Satire (Alfieri, 1903)/Satira quinta. Le leggi

Satira quinta. – Le leggi

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira quinta. – Le leggi
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SATIRA QUINTA.

LE LEGGI.


«Le Leggi son; ma chi pon mano ad esse?»
Così esclamava il mio divin Poeta:
Ed io ’l ripeto con sue voci stesse.
Ma un po’ di giunta a quel sovran Pianeta
Farò, se ho tanto polso, comentando;
Io, trista coda di sì gran Cometa.
Le Leggi (egregio nome venerando)
Parmi sien quelle, a cui libero senno
Di pochi o d’uno diè ’l sovran comando.
Leggi son, quando a niuno obbedir denno:
L’altre cui stampa Onnivolere insano,
Che al volere dei più non fa pur cenno,
Son di Leggi un sinonimo profano
Che dei regnanti giace sotto a’ piedi;
E ad esse, sol per nuocer, si pon mano.
Della Chiosa e del Testo in un mi vedi
Sbrigato: or supplirò, Lettor, col mio,
Se d’udïenza alquanto mi concedi.
Silogizzando con severo brio
Vengo ad espor le non-giustizie tante,
Per cui paghiam del servir nostro il fio.
Chi può tutto, vuol tutto: indi alle sante
Eque leggi dell’uomo primitive
L’util proprio privato ei manda innante.
Le costui leggi adunque in sangue scrive
La Ingiustizia, che ascosa in bianco velo
Le virtù vere tacita proscrive.
Le avvampa in volto, il so, mentito zelo
Del comun pro; ma il lagrimoso effetto
N’è il comun danno: ond’io son reo, se il celo.
Por mente vuolsi all’opra e non al detto.
Quai che i Governi sien, legizzan tutti:
Ma nei liberi il Buono ha sol ricetto.
Viltà, doppiezza, e crudeltà, son frutti
Cui la impudente tirannìa germoglia.
Madrigna ai Buoni e più che madre ai Brutti.

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Quindi i leggi-passivi audace spoglia
Il Sopra-leggi a suo talento, e ride
Della impotente omai pubblica doglia.
Satollo ei poscia, il soprappiù divide
Tra i Satelliti suoi, leggi-gridanti
Contro chi un Cervo od un Fagian gli uccide.
Animali son questi sacrosanti,
Nati a immolarsi da regnante destra,
O al più dai regi sempiterni infanti.
Fera inflessibil legge t’incapestra,
Se osasti insano o con piombo o con ferro
Fare in tai bestie elette empia fenestra:
Ma se ad altr’uom, col fello animo sgherro,
Da tergo, a tradimento, hai dato morte,
Spera: appo i Re fia remissibil erro.
Nè il mio dire oltre il ver qui paja forte:
D’Italia parlo, di delitti or madre,
Cui forza è ch’io giustizia o infamia apporte.
Due sono, Itali miei, l’opre leggiadre,
Ch’or vi fan noti: timorosa pace,
E ognor di sangue pur vostre terre adre.
Ma il miser uom che assassinato giace,
Dall’assassino io già nol tengo spento,
Bensì dal vile regnator rapace.
L’impunità del sozzo tradimento
Qui si dona o si vende a prezzo vile
Dai rei Pastori dell’Ausonio armento:
E sian Re, sian Magnati, o Prete umíle,
Che degl’Itali squarci abbin l’impero,
Concordan tutti in lasciar far lo stile.
Il portar armi hanno inibito, è vero;
Ma non l’usarle in proditoria guisa:
Legge morta è più infamia e danno mero.
Là spirar veggio atrocemente uccisa
Dal marito la moglie addormentata;
Eppur salvarsi l’uccisor divisa:
E asilo trova, e di pietà malnata
Sotto l’ali ei s’appiatta, e piange e paga,
Finchè appien l’empia Temi egli ha placata.
Qui veggo (io raccapriccio) infame piaga
Farsi dal figlio nel paterno cuore;
Empietà, d’ogni empiezza e orror presaga.
Ma il percussor forse percusso ei muore?
No: mentecatto è il misero omicida...
Ricco, aggiungi: e l’Italia abbia il su’ onore.

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Vendetta invan qui contro l’oro grida:
Prezzo ha ’l sangue fra noi: può l’uom con l’oro
Matto esser finto, e vero parricida.
Matto è davver chi aspetta omai ristoro
D’alcun suo danno in così rei governi,
Che quanto han più misfatti han più tesoro.
Ma, chi fia che l’aspetti? agli odj eterni
Con sangue e stragi Nemesi soccorre;
E il tuo tradir sul tradir d’altri imperni.
Ai pugnali i pugnali contrapporre
Lascian gli empi Re Veneti, con arte,
Per meglio a se il lor gregge sottoporre.
L’assïoma «Ben domina chi parte,»
D’ogni assoluto e imbelle regno base,
Quivi è più sacro che le Sacre Carte.
Quivi ogni cuor sanguinolenta invase
La prepotente Codardìa, che svena
Quei ch’han le ciglia men di audacia rase.
Vili impuniti Signorotti han piena
Di scherani lor Corte, e uccider fanno
Chi sott’essi non curva e testa e schiena.
E battiture anco tra lor si danno,
Ma oblique ognora, nè in persona mai;
Che l’armi a faccia a faccia oprar non sanno.
Almo rimedio a sì selvaggi guai,
Vien poscia in senatoria maestà
Luce spiccata dagli Adriaci rai:
Sgrammaticando, è detto il Podestà
Costui, ch’io Podestessa direi meglio:
Poichè i delitti ei mai cessar non fa.
Veggio Bresciane donne iniquo speglio
Farsi dei ben forbiti pugnaletti,
Cui prova o amante infido o sposo veglio.
Tai son de’ lor bustini i rei stecchetti:
Nè ascosi gli han; ma d’elsa e nastro ornati
Ombreggian d’atro orrore i vaghi petti.
Assassini ambo i sessi, abbeverati
Di sangue, usbergo han poi d’altri assassini,
Cui noma il volgo stupido Avvocati.
Lor facondia noleggiasi a zecchini:
Trasmutan l’assassinio in rissa mera,
Onde i cori a pietà fan tosto inchini.
L’Italia (in questo sol una ed intera)
Tien l’omicidio in rissa un peccatuccio;
Tanto a chi infrange il Venerdì severa.

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Tre coltellate ha date, il poveruccio:
Disgrazia! Chiesa, chiesa: a lui dia scampo
Un qualche santo Frate in suo cappuccio.
Io qui di sdegno smisurato avvampo,
Com’uom devoto a Temide si adira;
E al Tebro io volo rapido qual lampo.
Scorgo da impuro fonte ivi la dira
Empia emanar micidïal pietade,
Per cui l’offeso solo, e invan, sospira.
Gente di sangue e di corrucci invade
Le vie colà; cui dà ricovro il Tempio,
Mentre l’ucciso in su la soglia cade:
Tinto, fumante ancor del crudo scempio,
All’are innanzi il rio pugnal forbisce
L’uccisor salvo, agli uccisori esempio.
Di caldo sangue rosseggianti strisce
Svelano invan dell’assassino l’orme:
Sacro Portier seguirle ti inibisce.
D’impuniti misfatti orride torme
Tutto annerano il ciel di Roma pia,
Dove sol Prepotenza illesa dorme.
D’ogni Grande il palazzo è Sagrestia:
L’omicida securo ivi si asconde,
Finchè innocente giudicato ei sia.
Se il proteggono i Grandi, ei n’han ben donde:
Assassini essi pur, ma di veleno,
Dritto è che stuol di Pari li circonde.
Mostruosa così, qual più qual meno,
Ogni gente d’Italia usi raccozza
Fero-vigliacchi entro al divoto seno.
Se parli, o scrivi, o pensi, ella ti strozza:
Ma, quanti vuoi veri delitti eleggi,
Benignamente tutti ella li ingozza. —
Non si maritan, no, Servaggio e Leggi.