Satire (Alfieri, 1903)/Satira ottava. I pedanti
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SATIRA OTTAVA.
I PEDANTI.
Plautus, Bacchides, Act. I, Sc. 2ª, v. 40-44. |
All’età mia.
Il Precettore tuo?
Ed io gliel dico, che il Verbo Vagire
Non è di Crusca: usò il Salvin Vagito:
Ma, a ogni modo, Vagir non si può dire. —
Grazie a lei, Don Buratto: ebbi il prurito
D’usar questo verbuccio in un Sonetto,
Per me’ schernire un vecchio rimbambito. —
Me’ per lei, ch’anco in tempo a me l’ha detto!
Se no, l’opra ed il tempo ella perdea;
Che con sì fatta macchia, addio Sonetto.
Vuolsi ir ben cauti, allor che si ha un’idea;
Sempre vestirla d’abiti già usati:
Crusca esser vuole, e non farina rea.
Ben so ch’ella Pedanti ha noi chiamati:
Poi c’è venuto il Signorino al jube,
Dopo i primi suoi versi canzonati. —
Don Buratto, pietà: sgombri ogni nube
D’ira grammatical dalla dott’alma,
«E armonizziamo in concordanti tube».
Tardi, è ver, mi addossai la dura salma
Grammatical: ma non ch’io mai spregiassi
Del purgato sermon l’augusta palma:
Bensì volgendo mal esperto i passi
Vèr la nuov’arte del dir molto in poco,
Era mestier ch’io nuovamente errassi.
Quindi a molti il mio carme suonò roco,
Perch’ei più aguzzo assai venía che tondo,
Sì che niegava ad ogni trillo il loco.
Aspretto sì, ma non del tutto immondo
Era il mio stil; che in sottointender troppo
Fe’ sì che poco lo intendeva il mondo. —
Alto là: ch’al suo dir qui pongo intoppo;
Che biasmandosi parmi, ella s’incensi,
Scambiando il corto stil col parlar zoppo.
Ai tanti uccisi Articoli ella pensi,
E a’ suoi Pronomi triplicati a vuoto,
E al tener sempre i suoi Lettori intensi... —
E all’ostinato mio superbo voto
Di non chieder consiglio nè accettarlo,
Se non se da Scrittor per fama noto:
Dico ben, Don Buratto? E questo è il tarlo
Che inimicommi la insegnante schiera,
Al cui solenne Imperatore or parlo.
Ma via, si ammansi: io non son più quel ch’era:
Molle son fatto, ed umile, e manoso;
La mi cavalchi da mattina a sera.
Io sto ad udirla, d’imparar bramoso:
La non mi celi alcun dei begli arcani,
Ond’esce il grave scrivere ubertoso. —
Sappia da prima, che agl’ingegni sani,
Signor Tragico mio, non piace il forte,
«Nè il velame aspro de’ suoi versi strani».
Piacer senza fatica il carme apporte,
E armonia copïosa lenitiva
Che orecchi e cuore e spiriti conforte.
Che brevità quest’è, che l’alma priva
Di quella inenarrabil placidezza,
Con cui molce chi avvien che steso scriva?
Cos’è quest’artefatta stitichezza
Di dir più in tre parole ch’altri in venti?
Non lo scarno, il polposo fa bellezza.
Che son elle codeste impertinenti
Tragedie in cinque o in quattro personaggi,
Insultatrici delle antecedenti?
Non ci avean date già Scrittori maggi
Rosmunde e Sofonisbe e Oresti e Bruti,
Da spaventar dappoi gli audaci e i saggi?
Che moderni! che razza di saputi!
Voler tutto rifare, andando al breve,
Spogliato di quei fregj a noi piaciuti!
Certo, i lirici Cori onde riceve
L’udito e il cuore dilettanza tanta,
L’immaginarli e il verseggiarli è greve:
Più facil quindi e spiccio è il dir: «Non canta
«La Tragedia fra noi: chi ariette scrive,
«Dai suoi Catoni i Catoncini ei schianta».
Suore forse non son le Nove Dive?
Fia che a sdegno Melpòmene mai prenda
Voci aver da Tersícore più vive?
La Tragedia, gnor sì, canta; e l’intenda
Com’ella il vuole: il Metastasio è norma,
Che i Greci imita, e i Greci a un tempo ammenda.
Tutta sua la Tragedia, in blanda forma
Gli alti sensi feroci appiana e spiega,
Sì che l’alma li beve e par che dorma.
Ignoranza ed Orgoglio, usata lega,
Fan che una nuova Merope ci nasce
Di padre che non scerne Alfa da Oméga.
Ma che parl’io di Greco a quei che in fasce
Stan del Latino ancor nel lustro nono,
Sì che spesso han dall’umil Fedro ambasce?
Ora, a bomba tornando; i’ gliene dono
A chi l’ha fatta, questa Meropuccia
Che usurpar vuolsi terzo-nata il trono.
Semplice no, ma gretta, in su la gruccia,
Ch’ella noma Coturno, si trascina,
Senza aver pure in capo una fettuccia:
E la si spaccia poi Madre-Regina
Col monopolio dell’esclusïone,
Come s’altri fatt’abbiala pedina.
Quel mio buon venerabile barbone,
Ch’era il Nestor di Omèro mero mero,
Cangiato io ’l veggo in vecchio non ciarlone:
E quel naturalissimo sincero
Crudelotto Tiranno Polifonte
Mi si è scambiato in Re Machiavelliero.
E il mi’ Adrasto, e il su’ anello, e le sì pronte
Fide risposte dell’astuta Ismene;
E l’arte in somma qual c’insegna il fonte;
(Dico, la dotta Tragizzante Atene)
Dove son elle in questo nuovo impasto?
Sognando il meglio, e’ si sfigura il bene.
Ombra vuolsi, ombra molta: indi è il contrasto.
Personaggio che basso e inutil pare,
Agli altri accresce, e senza stento, il fasto. —
Ombra sia, Don Buratto; ombra Lunare,
S’anco a lei piace: ecco, abrenunzio seco
Ogni luce che sia troppo Solare.
Vo’ rifar mie tragedie in manto Greco:
Strofe, Antistrofe, ed Epodo, e Anapesti,
Tutto accattando dall’Ellénio speco.
Trissineggianti poi versi modesti,
E moltissimi, molto appianeranno
Lo stil, sì che il lettor non ci si arresti.
I Personaggi si triplicheranno:
Nè parran miei; sì ben Merope Prima
Semplicetti e chiaretti imiteranno.
E alle corte; a mostrarle in quanta stima
Io ’l tenga, innanzi che il mio dir finisca,
Do ’l mio Sonetto all’acuta sua lima,
Che inibisce sì ben che l’uom vagisca.