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rato. Albini ha 58 anni, ma è fiero di portarsi come un giovanotto. Per trent’anni ha fatto l’impiegato alla Cassa di Risparmio di Milano e ha tenuto, alla sera, cattedra di critica drammatica sull’«Avanti!». Ferocissimo, intelligentissimo critico.
La prigione ha voluto dire per Albini: lettura. Legge con ingordigia, a razioni mostruose. Suoi piatti forti: Diderot, Voltaire. Liquidate le 400 pagine giornaliere, Albini passeggia con me intorno alle brande. Alla notte dorme come un bebé di due anni. Se non ci fosse la signora Eugenia a crucciarsi nella solitaria casa di via Guastalla, l’«Albinacc» sarebbe contento di passare gli anni che gli avanzano prigioniero in una biblioteca.
Il vociferare si fa tumulto, si corre verso la porta che domina il «pozzo» dall’alto di una scala. Siamo chiamati. Abbracciamo Albini, emozionatissimo. Il distacco da Parri, che lo trattava come un bimbo grande viziato, lo fa soffrire.
Notte lunga, notte eterna, nell’ultimo transito. Triste dolcezza dell’ultimo tramonto dalla prigione. Si vedono gli alberi del cortile, i merli del vecchio castello, la Direzione e una grande fetta di cielo.
Vegliamo al lume di una candela. Un coatto toscano, occhi verdi e parlantissimi, mi presenta il suo caso e mi introduce alla vita dell’isola.
Questa promiscuità dopo qualche ora pesa. Liti brevi, sonni fragorosi, conversazioni sommesse, rumori d’ogni sorta e natura — molta natura — si confondono.
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