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148 | capitolo ventesimosesto |
tuire al vascello quella sacra veste, e quel sistro. Abbici, per dio, compassione siccome è tuo costume. Ei parlava tuttavia quando un colpo di vento lo scagliò in mare, ove tornatosi a galla, la tempesta con un fatal gorgo lo involse, e lo inghiottì.
Quanto a Trifena alcuni schiavi fedelissimi la presero rapidamente, e postala nel palischermo colla maggior parte de’ suoi arnesi, la liberarono da una morte sicura.
Io abbracciatomi a Gitone gridava piangendo: questo almeno meritavam dagli Iddii, che in una egual morte ci avviticchiassero: ma la crudel fortuna non vuole: le onde omai rovesceranno la nave: il mare sdegnato omai dividerà i nostri teneri amplessi. Ah! se tu amasti Encolpo di vero cuore, baciami finchè vi è tempo, e ruba quest’ultimo piacere al destino che ci sovrasta.
A queste parole Gitone si levò la sua veste, e della mia coprendosi accostommi la faccia ai labbri, e perchè i flutti invidiosi non ci dividessero, ci legò dintorno ambedue con una cintura, dicendo: il mar, se non altro, assai più lungo tempo ci porterà congiunti: che se di noi pietoso ci spignesse ad un lido medesimo, o alcun passaggiero per naturale misericordia ci darà sepolcro, o alla fin fine ce lo darà l’inerte sabbia portatavi da nuova ira di mare. Io questo estremo nodo soffersi, e come giacente sul letto dell’agonia aspettavami la morte, che più oramai non mi affliggea.
La procella intanto compì il volere del fato, e gli ultimi avanzi della nave distrusse. Più non rimanea nè albero, nè governo, nè cordaggi, nè remi, e come rozza ed informe materia andavasene a seconda de’ flutti.
Sui piccoli legni accorsero speditamente alcuni pescatori pensando di far bottino, ma come videro persone disposte a difendere le cose sue, così mutarono il loro crudel consiglio e vennero ad aiutarci.