E questo in tanto tempo è il primo motto,
Ch’io fo a le Dee, che guardano la pianta,
De le cui fronde io fui già così ghiotto.
La novità del loco è stata tanta,
C’ho fatto, come augel, che muta gabbia,
Che molti giorni resta, che non canta.
Sigismondo cugin, che taciuto abbia
Non ti meravigliar, ma meraviglia
Abbi, che morto non sia ormai di rabbia,
Vedendomi lontan cento e più miglia,
E m’abbian monti, e fiumi, e selve escluso
Da chi tien del mio cor sola la briglia.
Con altre cause e più degne mi scuso
Con gli altri amici (a dirti il ver); ma teco
Liberamente il mio peccato accuso.
Altri, a chi lo dicessi, un occhio bieco
Mi volgerebbe addosso, e un muso stretto:
Guata poco cervel, poi diría seco.
Degno uom, da chi esser debba un popol retto,
Uom, che poco lontan da cinquant’anni
Vaneggi ne i pensier di giovinetto.
E direbbe il Vangel di San Giovanni;
Che se ben erro, pur non son sì losco,
Che ’l mio error non conosca, e ch’io no ’l danni.
Ma che giova, s’io il danno, e s’io ’l conosco?
Se non ci posso riparar? ne trovi
Rimedio alcun, che spenga questo tosco?