Scritti politici e autobiografici/Fuga in quattro tempi/Primo tempo
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Fuga in quattro tempi - Secondo tempo | ► |
Primo tempo.
Siamo non meno di cento nel «pozzo». Il «pozzo» è il transito ufficiale del carcere di Palermo.
Confusione e luridume. Ergastolani che assaporano la brusca rottura della disciplina ordinaria, mafiosi sfollati dalla cloaca massima rigurgitanti, liberandi che debbono patire settimane di traduzione, coatti, confinati.
È un vociare confuso, rotto da qualche protesta più alta per la minestra che non viene.
Parri, Da Bove, Albini, Spirito, Amelio sono con me. Facciamo circolo su una coperta. Albini è desolato, l’hanno destinato a Lipari. Noi andiamo a Ustica. Gode queste ultime ore in comune come un innamorato. Albini ha 58 anni, ma è fiero di portarsi come un giovanotto. Per trent’anni ha fatto l’impiegato alla Cassa di Risparmio di Milano e ha tenuto, alla sera, cattedra di critica drammatica sull’«Avanti!». Ferocissimo, intelligentissimo critico.
La prigione ha voluto dire per Albini: lettura. Legge con ingordigia, a razioni mostruose. Suoi piatti forti: Diderot, Voltaire. Liquidate le 400 pagine giornaliere, Albini passeggia con me intorno alle brande. Alla notte dorme come un bebé di due anni. Se non ci fosse la signora Eugenia a crucciarsi nella solitaria casa di via Guastalla, l’«Albinacc» sarebbe contento di passare gli anni che gli avanzano prigioniero in una biblioteca.
Il vociferare si fa tumulto, si corre verso la porta che domina il «pozzo» dall’alto di una scala. Siamo chiamati. Abbracciamo Albini, emozionatissimo. Il distacco da Parri, che lo trattava come un bimbo grande viziato, lo fa soffrire.
Notte lunga, notte eterna, nell’ultimo transito. Triste dolcezza dell’ultimo tramonto dalla prigione. Si vedono gli alberi del cortile, i merli del vecchio castello, la Direzione e una grande fetta di cielo.
Vegliamo al lume di una candela. Un coatto toscano, occhi verdi e parlantissimi, mi presenta il suo caso e mi introduce alla vita dell’isola.
Questa promiscuità dopo qualche ora pesa. Liti brevi, sonni fragorosi, conversazioni sommesse, rumori d’ogni sorta e natura — molta natura — si confondono.
Il carcere si addormenta lentamente.
Suonano le ultime campanelle.
Passano stracchi i pochi guardiani. Da Savona a Palermo quante razze diverse di guardiani. Qui sono trasandati e camorristi, ma forse più umani.
Giungono sino a noi i rumori della vita di fuori, dell’altra vita, di quella che noi chiamiamo «normale». Ero a Palermo, «en touriste», sette anni fa, proprio in questo mese di maggio. Chi sa quante volte sono passato davanti alla porta di Ucciardone, senza pensare.
Divertente questo parallelo. Inseguimento di pensieri. Ritmo più rapido, cinematografia. Conduco la fantasia per mano come una bambina curiosa che si arresta davanti a ogni vetrina. Fermiamoci a casa. Sarà nato a quest’ora il Mirtillino? (è già deciso che lo chiameremo così). Savona, Carrara, Como, Milano, processo. Roma. Interrogativi per il confino. Suvvia, dormiamo. Non si può. Cerchiamo l’ora. Non si riesce ad afferrarla. L’inseguimento dei pensieri prosegue. Guardo Parri. Come il suo viso fine, pallido, incorniciato da una barba di venti giorni, spira nobiltà. Parri è la mia seconda coscienza, il mio fratello maggiore. Se la prigione non mi avesse dato altro, la sua melanconica amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono tristi, terribilmente tristi e solitari. Scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c’è nel fondo del loro essere una tragica disperazione, una specie di disperazione cosmica. La vita è per loro dovere. Fino alla conoscenza di Parri, l’eroe mazziniano mi era parso astratto e retorico. Ora me lo vedo steso vicino, con tutto il dolore del mondo ma anche tutta la morale energia del mondo, incisa sul volto.
Anche Parri non può dormire. Le invernate in trincea lo fanno soffrire.
Domani, finalmente, arriveremo.
Domani no, stamani. Sono le due. La guardia dice: «Fuori con tutta la roba». Le valigie e i sacchi sono pronti, la coperta è piegata — questa cura nel piegare il cencio sconcio ha un sapore ironico — il gregge è pronto per uscire.
Sortiamo. Eterne formalità dei guardiani assonnati o esasperati. Arrivano i carabinieri. Otto. Il canto delle catene accompagna il passo pesante. Visi di ragazzi sepolti sotto il gigantesco tricorno.
In fila, ci contano, ci ricontano, ci chiamano e ci richiamano. Bisogna farsi una mentalità da pacco postale, in traduzione. Manette, catene. Il carabiniere addetto ai chiavistelli è cattivo stamani. Stringe la manetta stretta stretta. Saranno pasticci per la valigia.
«Avanti, march». Ma non si marcia. Il traffico per abbracciare valigie e sacchi è laborioso. Il brigadiere urla, qualcuno debolmente protesta; nuove urla, spintoni, minacce. «Chi vi insegna a portare questa roba? Vi faccio vedere io. C’è bisogno di tutta questa roba?». Parri ha il viso pallido e le orecchie di bragia. Grida: «Queste cose le dica al “suo” governo». Al «suo» governo. Il possessivo è sottolineato aspramente.
Il brigadiere d’incanto si tace. Forse i distintivi delle medaglie che «noi» abbiamo pregato Parri di portare, hanno fatto il miracolo. Quei distintivi, che Parri chiama «chincaglierie» hanno già fatto abbassare gli occhi ai fascisti, sul piroscafo. Altra volta, in piena stazione di Roma, alle otto di sera, pensiline gremite, solcare la folla incatenati con un sorriso sardonico che è tutta una filosofia politica e un giudizio sul carattere italiano.
Finalmente si parte. La colonna marcia pesantissima.
Sbarco a Ustica. Un pugno di casette basse, bianchissime, arrampicate su una terra pietrosa e bruciata. Bellezza tragica e nuda; atmosfera greca, civiltà africana.
Cadono ferri e catene. Un po’ di massaggio ai polsi, formalità, saluti e poi via in ricognizione per i vicoli sporchi e animatissimi: maiali, galline, cani, pulcini, guardie, confinati, coatti. L’arca di Noè non doveva essere precisamente piacevole. Eppure, quale ebbrezza strana mi prende? Questo primo giorno di vita usticese è eccitante, mi pare d’essere nato una seconda volta.
Dopo una lunga prigione il primo giorno di confino è l’orgia, l’esplosione dell’«io» fisico.
Sì, lo so: tra otto giorni non sarà più così. Tra otto giorni sarà peggio forse che in prigione. Ma intanto lasciatemi godere. Il nostro destino è di perdere in estensione e di guadagnare in intensità. In un giorno noi conquistiamo quello che una vita banale e volgare non darà mai. Anche in prigione, nell’aula della Corte d’Assise di Savona, abbiamo toccato punte altrimenti inaccessibili.
Tutta la nostra vita è tesa in questo sforzo di arrivare, per un’ora, altissimi. Che importa sapere che si dovrà poi ridiscendere? Chi si è sollevato su per un «camino» nella montagna rocciosa, mi capisce.
Anche noi siamo in cordata. Parri aiuta me, io aiuto altri. Arriveremo alla cima.