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Il carcere si addormenta lentamente.
Suonano le ultime campanelle.
Passano stracchi i pochi guardiani. Da Savona a Palermo quante razze diverse di guardiani. Qui sono trasandati e camorristi, ma forse più umani.
Giungono sino a noi i rumori della vita di fuori, dell’altra vita, di quella che noi chiamiamo «normale». Ero a Palermo, «en touriste», sette anni fa, proprio in questo mese di maggio. Chi sa quante volte sono passato davanti alla porta di Ucciardone, senza pensare.
Divertente questo parallelo. Inseguimento di pensieri. Ritmo più rapido, cinematografia. Conduco la fantasia per mano come una bambina curiosa che si arresta davanti a ogni vetrina. Fermiamoci a casa. Sarà nato a quest’ora il Mirtillino? (è già deciso che lo chiameremo così). Savona, Carrara, Como, Milano, processo. Roma. Interrogativi per il confino. Suvvia, dormiamo. Non si può. Cerchiamo l’ora. Non si riesce ad afferrarla. L’inseguimento dei pensieri prosegue. Guardo Parri. Come il suo viso fine, pallido, incorniciato da una barba di venti giorni, spira nobiltà. Parri è la mia seconda coscienza, il mio fratello maggiore. Se la prigione non mi avesse dato altro, la sua melanconica amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono tristi, terribilmente tristi e solitari. Scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c’è nel fondo del loro essere una tragica disperazione, una specie di disperazione cosmica. La vita è per loro do-
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