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CAPITOLO VENTESIMOSESTO
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violazione de’ trattati. naufragio.
Trifena stavasi intanto in grembo a Gitone, or mille baci sul petto imprimendogli, ora accomodandogli sulla calva fronte i capegli.
Io malinconico e indispettito di questa rinnovata amicizia, nè di cibi nè di bevande curavami, ma all’uno ed all’altra volgea di traverso occhiate torve e feroci. Tutti que’ baci, tutti que’ vezzi, e ogni altra mollezza che l’oscena femmina a lui facea, erano tante ferite al mio cuore; nè ancora conosceva io stesso, se più del fanciullo sentissi dispetto, perchè mi rubava l’amica, o più dell’amica, che il fanciullo mi seducea. L’una e l’altra cosa era orribile agli occhi miei, e più affliggente della schiavitù passata. Aggiugni che nè Trifena parlavami come confidente e già suo ben accetto adoratore, nè Gitone giudicavami degno di finire il suo bicchiero, nè, ciò che è peggio, il discorso mi rivolgeva forse temendo, per quel ch’io credo, di non riaprire la piaga ancor fresca di Trifena, sul bel principio che riacquistava la di lei grazia. Lagrime figlie del mio dolore innondavanmi il seno, e gemiti dal singhiozzo interrotti, quasi mi uccidevano.