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Aspretto sì, ma non del tutto immondo
Era il mio stil; che in sottointender troppo
Fe’ sì che poco lo intendeva il mondo. —
Alto là: ch’al suo dir qui pongo intoppo;
Che biasmandosi parmi, ella s’incensi,
Scambiando il corto stil col parlar zoppo.
Ai tanti uccisi Articoli ella pensi,
E a’ suoi Pronomi triplicati a vuoto,
E al tener sempre i suoi Lettori intensi... —
E all’ostinato mio superbo voto
Di non chieder consiglio nè accettarlo,
Se non se da Scrittor per fama noto:
Dico ben, Don Buratto? E questo è il tarlo
Che inimicommi la insegnante schiera,
Al cui solenne Imperatore or parlo.
Ma via, si ammansi: io non son più quel ch’era:
Molle son fatto, ed umile, e manoso;
La mi cavalchi da mattina a sera.
Io sto ad udirla, d’imparar bramoso:
La non mi celi alcun dei begli arcani,
Ond’esce il grave scrivere ubertoso. —
Sappia da prima, che agl’ingegni sani,
Signor Tragico mio, non piace il forte,
«Nè il velame aspro de’ suoi versi strani».
Piacer senza fatica il carme apporte,
E armonia copïosa lenitiva
Che orecchi e cuore e spiriti conforte.
Che brevità quest’è, che l’alma priva
Di quella inenarrabil placidezza,
Con cui molce chi avvien che steso scriva?
Cos’è quest’artefatta stitichezza
Di dir più in tre parole ch’altri in venti?
Non lo scarno, il polposo fa bellezza.
Che son elle codeste impertinenti
Tragedie in cinque o in quattro personaggi,
Insultatrici delle antecedenti?
Non ci avean date già Scrittori maggi
Rosmunde e Sofonisbe e Oresti e Bruti,
Da spaventar dappoi gli audaci e i saggi?
Che moderni! che razza di saputi!
Voler tutto rifare, andando al breve,
Spogliato di quei fregj a noi piaciuti!
Certo, i lirici Cori onde riceve
L’udito e il cuore dilettanza tanta,
L’immaginarli e il verseggiarli è greve: