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146 | capitolo ventesimosesto |
Trovandomi così afflitto, ma reso più vago dalla bionda mia zazzera, Lica acceso esso pure di nuovo amore, drizzavami obliqui sguardi, e tentava di rimettermi a parte de’ suoi piaceri: nè sosteneva altrimenti la serietà di un padrone, ma pregava con l’affabilità di un amico, e stette un pezzo, ma sempre invano, istigandomi: infine, costantemente rispinto cangiò l’amore in furore; e usò ogni modo per ottener colla forza il suo capriccio; ma in quel punto entrata inaspettatamente Trìfena vide il disordine di lui, ond’egli turbatosene si raffazzonò presto presto, e scappò fuora.
Dall’altra parte Trifena vieppiù riscaldatasi chiese a che tendea quella sfacciata aggressione di Lica, e mi obbligò d’informarnela; ella fatta pel mio discorso più ardente, e le antiche dimestichezze ricordando, procurò di ricondurmi alle primitive delizie; ma stanco io di tanti incitamenti, mi schermii da’ suoi vezzi. Per il che fatta ella furibonda d’amore mi cinse con larghissimo abbraccio e mi serrò sì stretto che io gettai un grido. Accorse al rumore una delle damigelle, e naturalmente pensò, che io tentassi rapire a Madonna la grazia che io a lei rifiutava, sicchè scagliandosi tra mezzo ci distaccò. Trifena per tal modo schernita, e non appagata nel suo libidinoso furore mi si rivolse con fierezza, e minacciandomi, corse a Lica a fine di vieppiù stimolarlo contro di me, e di opprimermi con reciproca vendetta.
Bisogna però sapere che io fui altre volte carissimo a questa damigella, quand’io era il drudo di Madonna, onde mal sostenne l’avermi sorpreso in quel modo con Trifena, e mandava grandissimi sospiri, de’ quali chiestale io istantemente la causa, ella dopo alquanto di ripugnanza così proruppe: se alcuna gentilezza pur ti rimane non far più conto di colei quanto di una bagascia; e se ti senti d’esser uomo, bada, non appressarti a quella chiavica.