Satire di Tito Petronio Arbitro/14
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
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sapienza di trimalcione.
Andavasi così chiaccherando, allorchè Trimalcione rientrò, e strofinatasi con unguento la fronte, lavossi le mani, e dopo brevissimo intervallo, perdonatemi, disse, o amici: già son più giorni, che il ventre non mi opera a dovere, e i Medici non sanno che dirmene. Tuttavia la scorza di pomo granato cotta nell’aceto mi ha fatto bene.1 Ora spero che debba essere più ritenuto, s’egli non si sovraccarica, altrimenti stammi un romor nello stomaco, come il muggir di un toro. Per la qual cosa se alcun di voi volesse a sua posta ruttare, non ha di che vergognarsene. Nessun di noi è nato d’acciaio, ed io penso non darsi maggior tormento di quello del contenersi. Giove stesso non può impedirci un flato.2 Tu ridi, eh Fortunata, che sai esser tuo costume lo svegliarmi la notte con quel romore. Perciò io non ho proibito a nessuno di fare a tavola tutto ciò che gli giovasse; diffatto i medici vietano il contenersi; che se maggiori bisogni sentiste, qui fuori tutto è disposto, acqua, vaso e le altre minuzie. Credetemi che quando i vapori montano al cervello, cagionan poi la flussione in tutto il corpo. Io so che molti son morti per non aver voluto persuadersene.
Noi di quella sua liberalità e indulgenza il ringraziammo, soffocando poi le risa con frequenti bicchieretti bevuti a sorsi. Nè sapevamo che in mezzo a tante lautezze noi fossimo ancor, come dicesi, a metà del cammino. Allora diffatto levate a suon di musica le mense si condussero nel triclinio tre bianchi maiali, ornati di nastri e di campanelli, de’ quali il cerimoniere diceva aver uno due anni, l’altro tre, e il terzo esser già vecchio. Io mi pensai che insieme ai porci venissero i giocolieri, onde, com’è costume ne’ circoli, far qualche maraviglia. Ma Trimalcione prevenendo ogni dubbio, qual di codesti, disse, amereste voi che in un istante si mettesse in tavola? Così i fittaìuoli pur fanno de’ polli, d’un fagiano o di simili bagattelle: ma i miei cuochi usano cuocere un vitel tutto intero. E in questa fe’ chiamare il cuoco, cui comandò, senz’altro aspettare la nostra scelta, che ammazzasse il più vecchio. Poi ad alta voce gli chiese: di qual decuria sei tu?3 e avendogli risposto, della quarantesima, gli disse: fosti comperato o nascesti in casa? Nè l’un nè l’altro, rispose il cuoco, ma vi fui lasciato per testamento da Pansa. Bada ben, gli soggiunse, a sollecitarti, altrimenti io ti caccerò nella decuria de’ lacchè. E così il cuoco da questa minaccia stimolato andossene col maiale in cucina.
Trimalcione dipoi rivoltosi a noi dolcemente, se il vino non vi aggrada, ci disse, lo cambierò, ma stà a voi il mostrar che vi piaccia. Grazie al cielo, io non lo compro, ma ogni cosa che spetta al gusto nasce in un mio campetto, che io per altro ancor non conosco.
Mi si dice che termini con Terracina e con Taranto. Ora io penso di unir la Sicilia a quelle mie zolle, perchè volendo io andare in Africa, non abbia a navigare per altri confini, che per i miei.
Ma tu, Agamennone, contami: di qual controversia hai tu oggi declamato? Perchè, sebbene io non tratti cause, tuttavia ho fatto i miei studj partitamente; e acciò tu non creda, che io me ne sia annoiato, ho tre Biblioteche, una greca, e le altre latine. Dimmi dunque, se ti piace, l’argomento della tua declamazione.
Agamennone rispose: un povero ed un ricco erano in lite. E Trimalcion disse: cosa è un povero? Grazioso! rispose Agamennone, e gli recitò non so qual controversia. Trimalcione riprese tosto: se questo è un fatto, non è più una controversia; se non è un fatto, ei non è nulla.
Noi lodammo ampiamente questi e simili discorsi. Ed egli proseguì: ti prego, mio carissimo Agamennone, a dirmi se ti ricordi delle dodici fatiche d’Ercole, o della favola di Ulisse. In che maniera il Ciclope con un bastoncello stroppiògli il pollice? Io da fanciullo accostumai di leggere queste cose in Omero.4 Oltre a che io stesso cogli occhi miei ho veduto la Sibilla Cumana sospesa in un pignatto; e quando i fanciulli la interrogavano, Sibilla che vuoi? ella rispondea: morire.5
Ancor non avea svaporate queste fandonie, quando un altro desco carico di quel gran maiale coprì la tavola. Noi ci diemmo ad ammirare tanta prestezza, ed a giurare che neppure un pollastro potevasi cuocere sì rapidamente, e ciò tanto più quanto molto maggior ci parea quel porco di quel che ci era prima sembrato il cignale. Indi Trimalcione guardandolo attentamente, ecchè? disse, questo porco non è stato sventrato? No, perdio, ch’ei non l’è. Chiama, chiama subito il cuoco.
Il cuoco comparve malinconico, e avendo detto ch’egli erasi dimenticato di sventrarlo; che dimenticato? gridò Trimalcione; pensi tu che trattisi di non avervi messo il pepe, e il cimino? spogliati.
Senz’altro indugio il cuoco viene spogliato; il qual tutto mesto stavasene in mezzo a due carnefici. Tutti allora ci posimo a pregarlo, e dire: questo è un accidente; lascialo ti preghiamo: e se altra volta ei mancasse, nessun di noi pregherà più per lui.
Io crudelmente severo non potei trattenermi, che piegandomi all’orecchio di Agamennone non gli dicessi: questo servo deve per certo essere un gran birbante. Avvi alcun che si scordi di sventrare un maiale? non gli perdonerei perdio, se si trattasse di un pesce. Non fece però così Trimalcione, il qual fatta allegra la fronte, disse: or bene, poichè tu sei di sì cattiva memoria, sventracelo qui pubblicamente. Il cuoco, ripreso il grembiale, strinse il coltello, e con man timorosa tagliò qua e là il ventre del porco, ed ecco, dalle ferite allargantisi per l’urto del peso, scappar fuori salsiccie e sanguinacci.
A questo spettacolo tutta la macchinal famiglia de’ servi fe’ plauso, e con istrepito felicitò Gaio; e il cuoco non solo fu ammesso a bere tra noi, ma ricevette eziandio una corona d’argento, ed un bicchiero sopra un bacin di Corinto, il quale da vicino osservando Agamennone, Trimalcion disse: io sono il solo che abbia il vero metallo di Corinto.
Io aspettavami, che per colmo d’insolenza, costui dicesse, che a lui da Corinto si portassero i vasi. Ma egli rispose meglio, dicendo: tu cercherai forse come io solo possegga i veri vasi di Corinto: sappi adunque che l’artefice da cui li compero, si chiama Corinto; chi dunque può dire di aver Corinto, se non chi è padron di Corinto? E perchè non crediate ch’io sia uno stravagante, io conosco assai bene l’origine del metal di Corinto.
Quando Troia fu presa, Annibale6 uomo scaltrito e scellerato ammassò sopra un rogo tutte le statue di bronzo, d’argento, e d’oro, e mise loro il fuoco; da questa mistura si compose un sol metallo, e da questo composto i fabbri formarono vasi, bacini, e statuette. Così dalla mistura di tanti metalli ebbesi quel di Corinto, che non è nè l’un nè l’altro. Permettetemi ancor ch’io vi dica, che io amo più il vetro, ma costoro il ricusano. Se non si rompesse, io lo terrei più caro dell’oro; ma adesso egli è decaduto.
Vi fu già un artefice,7 il qual fabbricò vasi di vetro di tanta solidità, che non più si rompevano di quel che facesser quei d’oro, o d’argento. Avendo adunque fatta un’ampolla di questo vetro purissimo, ed unicamente degna, a parer suo, di Cesare, recossi a lui col suo regalo, e fu introdotto. Ne fu lodata la bellezza, commendata la manifattura, accettata la divozion del donante. L’artefice per convertire l’ammirazione de’ riguardanti in istupore, e conciliarsi del tutto la grazia dell’Imperadore, ripresa dalle mani di Cesare l’ampolla, la gettò fortemente contro terra, e con tanto impeto, che sarebbesi frantumato il più solido e duro metallo. Cesare a questa vista non soltanto istupì, ma spaventossi. Il fabbro levò da terra l’ampolla, che non era rotta, ma soltanto confusa, come se una sostanza metallica avesse usurpata la specie del vetro. Trattosi di poi dal seno un martelletto, corresse egregiamente la contusione, riparandola con molti colpi, come si farebbe di un vaso di rame. Dopo ciò ei si credette di aver toccato il ciel col dito, stimando di essersi meritata la confidenza di Cesare e la comune ammirazione. Ma accadde altrimenti. Imperocchè Cesare gli domandò se altri sapesse codesta manifattura; locchè egli avendo negato, l’Imperadore ordinò, che gli fosse mozzato il capo, dicendo che se quel segreto si manifestasse, l’oro e l’argento sarebbero inviliti come fango.
Io son passionato per l’argento. Tengo dell’urne grandi dal più al meno quanto quelle, in cui Cassandra ripose gli uccisi suoi figli, e vi sono sì bene scolpiti i ragazzi morti, che li diresti veri ragazzi. Ne tengo una lasciatami dal mio aio, su cui vedesi Dedalo, che chiude Niobe nel caval troiano, e Mercurio con Amore,8 onde significare, che nei bicchieri sta la verità. E questi pezzi son tutti di gran peso; ed è perciò che io quando possiedo una cosa, non me ne privo a qualunque prezzo.
Mentre così parlava, un ragazzo lasciò cadersi un bicchiero; e Trimalcione, postigli addosso gli occhi, gli disse: castigati subito da te medesimo, giacchè sei sì sventato. Il ragazzo diessi tosto a pregare sommessamente; ed egli: di che mi preghi? quasi io voglia soverchiarti: io ti dico soltanto che tu ti castighi, onde non esser più sventato. Finalmente per nostra intercessione lo rimandò assoluto. Costui liberato si pose a correre intorno alla tavola, gridando: fuori l’acqua, e dentro il vino. Aggradimmo questa leggiadra piacevolezza, ed Agamennone sopra tutti, il qual sapeva per quali suoi meriti sarebbe stato altre volte invitato a cena.
Finalmente Trimalcione in mezzo a tanti applausi bevette più allegramente; anzi già era quasi ubbriaco, allor che disse: nessun di voi prega dunque la mia Fortunata a danzare? Credetemi, che nessuno meglio di lei balla la ridda;9 e sì dicendo levò le sue mani alla fronte sì bene imitando il comico Siro, che tutti gli spettatori gridarono: oh dio! quant’è bravo! oh dio! E sarebbe saltato in mezzo se in quella non gli si appressava all’orecchio Fortunata, e credo gli dicesse non convenire alla sua gravità quelle ridicolaggini. Niente fu mai in maggior contrasto, quanto egli tra la sua Fortunata, e il suo proprio umore. Del tutto poi interruppe codesto prurito di ballare il suo Agente, il quale, come venisse a recitare i fasti di Roma, lesse quanto segue:
Il giorno 25 luglio. Nati nel territorio di Cuma, di ragione di Trimalcione, 30 fanciulli maschi e 40 femmine: portati dall’ala nel granaio mille cinquecento moggia di frumento: buoi domati cinquecento. Nello stesso dì, Mitridate schiavo, impiccato alla croce per aver bestemmiato il genio tutelare di Gaio nostro. Nello stesso dì riposto in cassa cento mila lire, che non si poterono impiegare. Nello stesso dì, accesosi il fuoco negli orti pompeiani, cominciato la notte in una casa da villano.
Aspetta, disse Trimalcione; da quando in qua ho io comperato gli orti pompeiani?
L’anno scorso, rispose l’Agente: per ciò non erano ancor messi a libro.
Trimalcione adirossi, e disse: qualunque fondo mi si compri, se dentro sei mesi io non ne sarò avvertito, proibisco che mi si porti in conto.
Si lessero di poi gli editti degli Edili, e i testamenti degli Ispettori de’ boschi e foreste, ne’ quali costituivano con molte lodi erede Trimalcione. Dipoi si lessero i nomi de’ fittaiuoli, e il fatto del capo-squadra che ripudiò la moglie liberta per averla sorpresa in camera del custode de’ bagni; e quello dell’usciere deportato a Baia; e del tesoriere già dichiarato colpevole; e del giudizio pronunciato nella causa de’ camerieri.
Entrarono finalmente i saltatori, ed un certo Barone uomo sciocchissimo, si presentò con una scala sulla quale fe’ salire un ragazzo, a cui comandò che saltasse e cantasse, tanto salendo, quanto essendovi in cima. Il fece in seguito attraversar de’ cerchj di fuoco, e tener co’ denti una bottiglia. Il solo Trimalcione maravigliavasi, e dicea che quello era un ingrato mestiere: nelle umane cose però due sole essere quelle ch’egli con molto piacere osservava, i saltatori, e le beccacce; e gli altri animali e divertimenti esser baie, e fanfaluche; perchè, soggiunse, io comperai dei commedianti, e volli poi che recitassero farse, ed al mio corista ordinai, che cantasse in latino.
Intanto che di sì gravi faccende parlava, un famiglio gli cadde addosso. Tutti i servi, non che i convitati, alzarono un grido, non per quel fetido omiciattolo, di cui avrebbero anche viste di buon grado fracassate le tempia, ma perchè mal finisse la cena, e ci fosse d’uopo di andar a piangere un morto che non ci apparteneva.
Trimalcione altamente lagnandosi, e sul braccio chinandosi, come se fosse ferito, accorsero i medici e Fortunata tra i primi co’ capegli all’aria, un bicchiero in mano, e sè misera e sciagurata chiamando.
Il famiglio, che era caduto, a’ piedi nostri si era prima strisciato intercedendo la sua libertà. Io ne avea tratto pessimo augurio che da tali preghiere non derivasse qualche dolorosa catastrofe, perocchè ancora non erami uscito di mente quel cuoco, che avea dimenticato di sventrare il maiale. Perciò mi posi a guardare intorno a tutto il triclinio per vedere se non sortisse dalle pareti qualche fantasma; e molto più quando si venne a sferzare uno schiavo, il quale avea involto il braccio contuso del suo padrone con lana bianca,10 e non porporina. Nè molto lontan dal vero andò il mio sospetto, perchè in luogo di cena arrivò un decreto di Trimalcione, col quale ordinava che quel famiglio rimanesse libero, acciò non si avesse a dire che un sì gran baccalare fosse stato offeso da uno schiavo.
Noi a questo fatto applaudimmo, e ciarlammo dipoi in cento maniere sulle vicissitudini delle cose umane. È vero, Trimalcion disse, e fa d’uopo, che questo caso non passi senza che se ne scriva. E chiesta subito la tavolozza, dopo un breve pensiero, recitò questi versi:
Quando men tu gli aspetti
Nascono i strani effetti:
3Che fortuna fa suoi
I nostri affari e noi.
Ma a che darci pensiere?
6Versa, fanciul, da bere.
Questo epigramma diè occasione di parlar de’ poeti, e lungamente si lodò il merito de’ versi di Marso di Tracia,11 finchè Trimalcion disse: io ti prego, Agamennone, che tu mi dica qual differenza passi tra Cicerone e Publio?12 io credo che l’un fosse più eloquente, e l’altro più dilicato. Cosa può dirsi meglio di questi versi?
Sol di lussurie
Or, Roma, hai cura,
E imputridiscono
4Le marzie mura.13
Il pavon, vittima
Del tuo palato,
Per te si pascola
8Nello steccato.
Tu vesti l’aure
Sue vaghe piume
Con babilonico
12Molle costume.
Tu le numidiche14
Chioccie manuchi,
Tu i galli morbidi
16Già fatti eunuchi.
L’errante, ed ospite
Cicogna grata,
Pietosa, gracile,
20Ai fischj usata;
Che il ghiaccio abbomina,
E che la bella
Portaci tepida
24Età novella;
Anch’essa il calido
Suo nido ha tratto
(Cibo carissimo)
28Sopra il tuo piatto.
Quelle tre d’India
Preziose perle,
A quali orecchie
32Vuoi tu vederle?
Forse onde femmina,
Di questi adorna
Fregi marittimi,
36Dove soggiorna.
Estranio talamo
Vada, e il non anco
Domato eserciti
40Pieghevol fianco?
A chi quei nobili
Smeraldi ardenti,
E i calcedonici
44Sassi lucenti?
Perchè desideri
Siffatti vezzi?
Sol perchè splendono
48Forse gli apprezzi?
Sai qual carbonchio,
Qual gemma tiene
Sull’altre merito?
52L’esser dabbene.
Sposa, che d’aria
Tessuta vesta,
Che in nube serica15
56Ignuda resta,
Si che ne appaiano
Di fuor le membra,
Iniqua e laida
60Cosa mi sembra.
Qual crediam noi, seguì Trlmalcione, il più difficile studio dopo quel delle lettere? Io penso che sia quel del medico, e del banchiere. Il medico, il qual deve sapere cos’abbiam tra le viscere noi omiciattoli, e il tempo in cui vien la febbre; (sebben io gli abborra, perchè mi van sempre ordinando de’ diluenti); e il banchiere, che è soggetto a prender le false per le vere monete.
Laboriosissime bestie sono i bovi e le mute pecore. I buoi, perchè è lor benefizio il pan che mangiamo: le pecore, perchè della lor lana noi andiamo pomposi. Ed è pure una grande malvagità, che alcuno mangi una pecorella, intanto che del suo pelo si veste. Ma bestiole divine credo io le api, le quali vomitan mele, checchè si dica, che lo ricevan da Giove: con tutto ciò, esse pungono, perchè dappertutto ove è il dolce, trovasi ivi appresso l’amaro.
Note
- ↑ [p. 297 modifica]Da questo rimedio scorgesi, che il disordin del ventre di Trimalcione era una diarrea, anzichè una stitichezza, come qualche interprete ha detto. Quindi il ventrem pudere, che segue, non vuol già dire evacuare, com’essi pensarono, ma ritenere, come anche dal significato metaforico del verbo pudere parmi potersi arguire.
- ↑ [p. 297 modifica]Questo tratto indica evidentemente, che la Satira di Petronio ha per oggetto Nerone. Sappiamo di lui, ch’ei permise agli amici suoi di dar libera uscita alle ventosità anche alla sua mensa.
- ↑ [p. 297 modifica]Fin da tempo antichissimo ogni qualità di artefici ed operaj formava Corpo ovvero Università, come trovasi attualmente in più luoghi, e come trovavasi presso [p. 298 modifica]noi ne’ tempi di Giuseppe II, che poi saggiamente abolì siffatte corporazioni. Abbati dicevansi da noi i capi di codeste Università, e decurioni eran chiamati dai Romani, perchè ogni corpo era diviso in decurie, che erano come altrettanti gradi di perfezione; cosicchè il giovine, o il meno abile entrava nella decuria prima, che è quanto dire era di prima classe: il provetto o il più abile nella seconda: l’abilissimo nella terza. In genere di domestici occorreva pure lo stesso che a noi: e Trimalcione, che ne avea tanti, metà de’ quali non conosceva l’altra metà, ben sapea che essi eran divisi in cursori, cucinieri, camerieri, custodi, ecc., cosicchè ritenendo una classe più abbietta dell’altra potea minacciare il cuoco di metterlo tra i lacchè, e premiare il lacchè promovendolo alla carica superiore di cuoco, rispettabile certamente alla corte di Nerone ed a’ suoi parassiti.
- ↑ [p. 298 modifica]Omero non riferì mai questo accidente. Ma vi ha da contraddire a un Trimalcione? Il pollice rotto di Ulisse, e la prigion di vetro della Sibilla sono spiritose invenzioni, delle quali la comitiva dovea fare elogi maravigliosi.
- ↑ [p. 298 modifica]S. Giustino martire e Pausania accordansi nel far menzione dell’urna ove a’ tempi loro mostravansi a Cuma le ceneri della Sibilla. La voce ampulla del testo non potevasi per tanto interpretrar per bottiglia, o fiasco, come altri l’intese, ma un vaso, la cui figura equivalga a quello che noi chiamiam pignatta, o marmitta.
- ↑ [p. 298 modifica]Or vedi Annibale all’assedio di Troia, e uniscilo al dito rotto di Ulisse, e alla prigione di cristallo della Sibilla.
- ↑ [p. 299 modifica]Questa storia non è, come le passate, un sogno. Plinio la riferisce al cap. 26 del libro 36, e Dione ed Isidoro. Costoro assicurano che l’artefice fu messo a morte, e Plinio dice che gli furon distrutti gli utensili e le fucine per ordine di Tiberio. Ecco una delle molte arti che sono perdute con danno della società.
- ↑ [p. 299 modifica]Altre storielle, come quella di Annibale dinanzi a Troia. Gli anacronismi sono perdonabili ai Trimalcioni.
- ↑ [p. 299 modifica]Sorta di ballo non troppo modesto che si fa tra due o più persone girando intorno intorno. Così alcuni credono fosse questa danza, che Petronio chiama Cordace, e di cui fa cenno Meursio nella sua Orchestra. Credo che possa compararsi alla nostra friulana, che alcuni dicon furlana, ovvero alla monferrina.
- ↑ [p. 299 modifica]Dicono alcuni che tra le superstizioni de’ Romani quella vi fosse di fasciarsi le ferite con lana rossa, e che di aver usato goffamente la bianca fosse qui castigato lo schiavo. Io credo che Petronio, come in tutta questa descrizione, così in questo luogo abbia invece espressa una caricatura di Trimalcione, come colui che in qualunque caso voleva ottenere le distinzioni cui pretendeva.
- ↑ [p. 299 modifica]Domizio Marso, di cui sappiam da Marziale che avea composto un poema in lode delle Amazoni.
- ↑ [p. 299 modifica]Publio Siro, quello stesso che Trimalcione poco sopra imitò ponendosi le mani sulla fronte. Egli era eccellente scrittor di commedie, e più eccellente attore. Fu il Molière de’ suoi giorni. Ma come si può paragonare il comico Siro all’orator Cicerone?
- ↑ [p. 300 modifica]Non è dubbio che questa satira attribuita a Publio Siro debba applicarsi interamente a Roma.
- ↑ [p. 300 modifica]Numidia, provincia dell’Africa, oggi Bildulgerid, somministrava ai Romani i polli più squisiti.
- ↑ [p. 300 modifica]Ho cambiato linea in serica per meglio indicare la leggierezza di un velo e far vieppiù sentire l’applicazione delle antiche mode donnesche colle moderne.