tua memoria.

LXXIII

Quando al Capo delle Colonne tutte le Capitane dell’armata di Spagna diedero caccia a tre galere di Turchi, e sola la Capitana i Firenze conquistò la Capitana di Biserta, con centotrentatre schiavi, franchi cento ottanta.

VI

Se gir per l’aria voti
     Non dovesser miei preghi, io certamente
     Con calde voci al Ciel vorrei voltarmi,
     Perchè il gran Buonarroti
     Lasciasse l’ombre, e tra la viva gente
     Oggi tornasse ad illustrare i marmi;

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     E con varj colori
     Empiesse di stupor le ciglia e i cori.
85Ei mortal d’immortali
     Tante corone il nome suo fe’ degno,
     Che d’onor vola per le vie supreme;
     E l’ammirabil’ali
     Cosi spiegò del singolare ingegno,
     90Che d’appressarsi a lui spense ogni speme;
     Lucida stella d’Arno,
     Cui nube attorno si rivolge indarno.
Qual uman pregio altero
     Di foltissima nebbia non coperse
     95Del Vatican nell’ammirabil Tempio,
     Ove il saggio pensiero
     Immaginando a tanto colmo egli erse,
     Che d’invitto saper lascionne esempio?
     Con si fatti artifici
     100Figurava i supremi alti giudíci.
Tra folgeri, tra lampi
     Gonfiasi eterea tromba, e sorgon pronte
     Al primo suon le ravvivate membra;
     E negli aerei campi,
     105Almo a veder! con ineffabil fronte
     L’Onnipotente giudicarle sembra;
     Ed a’ seggi superni
     Altri n’assegna, altri agli abissi inferni.
Chi gli occhi ivi tien fisi,
     110Scorge i fianchi anelar, batter i polsi:
     Cotanto può l’inimitabil destra;
     E dai dipinti visi
     In altrui spira, onde s’allegra e duolsi:
     Si dell’anima altrui fassi maestra;
     115Non pennel, non pittura;
     Dono del Ciel, per avanzar natura.
S’ei giù dagli antri foschi
     Risorgesse del Sole ai raggi lieti,
     E sentisse il tenor di tante glorie,
     120Certo, o gran re de’ Toschi,
     Farebbe sfavillare ampie pareti,
     Dipingendo il fulgor di tue vittorie;
     E così nobil palme
     D’ogni intorno a mirar trarrebbe l’alme.
125Io che farò, che a torto
     Cigno mi chiamo, e de’ cantori egregi
     Sul Parnaso la via quasi ho smarrita?
     Sol posso aver conforto,
     Che in celebrarli, i vostri alteri pregi
     130All’intelletto altrui pongono aita;
     Quasi velate antenne,
     Che a nave non son peso, anzi son penne.
Cor mio, non veniam meno;
     Fatti franco per via: lento cursore
     135Passo passo trapassa Alpe selvosa;
     Ma che Anfitrite in seno
     Raccolga armata di più fier valore,
     O più lieve in solcare onda spumosa,
     Che ove legno Toscano
     140Ara i gran stagni, è l’affermarlo invano: .
Bei golfi Tarentini,
     Capo Colonne, e voi montagne Etnée,
     Che udite di Cariddi i fier latrati,
     Quali spalmati pini
     145Sen giro mai per le campagne Egée
     Le brame ad appagar d’aspri pirati,
     Come dianzi sen giro
     I remi rei che di Biserta usciro?
Guardò reale stuolo,
     150Dell’Iberia sul mar somma possanza,
     La costor fuga a solo scampo intesa;
     Ne persegui lor volo.
     Perchè di ben finir senza speranza
     Sembra sciocchezza cominciare impresa;
     155Non posaro pertanto
     I legni armati del Signor ch’io canto.
Nuvolo orrido e scuro,
     Che a’ fieri soffj d’Aquilon sen vada,
     O trascorso di stella in ciel ben chiaro,
     160A rimirarsi furo
     Sul largo pian della Nettunia strada;
     In un momento i predator domaro,
     Ma vergogna sommerse
     Ogni fanal che la Vittoria scerse.
165Deh dove corro? obblío
     L’uso del mondo? Ei dall’invidia oppresso,
     Altri esaltarsi volentier non ode;
     Febo, ma che poss’io,
     Se tu mi mandi dal gentil Permesso,
     170Perchè di Ferdinando alzi la lode;
     E s’ei con man cortese
     D’un’amorosa fiamma il cor m’accese?
Oh chi tra’ monti ombrosi
     Colà m’asside, celebrata sponda,
     175Ove Fiesole bella il pian rimira?
     Ove son prati erbosi,
     Ove trascorre limpidissima onda,
     Ove d’ogni stagion Zefiro spira,
     Ed ove oscuro velo
     180Nube non stende ad oltraggiarne il cielo.
Quivi in speco remoto
     Dall’altrui ciglia in solitario chiostro,
     Atropo e Cloto, oh mi filate gli anni;
     Ed io con cor divoto
     185Farò belle ghirlande al Signor nostro.
     A che tante vaghezze e tanti affanni?
     Virtute al ciel ne mena,
     Tesor quaggiuso n’accompagna appena.

LXXIV

Quando si espugnò Bona in Barberia, si feciono schiavi mille quattrocento sessanta Turchi.

VII

Per la trascorsa etade,
     Arno, tuoi figli illustri il crine adorni
     85Tra vaghi rami d’immortali allori,
     In sul depor le spade,
     Trionfando al piacer sacraro i giorni,
     In cui vestendo acciar fur vincitori,
     E nell’altrui memoria
     90Ben fondaro i trofei della lor gloria.
Quinci, non men che il vento,
     Corre drappel di barbari destrieri,
     Empiendo di stupore il popol folto;
     Lodato accorgimento;
     95Che tuffare in obblío suoi fatti alteri
     Apparisce pensier di core stolto:
     E tra’ grandi è concesso
     Onorar la virtute anco in sè stesse.

[p. 52 modifica]

Con qual dunque corona,
     100Bella Flora, nel sen delle tue mura
     Farassi onore eterno al dì presente,
     In cui l’orribil Bona
     Dentro nembo di pianto il ciglio oscura
     Per gli aspri assalti di tua nobil gente?
     105Certo in Dedalei marmi
     Déi le prove scolpir di sì belle armi.
E se feroce in guerra
     Cosmo ara il mare, ed orgogliosi liti
     Fa tremar di suo nome in strani modi;
     110E noi lunge da terra
     Varchiamo, Euterpe, e trascorriamo arditi
     Il profondo oceán delle sue lodi:
     Ma non verso l’aurora,
     Sol verso Libia oggi volgiam la prora.
115Deh sarpa, e lascia il porto;
     Né ti punga pensier che si prepari
     L’arida Invidia a suscitar tempesta.
     Hanno gli eroi conforto,
     Se imperversando, a renderli più chiari,
     120L’acerbissimo mostro il calle infesta;
     Virtù non combattuta
     Trova la Fama o taciturna o muta.
Già Greco stuolo invitto
     Trascorse d’oceán lunghi vïaggi,
     125Di che il mondo ascoltando anco s’ammira,
     E per l’alto tragitto,
     Nel più sublime ciel tra’ vaghi raggi,
     La celebrata nave oggi si mira;
     E ben lunge da Lete
     130Se ne vola Giason tra l’aure liete.
Ei prese a scherno l’onde,
     Soverchiò l’invincibili percosse
     Di quei mai sempre formidabil scogli;
     Corse barbare sponde,
     135Ed in risco mortal nulla si mosse
     Di straniero tiranno a’ crudi orgogli;
     E spense in gran Teatro
     Forti guerrier per incantato aratro.
È ver; ma per tal via
     140Chi trasse l’orme dell’Achéo guerriero?
     La cagion dell’oprar corona l’opra.
     Se ’l vero non s’obblía,
     Del tesor sì famoso il vello altero
     Ad ogn’altro desire andò di sopra;
     145E ricchezza, possente
     Sul cor del vulgo, gl’ingombrò la mente.
Il Signor de’ miei versi
     All’onorate vele aura non spande,
     Male adescato da vaghezze avare;
     150Ma stima ben dispersi
     I tributi raccolti, ond’egli è grande,
     A far sicure l’ampie vie del mare;
     E perchè allegri il seno
     Varchino i nocchier nostri il gran Tirreno.
155Quinci ei gonfia la tromba,
     Onde a Nettun nel grembo ogni orgoglioso,
     Palpitando d’orror, cangia sembiante;
     E con bronzi rimbomba,
     Tal che scuote le sponde al mar spumoso
     160Dalle foci d’Oronte al vasto Atlante;
     Ed ivi empionsi i Tempi,
     Schermo pregando a’ paventati scempi.
Ma fia che d’Elle il varco
     Un dì s’allarghi all’animoso volo
     165Delle navi a ragion tanto temute:
     E già d’angoscia carco
     Il popolo di Bona innalza il duolo,
     Ne sa, lasso, tener le labbra mute;
     E fa stridendo auguri
     170Dell’aspettato mal su i dì futuri.
Sferzisi il carro aurato
     Dell’acceso Flegonte, e di Piróo
     Al desiato dì giungansi l’ali;
     Che io tra’ bei lauri ornato
     175Ardo di saettar sul lito Eóo
     D’Apollinea faretra inni immortali;
     E far per piaga eterna
     Fremere Invidia nella valle inferna.

LXXV

Quando si sorprese Biscari in Barberia, e Chierma in Natolia, e fecersi altre imprese nelle marine d’Africa e di Levante, con ottocentonovanta schiavi Turchi.

VIII

Fia che altri forse
     Vada cantando
     Per entro il suo pensiero
     L’età che corse
     5Nel mondo, quando
     Saturno ebbe l’impero.
     Allor non d’oro inghirlandato i crini
     Alcun regnante apparse;
     Nè cupido cosparse
     10Sul riverito scettro Indi rubini;
     Nè depredaro
     Strane pendici
     Le mansuete genti;
     Ma si stimaro
     15Ricchi e felici
     Pur con greggie ed armenti.
Allor donzella
     Per ôr superba
     Non impiagava un core;
     20Ma pastorella
     Scalza infra l’erba
     Tendea l’arco d’amore;
     Nè di Parnaso il popolo, ingegnoso
     Fabbricator di carmi,
     25Cantò gli assalti e l’armi
     Del fiero Marte a verginelle odioso;
     Anzi tra’ venti
     Su verde riva,
     Là ’ve l’onda scendea,
     30Disse i tormenti,
     Di che gioiva
     Titiro e Galatea.
Sì fatta etade
     Altrui diletti.
     35Vario è l’umano ingegno:
     Cantar beltade
     Fra rozzi tetti
     Me moverebbe a sdegno:
     Me palme a celebrar di Duci invitti
     40Nobil vaghezza accende;
     E a gir dove risplende
     Di marmi e d’ôr l’incomparabil Pitti;

[p. 53 modifica]

     Altera sede,
     Ove è ben noto
     45Cosmo in armi possente;
     Caro alla Fede,
     D’Astrea divoto,
     E pur sempre clemente.
Rettor superno,
     50Cui trema il mondo,
     Cui l’alto Olimpo adora,
     Col guardo eterno
     Rendi giocondo
     Via più suo scettro ognora:
     55Ne sol fassi per me calda preghiera
     A tua bontà divina;
     Nè solo a te s’inchina
     Perciò d’Arno real l’ampia riviera:
     Ma quanto inonda
     60Tra spume avvolta
     L’Italïana Teti,
     Ed ogni sponda,
     Ove s’ascolta
     Di Dio gli alti decreti.
65Alma cortese
     Ver chi le giova
     Larga esser suol d’onore;
     Ma qual s’intese
     Nel mondo prova
     70D’altrui giovar maggiore
     Che spalmar selve, e stancar schiere armate,
     E dispensar tesori,
     Togliendo a’ rei furori
     Le braccia de’ cristiani incatenate?
     75Certo fra’ mali,
     Che altrui gioire
     Han di guastar virtute,
     Gli egri mortali
     Non san soffrire
     80Peggio che servitute.
Ed io pur vidi
     Freschi Aquiloni
     Gonfiar vele Tirrene;
     E forti e fidi
     85Toschi Campioni
     Scior barbare catene;
     Onde dell’Asia e della Libia i mari
     Lascian popoli folti,
     E tornano disciolti
     90Ad adorar presso i paterni altari.
     Algier l’afferma,
     Biscari insieme,
     Che n’han bassa la fronte;
     Ne men Chierma
     95Col mar che freme
     D’intorno a Negroponte.
Ad ampia gloria
     Ben lungo canto
     Melpomene apparecchia;
     100Breve memoria
     Di lungo vanto
     Chiede ben dotta orecchia.
     Or dove dunque volgeremo i passi?
     Là ’ve prudenza chiama.
     105Piume rinforza, o Fama,
     A’ tuoi gran piè di camminar non lassi,
     Ed al gran tergo:
     Poi tra le sfere
     Va de’ superni chiostri,
     110Ove hanno albergo
     L’anime altere
     De’ gran Medici nostri.
Forma tai note
     Tra gli almi eroi,
     115Già tanto illustri in terra;
     Di’ che il nipote
     Nei sentier suoi
     Dall’orme lor non erra;
     Che i raggi, onde rifulge alto Loreno,
     120Intentamente ei mira,
     E che il guardo non gira
     Dai lampi, onde rifulge Austria non meno:
     Mai sempre avverso
     Alle bevande,
     125Con che Circe avvelena;
     E sordo inverso
     Al suon che spande
     Qual più scaltra Sirena.

LXXVI

Quando si sorprese Agrimane, fortezza in Caramania, conquistaronsi due galere di Fenale, furono liberati duecentotrentasette Cristiani, e fatti schiavi duecentoquarantatre Turchi.

IX

Secondimi bel vento,
     Or che a’ lidi lontani
     Tra’ golfi Caramani
     L’ardita prora io giro.
     5È ver l’alto lamento
     Su l’estrane contrade?
     E le Toscane spade
     Alto colà feriro?
     Memorabile ardir! non sbigottiro
     10Dell’Ottomano Impero,
     Ove correr dovean tanto sentiero?
Ma per ogni tragitto
     Tra’ più fieri disdegni
     Potran sì nobil legni
     15Schernire ogni periglio,
     Posciachè, Cosmo invitto,
     Lor disleghi le sarte,
     E nei campi di Marte
     Sen van col tuo consiglio;
     20Tu da buon segno non rivolgi il ciglio,
     Nè tenti impresa, dove
     Contra indegni ladron non sian tue prove.
Per qual Egéo profondo
     Dunque non fian securi,
     25Se tu con lor procuri
     Sol del gran Dio l’onore?
     Dio pose in stato il mondo,
     Ei la terra corregge;
     Ed egli anco dà legge
     30Del mare al fier furore:
     Noto è per sè; pure allegriamo il core
     Con alta rimembranza,
     Certo argomento d’immortal possanza.
Chi potrà non stupire,
     35Sul pelago Eritreo

[p. 54 modifica]

     Allor che ’l vulgo Ebreo
     Mirabil varco aperse?
     Seppe, strano ad udire!
     Seppe il fondo asciugarsi,
     40E pur quasi arginarsi
     Per Israel sofferse;
     Ma l’empie torme a lui seguir converse
     Nell’onda appena entraro,
     Che tutte disperando il piè fermaro.
45Ove troppo orgoglioso
     Ebbe l’Egitto in grembo,
     Fiero ed orrido nembo
     Quell’oceán trascorse;
     Rimbombante spumoso
     50Tra’ gorghi intenebrati
     Di Menfi i duci armati,
     E Faraone assorse.
     Qual tuono allor d’alte querele sorse?
     Altri grida, altri geme;
     55Al fin tutti sommerge il mar che freme
Sull’Arabiche arene
     Lieto Israel sel mira,
     E l’opra eccelsa ammira,
     Ed a cantarne prende.
     60Così tra’ rischi e pene
     E tra’ villani oltraggi
     Fa lieto aspri vïaggi
     Chi Dio scôrge e difende.
     Saettator d’inferno arco non tende,
     65Che a piagar sia possente,
     Se la forza del Ciel non gliel consente.
Quinci in lieta ventura
     Vêr li campi marini
     Fur del gran Cosmo i pini
     70Alle Cilicie foci;
     E d’Agriman le mura
     Posero in ampio ardore,
     Ed alte poppe e prore
     Soggiogaro a lor voci;
     75All’apparir delle parpuree Croci
     Gittaro a terra i brandi
     Le colà più stimate anime grandi.
Certo per l’Orïente
     Durerà fresco il pianto;
     80Nè di sì nobil vanto
     Trïonferà l’obblio:
     L’esterrefatta gente,
     Che in Agriman fa nido,
     Alza funereo grido
     85Sul duolo acerbo e rio;
     Ed a’ suoi parla: Omai s’altri ha desio
     Salvarsi il patrio tetto,
     Di vile sonno non ingombri il petto.
Con navi sì spalmate
     90Eolo che avverso spiri,
     O Nettun che s’adiri,
     In van per noi contrasta;
     E d’ampie torri armate
     È vana ogni difesa
     95Là dove fa contesa
     Spada Toscana ed asta.
     Ob quale a noi di pianto, oh qual sovrasta
     Nembo d’aspre querele
     Sposti al furor dell’invincibil vele!
100Fallace uman conforto,
     Fallace; ahi lassi, quando
     Cadde il gran Ferdinando1,
     Liete fur nostre ciglia;
     Ed ecco oggi è risorto,
     105Di cui vera virtute
     Sul fior di gioventate
     A più temer consiglia.
     Arno a’ secoli nostri arma famiglia,
     Per cui dall’Asia un volo
     110Prende letizia, e l’abbandona in duolo.

LXXVII

Quando predossi alle Cherchenne, e sopra Tabarca, e nel Canale dell’Idra, alla Capraja, a Capo Bono, e si feciono franchi duecentosei Cristiani e schiavi duecentoquindici Turchi.

X

Certo è che al nascer mio, non come ignoto
     Le Muse mi lattaro,
     Perchè al nome di lor fossi devoto;
     Onde, benchè vêr me l’oro mirassi
     5Di se medesmo avaro,
     Non mai lungi da lor mossi i miei passi:
     Così tra selve, e sopra aerei sassi,
     E per solinghi liti
     A’ mormorii correnti
     10Di silvestri torrenti
     Trassi i miei dì romiti;
     E discendendo dalle cime alpine
     Cercai le più riposte onde marine.
Spesso m’apparve Euterpe, e dolcemente
     15Sostenne i pensier miei
     Contra i dispregi della volgar gente;
     E sorridendo m’affermò che aita
     Pur finalmente avrei
     Nei duri incontri della mortal vita.
     20Sciocchezza estrema, colà dove invita
     Sovrammortal possanza
     A ben sperare un core,
     S’egli perde vigore,
     Ne sa nudrir speranza.
     25Io raccolsi quei detti, e prestai fede,
     E di felicità son fatto erede.
Cosmo rivolse in me sua man cortese,
     Ed alzando mio stato,
     Meraviglioso a’ popoli mi rese.
     30Però consagro a’ pregi suoi mia lira;
     Chè verso un core ingrato
     Ogni bell’alma e tutto il ciel s’adira.
     Dunque, vergine Clio, lieta rimira
     De’ miei cotanti prieghi
     35A’ cupidi fervori;
     E de’ tuoi gran tesori
     Gemma non mi si nieghi:
     Scegli la più gentil che abbia Elicona,
     Onde io cresca fulgor di sua corona.
40Che se quaggiuso in terra animi amici
     Empionsi di diletti,
     Ascoltando de’ suoi guerre felici,
     Lunghissimo gioir non verrà meno
     Degl’Italici al petto,
     45Se io tesso istoria di valor Tirreno.

[p. 55 modifica]

     Ecco del nostro mar nell’ampio seno
     Cascò d’obbrobrj carca
     Aspra turba Ottomana;
     E per l’onda Africana
     50Pure mirò Tabarca
     Stringersi in ceppi musulmani arcieri
     Sotto il fischiar di fiorentin nocchieri.
     Ninfe marine a Capo Bono udiro
     Di falangi perverse,
     55Piangendo libertà, lungo martiro:
     E nel golfo dell’Idra acerbo scorno
     Altra turba sofferse,
     E venne afflitta a rallegrar Livorno.
     Cose, onde il grido che risuona intorno,
     60E per saggi s’apprezza
     Meco stesso rammento:
     Non ha stabilimento
     La mortale grandezza,
     E nel mondo quaggiù regna vicenda:
     65Convien che altri sormonti, altri discenda.
Cartago era di Libia alta reina,
     Poscia rasa le chiome
     Serva si fe’ della virtù Latina;
     Ed or d’orror miseramente involta
     70Solo serba suo nome
     Per l’immense ruine ove è sepolta.
     L’ordine con Livorno oggi si volta;
     Nella stagione antica
     Fu piaggia paludosa,
     75Dimora travagliosa
     Di vil gente mendica,
     Ch’estate e verno sosteneva affanni,
     Tessendo a’ pesci con la rete inganni:
Ora ampie strade ed indorati tempj,
     80Ed afforzate mura,
     Ed alte torri, oltra gli umani esempi,
     E contra i varchi altrui fosse profonde;
     E con Dedalea cura
     Immobil mole al tempestar dell’onde.
     85Ad onta d’ottoman, da quali sponde
     Non s’adducono palme
     Per ornar questi porti?
     Oh come in viso smorti
     Percotonsi le palme
     90Del superbo tiranno i servi avari,
     In mirar tanto minacciati i mari!
Ed ecco da lontan carco di doglie,
     Di Tripoli sul lido
     Oggi il ricco Bassà pianger sue spoglie,
     95E dir contra Macon bestemmie orrende,
     Perchè il popol suo fido
     Da’ toscani guerrier non si difende.
     Donna del Ciel, cui notte e giorno splende
     Di Montenero in cima
     100Altar fra’ voti immensi,
     A te spargansi incensi;
     Che la tua man sublima
     Di Cosmo il nome, e tra’ marin perigli
     Tu governi, o Beata, i suoi consigli.

LXXVIII

Quando si conquistarono le galere Capitana e Patrona di Amuratto nei mari di Negroponte, fecersi duecentonove schiavi Turchi, franchi quattrocentoventi Cristiani.

XI

Per me giaceasi appesa
     La cetra, onde si gloria
     La nobile armonia del gran Tebano:
     Ma sul mare alta impresa,
     5E novella vittoria
     Fa che ben pronto a lei stenda la mano,
     E varie corde a risvegliar mi tira,
     Soavi lingue dell’Aonia lira.
Begli orti, aurati tetti
     10(Ben chiaro oggi si vede)
     Non quetano, re d’Arno, i tuoi desiri;
     Ma fin de’ tuoi diletti
     È d’onor farsi erede,
     A cui l’altrui vaghezza indarno aspiri;
     15E così di virtù correre i campi,
     Che orma a te da vicino altri non stampi.
Ecco all’Egéo d’intorno
     Spandono monti e lidi
     Gioconde voci ad ascoltar non use.
     20Dobbiam dunque in tal giorno
     Al suon di tanti gridi
     Non rinchiuder le labbra, inclite Muse,
     Ma tender archi, e far volare, o Dive,
     Per l’Italico ciel saette Argive.
25Correan cerulee strade
     D’Ottoman stuoli armati,
     Per ira a rimirarsi orridi in faccia,
     E con ritorte spade,
     Le terga faretrati,
     30Già faceano all’Italia aspra minaccia,
     Condennando, ebbri di fallace speme,
     I nocchier nostri alle miserie estreme.
Udían nostre querele,
     E di nostro cordoglio
     35Faceano immaginando il cor contento.
     Ma popolo crudele
     Non sa, che umano orgoglio
     Suole aver da vicino il pentimento;
     E che nell’alto dal monarca eterno
     40I superbi pensier prendonsi a schierno.
Rideano, ed improvviso
     Ecco prore Tirrene
     Ai venti care e non men care all’onde:
     Quinci, sbandito il riso,
     45Trasser dure catene
     Quegli empj, di Livorno in sulle sponde;
     E crebber lagrimando alteri pregi
     D’Arno vittorïoso ai Duci egregi.
D’augelli infra le piume,
     50Quale è d’aquila il morso,
     O qual de’ pesci entro i salati regni
     Delfino ha per costume
     Far strazio: tale in corso
     Del magnanimo Cosmo or sono i legni;
     55O qual d’orrida tigre ed unghia e denti
     Fra la viltate de’ vellosi armenti.

[p. 56 modifica]

Di piaghe alcun non dica;
     Che bella rimembranza
     D’un trofeo raddolcisce anco la morte;
     60Ed è parola antica,
     Che col sangue s’avanza
     Chi nell’armi desía nome di forte;
     E sa ciascun, che i cavalier sublimi
     Son tra gli assalti a trovar morte i primi.

LXXIX

Quando nelle marine di Corsica si conquistarono due galeoni, fecersi schiavi centosessanta Giannizzeri.

XII

 
Se allor che fan ritorno
     Co’ Traci incatenati
     Le belle di Firenze armate prore,
     Dovesse alzar Livorno
     5Tronchi di spoglie ornati
     Per vero testimon d’alto valore,
     Già foran di trofei carchi suoi lidi;
     Ch’estate mai non riede
     Senza mirare afflitti i mari infidi
     10Da celebrarsi prede.
Dianzi udiro le sponde
     Di Corsica guerriera
     Cavi bronzi avventar fulmini e lampi
     E rosseggiaro l’onde
     15Per battaglia aspra e fiera,
     E furo di Nettun funesti i campi.
     I Gianizzeri fier sul gran momento
     Arser d’alta virtute,
     Che non si combattea lana ed armento,
     20Ma la lor servitute.
Qual crudi orsi vellosi
     Vibrano l’unghia e ’l dente,
     E contra il cacciator cercan difesa,
     Tale i tanto famosi
     25Campion dell’Oriente
     Nel periglio sovran fecer contesa
     Ma nulla fu; poichè feroci esempi
     Lasciaro infra’ nemici,
     Caddero al fin: gli scellerati e gli empi
     30Son mai sempre infelici.
Allor gl’incliti legni
     Volgean le vele ardite
     Il gran Livorno a rallegrar non tardi
     E negli umidi regni
     35Le figlie d’Anfitrite
     Verso loro tenean cupidi i guardi.
     Cosparso di coralli, alteri fregi,
     Suonava il buon Tritone,
     Ma Proteo alzava canti, e crescea pregi
     40Di Cosmo alle corone.
Dicea Forza Ottomana,
     Per cui giacquer disperse,
     Strano a pensar! tante province altere
     La discordia cristiana
     45Fu che il varco t’aperse
     A cotanto splendor, non tuo potere;
     Discordia, mostro fier del tetro inferno,
     Che foco orribil spira;
     Ministra rea del correttor superno,
     50Allor ch’egli s’adira.
Ma se giammai sapranno
     Pigliar nobil consiglio
     I Re d’Europa, ove il gran Dio s’adora,
     Maomettan Tiranno,
     55Vedransi in gran periglio
     I ricchi regni, onde esce fuor l’Aurora:
     Che non faranno allor cotanti stuoli,
     Carchi di tante glorie,
     Se oggi di Cosmo gli stendardi soli
     60Han cotante vittorie?
Mentre ei lieto dicea,
     Apparve i crespi crini
     Di bianche perle inghirlandata Dori;
     E l’alma Galatea
     65Su’ frenati Delfini
     Movea pensosa de’ passati amori;
     E prese immantenente a’ cari modi2
     Dell’armonie soavi,
     S’inviaro a Livorno, e davan lodi
     70All’onorate navi.

LXXX

Quando a Capo di Spartivento in Calabria si conquistò un Galeone, e nell’Arcipelago sotto la fortezza di Schiatti si prese una galera. Liberati duecentotrentadue Cristiani, fatti schiavi duecentotrenta turchi.

XIII

Cosmo, sì lungo stuol lieto in sembianza,
     Che a’ tuoi piedi s’atterra oggi dal seno,
     Perchè franco lo fai, letizia spande.
     Ei dee ben conservar la rimembranza
     5Di questo giorno, e tu di lui non meno,
     Che quante volte in terra anima grande
     Felicità comparte,
     D’assimigliarsi a Dio ritrova l’arte.
Sforza dunque, o mio re, l’alto pensiero,
     10Onde gli scettri tuoi splendono chiari:
     So che di torri e che di mura eccelse
     E forte quel che tu governi impero;
     O guardi l’Alpi, o pur difenda i mari:
     So che suoi pidi in lui Cerere scelse,
     15E che le genti industri
     Son di Minerva nelle scuole illustri.
Ma contrastati se ne van repente
     Tai pregj al vento: ecco la terra Argiva
     Langue tra’ ceppi, e di catene è carca;
     20E dell’aspro Quirin l’inclita gente,
     Quando di palme eterne alma fioriva,
     Calpestando superba ogni monarca,
     Trionfo tanto e vinse,
     Perchè la spada infaticabil cinse.
25Dannata vista, e di mirarsi indegna,
     Gioventù, che di gemme orni le dita,
     Che increspi il crine, e che di nardo odori!
     Ell’hassi da mirar sotto l’insegna,
     Che scuotendo cimier minacci ardita.
     30Che dallo sguardo fier versi furori,
     E che d’onor ben vaga
     Esponga il petto a memorabil piaga.

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Di così fatto onor saggio s’accorse
     Giovanni3 il franco, che del Mincio all’onde
     35Lasciò col suo morir l’Italia mesta;
     Poi per quell’orme ognun de’ suoi sen corse:
     E Cosmo di Livorno in sulle sponde
     Oggi l’Etruria a suon d’acciar tien desta,
     E con purpuree croci
     40Manda in battaglia i Cavalier feroci.
Or chi di verde allor non cerca rami
     A far ghirlande? e chi d’Aonii canti
     Agli spirti guerrier non dà tributo?
     Chi può l’armi tacer d’un Inghirami?
     45O la fervida man d’un Sozzifanti?
     O l’intrepido cor d’un Montacuto?
     O biondo Apollo, o Dive,
     Di ciascun taccia chi di lor non scrive.
Certo nel petto mio sembra, che avvampi
     50Ardor di Febo: o Calabrese arena,
     Che a te non corra, io me frenar non basto:
     E non men dell’Egeo trascorro i campi,
     Ove le turche braccia aspra catena
     Costrinse al fin dopo mortal contrasto;
     55E sol miro dolente
     Schiatti, che bronzo fea tonare ardente.
Potrei de’ fregj, onde Parnaso adorna
     L’altrui virtude, oggi abbellir miei versi.
     Bacco in mente mi vien sul lido Eoo;
     60E so, che svelte rimirò sue corna
     Dopo lung’arte negli assalti avversi
     Sotto l’Erculea man vinto Acheloo;
     E che campagne arate
     Dieder non spiche, ma falangi armate4.
65Rammento l’Idra, e i fieri incontri e crudi,
     Se mai la turba delle teste orrende
     Il germe fier d’Anfitrïone assalta:
     Questi son delle Muse egregj studi
     Chè ogni vigilia a gran ragion si spende,
     70Allor che merto di valor s’esalta;
     Ma quando alto ei lampeggia,
     Par che ornamento fuor di sè non chieggia.

Note

  1. Ferdinando I, padre di Cosmo II, morì nel 1608.
  2. Prese a’ cari modi. Elegante locuzione, e vuol dire: rapite all’udire i cari modi.
  3. Allude a Giovanni Medici, generale italiano, celebre per la sua intrepidezza nel principio del secolo XVI. Discendeva da Lorenzo il vecchio, fratello di Cosimo, padre della patria. Fu padre di Cosimo, il quale, mancato il ramo primogenito de’ Medici, fu primo granduca di Toscana. Questo Generale prestò i suoi servigi ai papi Leone X e Clemente VII suoi parenti; alla Repubblica Fiorentina contro il Duca d’Urbino: nella guerra tra i Francesi e gl’Imperiali in Lombardia, or sotto gli uni, or sotto gli altri, ma sempre tenendo le parti del Pontefice. Morì presso Mantova d’un colpo di falconetto, inseguendo il capitano Fronsperg, quello stesso che poi saccheggiò Roma. suoi soldati gli erano così affezionati, che tutti vestirono a lutto; nè più avendo dismesso il color nero, furono chiamati le così dette Bande nere, famose in quella guerra per ferocia e valore.
  4. Allude a Giasone.