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satire | 61 |
SATIRA QUINTA.
LE LEGGI.
«Le Leggi son; ma chi pon mano ad esse?»
Così esclamava il mio divin Poeta:
Ed io ’l ripeto con sue voci stesse.
Ma un po’ di giunta a quel sovran Pianeta
Farò, se ho tanto polso, comentando;
Io, trista coda di sì gran Cometa.
Le Leggi (egregio nome venerando)
Parmi sien quelle, a cui libero senno
Di pochi o d’uno diè ’l sovran comando.
Leggi son, quando a niuno obbedir denno:
L’altre cui stampa Onnivolere insano,
Che al volere dei più non fa pur cenno,
Son di Leggi un sinonimo profano
Che dei regnanti giace sotto a’ piedi;
E ad esse, sol per nuocer, si pon mano.
Della Chiosa e del Testo in un mi vedi
Sbrigato: or supplirò, Lettor, col mio,
Se d’udïenza alquanto mi concedi.
Silogizzando con severo brio
Vengo ad espor le non-giustizie tante,
Per cui paghiam del servir nostro il fio.
Chi può tutto, vuol tutto: indi alle sante
Eque leggi dell’uomo primitive
L’util proprio privato ei manda innante.
Le costui leggi adunque in sangue scrive
La Ingiustizia, che ascosa in bianco velo
Le virtù vere tacita proscrive.
Le avvampa in volto, il so, mentito zelo
Del comun pro; ma il lagrimoso effetto
N’è il comun danno: ond’io son reo, se il celo.
Por mente vuolsi all’opra e non al detto.
Quai che i Governi sien, legizzan tutti:
Ma nei liberi il Buono ha sol ricetto.
Viltà, doppiezza, e crudeltà, son frutti
Cui la impudente tirannìa germoglia.
Madrigna ai Buoni e più che madre ai Brutti.