Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Appendice

Appendice
Brani della prima edizione soppressi o sostanzialmente mutati nella seconda

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Appendice
Brani della prima edizione soppressi o sostanzialmente mutati nella seconda
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo Rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriota napoletano al cittadino Carnot Ministro della guerra

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APPENDICE

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Brani della prima edizione soppressi o sostanzialmente mutati nella seconda



p. 25, v. 27: Ma un uomo senza cura di bene, senza previdenza di male, erasi ridotto a non aver altri affari che la caccia ed i piaceri. La regina fomentava un’indolenza, che la faceva regnar sola. Donna superba ed ambiziosa, non vedeva nel trono altro piacere che quello di comandare, ed a quest’oggetto sacrificava il marito, i suoi figli, i suoi amici, i suoi doveri, i suoi piaceri medesimi.

p. 30, v. 17, dopo «tentarne altro» è apposta la nota: I lumi della filosofia non erano ignoti in Napoli. I passi di Gravina avean preceduti quelli di Locke, ed i voli di Vico non sono stati ancora raggiunti da nessuno. Broggia e Genovesi aveano fondata la scienza dell’economia politica in Italia; e, nella stessa nostra etade, Pagano scriveva i suoi Saggi politici ed il suo Processo criminale, Filangieri scriveva la Scienza della legislazione, ed il saggio Palmieri, divenuto ministro, portò quasi la filosofia sul trono. Ma la nostra filosofia non era incendiaria, e procurava senza pompa il bene della patria. Conforti, Pagano, Longano... dalle cattedre formavano una gioventù più saggia e più umana. Ma, quando incominciò la persecuzione, queste idee furono credute pericolose, e fu imputato a delitto l’amar la patria e la nazione.

p. 32, V. 24: Questo merito aveansi procurato Bosco, Simone, Castrone, Spagnuolo, Patarini, Petra, Mattei e tanti altri, i nomi de’ quali, ecc.

p. 35, v. 35, dopo «Castelcicala» è apposta la nota: Sotto i sovrani deboli l’inquisizione di Stato è egualmente feroce e le leggi di maestà egualmente severe che sotto i scellerati: l’unica differenza [p. 270 modifica]è che, dove questi fanno le leggi per sicurezza loro, quelli le sottoscrivono per sicurezza de’ loro ministri. Ne viene da ciò che l’inquisizione sotto i princípi deboli è sempre piú estesa che sotto i scellerati: un ministro teme sempre piú persone che non ne teme un sovrano. Le leggi di maestá di Tiberio sono un nulla al paragone della legge «Quisquis». E da chi ci vien questa legge, che pure ha formato e forma la base di tutta la nostra giurisprudenza? Da Arcadio ed Onorio, da’ due piú imbecilli successori di Augusto, o, per meglio dire, da Stilicone e Rufino, loro ministri e loro padroni. Qual altro che Rufino potea dire esser reo di maestá colui che insultasse un consigliere del principe? Richelieu, che era il Rufino di un altro Arcadio, vi aggiunse che era reo di maestá anche chi accusava un ministro di accuse non vere o leggiere. Qual è quel sovrano di buon senso (non dico giusto), il quale voglia cosí togliersi ogni mezzo di sapere la veritá, che voglia rivolger contro di sé l’odio che forse merita il suo ministro, e che, per salvare il ministro, voglia perder se stesso? Eppure, perché, come diceva Cromwel, i figli di re tutt’altro sanno fare che regnare, essi hanno dichiarata la legge «Quisquis» legge eterna di Stato. E che fanno quando trovano un ministro come Acton, come Castelcicala? Non mancano di prestar la mano all’esecuzione della legge, cioè ai disegni de’ loro ministri. E si lagnano poi che, ad onta della loro police, della loro inquisizione, de’ loro arresti arbitrari, perdono i regni!... Un sovrano, che volesse regnare, stabilirebbe un’inquisizione contro i ministri suoi, e nel popolo ricercherebbe, non chi minaccia, chi congiura, per punirlo, ma chi è oppresso per sollevarlo, chi è mendico per soccorrerlo, chi è infelice per renderlo contento. Un tal sovrano regnerebbe come Iddio regna sull’universo: il suo trono sarebbe la giustizia e la pace, la pubblica felicitá sarebbe la sua legge, e la durata del suo regno sarebbe l’eternitá. Ma dove è questo sovrano, e lo loderemo?

p. 39 n., v. 1: Tra questi si conta anche Rousseau: sebbene la predizione di Rousseau sia un poco troppo generale, e tale che ognuno l’avrebbe potuto fare da se stesso. Rousseau dice meno di quello che avea detto il Tasso nella sua Gerusalemme conquistata.

p. 42, v. 12: I sovrani di Europa credevano esser re per volontá di Dio, e volevano regnare per volontá di Dio e non per amore de’ popoli. Un impero ch’era fondato su d’un’opinione, e su d’un’ [p. 271 modifica]opinione tanto invecchiata e tanto debole, dovea temere la ragione ed anche un’opinione contraria, piú di un altro impero, il quale fosse stato giusto e fondato solo sull’amore de’ suoi.

p. 43, v. 10: La natura è pur giusta nelle sue leggi: i repubblicani debbono esser ormai avvezzi a non fidarsi delle parole de’ re, e sapranno meglio combattere per quella libertá che hanno saputo conoscere.

ivi, v. 14: Potesse almeno il loro interesse render i sovrani piú giusti; e, poiché non è da sperarsi che per ora sieno distrutti, potesse almeno il loro interesse renderli tollerabili! Essi dovrebbero esser ormai persuasi che non si può distruggere l’amore della libertá: non resta loro che ad imitar Nerva e Traiano, e ricongiugnere ciò che per lo piú sembra insociabile: la libertá e l’impero.

p. 63, v. 16: Le lettere però scritte da’ ministri napolitani in Vienna giunsero in tempo che il re era giá nel quartier generale di San Germano e che la guerra era stata giá risoluta. Vi è anche chi dice non senza fondamento che la regina, la quale si credeva disporre dell’animo del suo marito, le avesse cangiate prima di mostrarle, onde non distorlo dalla risoluzione giá presa.

p. 67, v. 6: Se Mack non è il piú vile de’ scellerati, il suo cuore deve essere crudelmente lacerato dal rimorso, ogni qualvolta che si ricorda che per sola cagione di orgoglio si rese vilissimo istrumento della perfidia di Acton per perdere un innocente.

p. 70, v. 30: In tali circostanze, sí può dire che i francesi vinsero piuttosto Mack che i napolitani. Se la rivoluzione avesse avuto l’esito che meritava la giustizia della nostra causa, noi avressimo dovuto incidere sul monumento della nostra liberazione: «Lodato sia il cielo che una regina straniera volle affidar la sua difesa a Mack! Ma impariamo da questo avvenimento a sviluppare i geni nazionali, anziché esser ingannati dai nomi de’ geni stranieri».

p. 76, v. 3: Ma che importa finalmente la fuga di un re, il quale abbandona un trono che non sa conservare? Noi non ci interessiamo del suo destino; ma serva la storia de’ suoi errori a giustificare i popoli, troppo spesso calunniati da coloro che sono venduti [p. 272 modifica]ai re; serva a confermare una gran veritá, spesso detta, ma sempre invano, cioè che, quando si vede un re perdere il trono e talora la sua vita, la sua miseria non merita pietá: molto tempo prima di esser infelice, ha dovuto essere stolto o scellerato; molto tempo ha dovuto soffrire il popolo prima di reclamare i suoi diritti.

p. 77, V. 20, si cita: Machiavelli, Arte della guerra, lib. 7, e si continua: Cosí il re di Napoli crede fermamente che il Regno glielo abbiano fatto perdere i francesi e, quel che è piú strano, i patrioti, e non giá Acton; ed odia quelli, impicca questi, ed Acton continua ad essere il visir favorito. Cosí ragionano i re, cosí operano; e molti credono che pensino ragionevolmente ed operino con giustizia!

p. 78, v. 1: Egli avrebbe potuto vendicarsi in un momento di tutte le antiche ingiurie, abbandonando un re che non avea saputo regnare, procurarsi la gloria di giusto e, rendendo senza sangue alla sua patria una libertá che tra poco non le poteva togliere, diventarne l’idolo ed il padre. Ma l’ambizione di un vecchio cortigiano non poteva aver tanta nobiltá.

p. 96, v. penultimo, dopo «nostra», è apposta la nota: Uso questa espressione nel senso in cui l’adopera Delolme.

p. 97 n., v. 31: La natura non opera mai per salti. Ma gli uomini, nell’incalcolabile celeritá delle sue operazioni, non osservano la successione degli avvenimenti, e quindi è che tanto spesso s’ingannano nel ricercar le ragioni de’ medesimi.

p. 118, v. 4: Il governo non volle, per impedire i rumori, usar di un’autoritá che, sebben giusta, poteva sembrar arbitraria. Egli, per soverchia delicatezza, sembrò vile e tirannico: vile, perché si lasciò togliere quella prerogativa che solo spettava a lui, ed eresse un sovrano in faccia ad un altro sovrano; tirannico, perché eresse una commessione arbitraria, la quale decideva senza accusa e senza formola di giudizio della fama e della vita civile di un cittadino. In altri tempi altro vi volea che una commessione inappellabile di cinque persone ed un informo segreto e superficiale, per esser dichiarato incapace d’impieghi1! [p. 273 modifica]

Io non esamino quale sia stata la condotta delle persone componenti la commessione: fo la storia delle cose e non delle persone. Ma, quando si pubblicò la legge colla quale fu istituita, mi parve che, se mai la ragione avesse un linguaggio suo proprio, essa, in questo linguaggio, avrebbe potuto tradurre cosí la legge: «Cittadini, il governo da oggi in avanti non fará che le leggi: il dar de’ premi a coloro che sanno eseguirle o farle eseguire spetterá a questi cinque che noi v’indichiamo: essi sono i vostri sovrani. Affinché la vostra libertá sia assicurata, voi affiderete il vostro nome, le vostre virtú, i vostri talenti, le vostre fatiche all’arbitrio di costoro; affinché i loro giudizi siano piú pronti o piú imparziali, esamineranno la vostra condotta mentre nessuno l’accusa, udiranno chi voi non sapete, e pronunzieranno la sentenza irrevocabile senza né udirvi né darvi campo a difesa. La sovranitá non potrá piú accordar la sua confidenza a chi le piace, e voi non potrete senza il permesso di questi cinque goder gli effetti della confidenza che vi accorda la vostra patria». Questo era il linguaggio con cui si voleva stabilire la sovranitá del popolo e la libertá de’ cittadini! Come mai un governo di libertá e di legge potea fondarsi sugli esempi di tirannia e d’ingiustizia? È vero, e da’ sapienti si è detto, doversi anche i governi liberi fondar colla forza; ma conviene che questa forza sia nel popolo o nel legislatore. I legislatori nostri mostrano la debolezza in faccia ad una classe di persone che non era il popolo. Ma le fazioni, lungi dall’acquietarsi dopo una debole condiscendenza, si rendono piú audaci, e solo colui può imporre silenzio a tutti i partiti, il quale, essendo giusto e ragionevole e formando la felicitá vera del popolo, trae questo al partito suo. Quando l’istituzione è cattiva, impedisce agli uomini buoni di fare il bene. Questa commessione riprovò moltissimi che non meritavano di esser riprovati, ed approvò molti che non doveano esserlo. Solito effetto delle istituzioni arbitrarie, o che siano in mano di un solo o di molti o di pochi. Questa commessione non poteva né dovea esaminare il merito e le virtú, ma solo era giudice di patriottismo2. [p. 274 modifica]

Si volle far vedere al popolo che le vie alle cariche erano ormai piane ed aperte, ma non se gli fece comprendere che l’unica era quella del merito e della virtú. Si vollero innalzare delle persone da nulla: si vide municipe di Napoli Pagliuchella e capo di brigata Michele il pazzo3.

Cosí Caligola fece console il suo cavallo. Si rese vile la carica; ed il popolo, invece di applaudire alla popolaritá del governo, rise della sua insulsaggine.

Il popolaccio si sarebbe piú interessato se mai a costoro si fusse assegnata una picciola pensione: ciascuno l’avrebbe piú desiderata, ciascuno avrebbe creduto poterla meritare e si sarebbe mosso a meritarla. I compensi soverchianti di molto i meriti ed i servizi ispirano la diffidenza, perché, essendo ingiusti, si credono effetti del favore e del solo spirito di partito. Ma questa profusione, che non produsse niuno effetto buono sul popolo, ne produsse un tristo ne’ patrioti e ruppe ogni freno all’ambizione. Se Michele era capo di brigata, ogni altro superiore a lui (e chi non lo era?) dovea arrossire di non essere almeno generale. Cosí la repubblica intera, la quale potea dar da vivere a tutti, appena sarebbe bastata per pochi.

p. 121, 2. 22: Vivenzio, sia che amasse la patria perché era democratico, sia che meritasse di esser democratico perché amava la patria, seppe valersi e dell’opinione pubblica e del favore di cui godeva presso il re per scuotere dalle radici l’albero antico, che, nato nelle selve della Germania, avea coi suoi rami ingombrata tutta la terra. In due altri anni di tempo, Vivenzio ne avrebbe lasciata appena la memoria.

p. 128, v. 18: si cita in nota il Montesquieu.

ivi, v. 36: riformate le ricchezze de’ preti, tolto quel celibato che oggi li separa dallo Stato, sostituendo ad una primazia monarchica un concilio nazionale, era la religione che meglio convenisse alla democrazia. Che altro furono i primi cristiani se non deisti, democratici? Essi furono perseguitati, non come fedeli ad una nuova religione, ma come contrari al governo antico. [p. 275 modifica]

p. 129, v. 28: Conforti, Pagano, Cirillo, Russo e molti altri, mentre voleano, ecc.

p. 133, v. 17: Si tolse il comando della truppa a Moliterni, che conosceva la guerra e che era amato dalla truppa, e si diede a Roccaromana, amabile imbecille, che potea solo disorganizzarla.

p. 135, v. 13: si cita in nota il Lacroix.

p. 136, v, 30: Eppure tanto era presso di noi l’amor della patria, che il disordine non si osservò se non in pochi luoghi delle province. Nelle popolazioni patriotiche i cittadini che prendevan le armi seguivan gl’impulsi del loro cuore anziché la legge: nella capitale i giovani repubblicani erano tanti, che il governo non ebbe bisogno di farla eseguire. Napoli avea una guardia nazionale di quattordicimila giovani, che tutti aveano beni ed educazione. Che non si potea sperare da questa nazione, se oppressa, se lottando contro tanti mali e tanti errori, avea sviluppata tanta energia?

p. 138, v. 32, dopo «tesoriere» è apposta la nota: Ripeto ciò che ho detto altra volta: io non fo la storia delle persone, ma delle cose: i nomi di quelle agli esteri sarebbero inutili, ai nostri son noti.

p. 146, v. 17: Un’altra insurgenza incominciava da Taranto e, seguendo il littorale dell’Adriatico fino a Trani, ripiegava per Andria fino a Sansevero, fino al centro della Puglia.

p. 162, v. 22: Abrial... forse era quello che piú sinceramente amava la nostra felicitá; ma ebbe la disgrazia di non conoscere il paese e di confondere una classe colla nazione intera. Cosí le scelte di Abrial non caddero tutte sopra le persone che la nazione bramava. Egli non vedeva che pochi individui, e credeva che que’ pochi che lo circondavano fossero i soli che amassero la patria. Accordava la carica sulle petizioni che gli venivano fatte dai patrioti, ma conosceva egli que’ petizionanti? Avea egli forse obbliato che bene spesso in una nazione un solo uomo vale una nazione intera? Quello bisogna consultare, a quello convien affidarsi, quello convien seguire... Ma un tale uomo non lo vedrete nella vostra sala a mendicar tra la folla il favore; è necessario che voi vi diate la pena di ricercarlo. Difatti, seguendo la voce che egli credeva [p. 276 modifica]pubblica, escluse Conforti dal ministero dell’interno; ministero che forse a Conforti solo era ben affidato. Quella stessa voce pubblica lo avrebbe finalmente costretto a togliere dalla rappresentanza nazionale Vincenzio Russo, se costui non lo preveniva colla sua rinuncia.

p. 163, v. 25: Abrial permise le sale patriotiche, che Championnet, seguendo i principi che la Francia avea allora, avea proibite. Abrial seguiva quelli che la Francia avea avuti un giorno: era persuaso che, compita la rivoluzione, le sale doveano proibirsi come dannose; ma credeva che, a compir la rivoluzione, potessero esser utili.

p. 165, v. ultimo: Campanella è un genio, ma Machiavelli è piú saggio di lui.

p. 181, v 1: Martina e qualch’altra terra si difendevano valorosamente contro l’insorgenza della provincia di Lecce.

p. 182, V. 11: Un solo de’ casali di questa cittá resistette solo per molti giorni alle forze di diecimila uomini, che seco conduceva Ruffo.

p. 184, v. 16, dopo «loro» è apposta la nota: Questo era il progetto che dai primi giorni del pericolo avea proposto Belpulsy, ed il progetto di Belpulsy era ragionevole.

p. 185, v. 25, alla fine del paragrafo è apposta la nota: Era giunto alla fine di questo [paragrafo], quando ho domandato a me stesso: — Che poteva fare Manthoné? Egli avea infinito coraggio, egli amava la patria; non è egli morto per lei? — Ma, quando la patria erasi affidata a lui, il male era tanto inoltrato, che non rimaneva piú che la speranza. Noi parliamo di lui come, dopo la morte dell’infermo, si dice del medico: — Egli poteva fare... Oh! se avesse fatto! . . . — [p. 277 modifica]

XLVII


Progetto di Girardon4



Girardon, che comandava da Capua le poche forze francesi rimaste nel territorio della repubblica napoletana, non pensava come Manthoné. Credeva che Napoli non fosse né facile né prudente difenderlo, e pensava che, abbandonando Napoli, si potesse tentare di salvar la repubblica o almeno i repubblicani.

Quando le cose fossero giunte al segno di non rimaner altro che Napoli, conveniva abbandonarlo. Si trasportava in Capua tutto ciò che si poteva di munizioni da guerra e di attrezzi militari; ciò che non si poteva trasportare si distruggeva; gli altri castelli, inutili ed alla difesa ed all’offesa si abbandonavano; Sant’ Elmo solo rimaneva colla guarnigione de’ francesi; il governo ed i patrioti, che, nel caso del pericolo imminente, sarebbero stati moltissimi, sarebbero passati in Capua. Il ministro di guerra credeva di poter avere per questa operazione quasi diecimila patrioti; anche seimila sarebbero stati sufficienti. La guarnigione di Capua, per se sola insufficiente al perimetro della piazza, si potea rinforzare: il resto de’ patrioti avrebbe potuto formare un campo trincerato al Garigliano, e mantenere cosí la comunicazione tra le due piazze di Gaeta e di Capua e tra la repubblica napoletana ed il resto dell’Italia.

Si conservava cosí tutta quella gran parte della provincia di Terra di Lavoro che è dietro la linea delle fortezze fino a Venafro: operando di concerto coi patrioti di Roma, si poteano chiudere in mezzo e distruggere le insorgenze di Sora e San Germano, si conservava la comunicazione colla provincia del contado di Molise e della Puglia, e per mezzo della Puglia si comunicava colla Lucania; province dove il partito repubblicano era stato superato, ma non distrutto, e dove, anche vinto, era superiore al partito vincitore.

Le forze repubblicane si sarebbero riunite; le disgrazie e la necessitá le avrebbero fatto meglio dirigere. I repubblicani avrebbero incominciato a far ciò che fino a quel tempo fatto aveano [p. 278 modifica]gl’insorgenti, e questi, ridotti tutti in Napoli e non padroni cosí facilmente di Sant’Elmo, sarebbero stati assediati essi stessi. Forse il momento, in cui gl’insorgenti entravano in Napoli, sarebbe stato quello che avrebbe distrutta l’insorgenza; forse la repubblica avrebbe vinto ancora, forse sarebbe salva..., o almeno, ed in ciò non vi caderá dubbio, sarebbero salvi i repubblicani.

p. 187, v. 16, dopo «viva il re» è apposta la nota: I due officiali, che diedero i primi l’esempio di viltá, furono Guastaferri e... quasi vorrei dirlo: perché nascondere i loro nomi? La maggior gloria della repubblica napoletana è appunto che tra tante migliaia di patrioti non conta che cinque soli deboli.

p. 187, v. 32: Non si sa qual fato avesse distolto gli animi dall’esecuzione di questa sentenza, che pure era la migliore. Si vuole che Méjan, comandante le forze francesi in Sant’Elmo, vi si fosse opposto. Se Méjan avea giá venduto il forte e la cittá a Carolina, al certo la sua premura dovea esser quella di consegnarle tutt’i patrioti senza lasciarne fuggire neppur uno. Intanto Napoli era in preda al saccheggio, agl’incendi, al massacro: l’ira, la vendetta, lo spirito di partito, il furore piú generale della rapina, comunicato ad una massa immensa di popolo, produr doveano effetti terribili; tanto piú quanto che coloro i quali comandavano, invece di frenare il popolo, lo aizzavano. Il popolo napoletano è naturalmente buono; ma, caldo come il clima che abita e pieno di sensibilitá, che un governo prudente farebbe divenir utile alla patria, rassomiglia al Vesuvio nelle sue esplosioni. Ruffo vedeva le stragi e le approvava, o almeno le permetteva; ma Ruffo, ad onta della porpora, onde appariva rivestito, non era che un capo di briganti. E voi, inglesi, voi che vi chiamate i piú colti, i piú buoni tra’ popoli, voi stessi permetteste, voi vedeste, voi anche eccitaste tali orrori. Méjan riposava indolente sopra Sant’Elmo, dividendo il suo tempo tra la voluttá ed il gioco. Potea contenere il popolo a dovere; dovettero pure le grida de’ sventurati, che erano massacrati, salir fino a lui; dovette vedere scorrerne il sangue ed arder que’ roghi, dove si cuocevano le membra degl’infelici uccisi, che il popolo mangiava: diviso tra la voluttá ed il giuoco, non curò neanche di rivolgerci uno sguardo: poteva riparare a tanti mali, e non curò di farlo. [p. 279 modifica]

p. 188, v. 12: Un pugno di gente fece delle sortite sorprendenti: con un poco piú, ecc.

ivi v. 15: Subito che non potette aver piú danaro, non permise, ecc.

p. 192, v. 15: Non avea forsi Ruffo, vicario del re, promesso mille volte il perdono? Sovrani della terra! io non parlo a’ popoli: questo nome forse non merita la vostra alta attenzione. Ma, quando qualcheduno de’ vostri popoli si ribellerá (uso ancora quest’espressione, che pure non conviene a noi) e, non potendo esser vinto colle armi, ricuserá i patti che voi colle vostre sacre parole loro offerite; quando vi dispiacerá di non esser creduti leali, ricordatevi allora del vostro compagno, amico e cugino Ferdinando quarto. Egli ha giustificata in eterno la condotta de’ popoli.

p. 192, V. 26, dopo «Regno» è apposta la nota: Il furore degli arresti era giunto a segno, che furono arrestati molti pazzi che erano ai pubblici «mattarelli»; fu arrestato Onofrio Galeota... Chi è questo Galeota? È un pazzo, il quale non è ai «mattarelli», perché la sua pazzia, invece di disgustare, diverte; è un pazzo noto per tutta Napoli, perché tutta Napoli è divertita da lui. Egli è meno di un pazzo, perché non gode neanche di quella compassione che agli altri pazzi si accorda. Furono arrestate finanche le fanciulle di cinque anni: non piú di cinque anni avea la figlia di Gonzales, che pure fu sei mesi in arresto. Sono stati condannati all’esilio de’ fanciulli di dodici in tredici anni. E quanti giovanetti sono andati a morte? Serra, Genzano, Riari, Varanesi non erano appena maggiori, e meritavano almeno per la loro etá di salvar la vita.

p. 194, v. 10: Il re, che fino alla sua partenza da Napoli avea mostrato solo indolenza e viltá, dopo il suo ritorno mostrò la piú dura ferocia. Chi conosce la storia sa che queste due qualitá non mal si alligano nello stesso carattere.

ivi v. 24: — Va bene, conducetelo alle carceri — era la sua risposta ordinaria, alla quale talora soleva aggiungere con un riso crudelmente ironico: — E trattatelo bene, perché è un bravo galantuomo.— [p. 280 modifica]

p. 194, v. 29: ed avviliva la maestá reale finanche a passeggiare al loro cospetto...

p. 195, v. 30: Sará dunque vero che la sua osservazione non sia altro che un pregiudizio di un’anima buona? L’umanitá rimarrá sempre invendicata, e la virtú ed il delitto non avranno nell’ordine delle cose un premio ed una pena?

p. 196, v. 12: Questo mostra la clemenza del re, il quale, potendo condannare a morte cinque milioni di persone (ché non meno di tanti avean riconosciuta la repubblica), si contentò di condannarne solo poche migliaia.

p. 197, v. ultimo: Questo articolo fu immaginato per timore che qualche infelice non sfuggisse alla severitá degli articoli precedenti.

p. 199, v. 1: Non era forse piú nobile, senza immaginare tanti ridicoli pretesti, de’ quali giá le storie ci offerivano infiniti nauseanti esempi, immaginare una proscrizione e scrivere in un editto: che, «avendo finalmente la divina provvidenza accordato il suo favore alla causa di colui che tanto bene imita in terra, per lo suo cuore paterno, la clemenza di Colui che è nel cielo il padrone della natura; intenta sempre Sua Maestá al bene de’ suoi fedelissimi sudditi, che egli ama come suoi figli, e volendo ridonare a’ suoi amatissimi regni quella pace, quella tranquillitá, quella religione, della quale l’avean privato le armi francesi; veniva a condannare a morte trentamila uomini onesti, quali aveano il grave delitto di essere stati repubblicani; e, sebbene la loro colpa meritasse pena maggiore, pure, per effetto della sua innata clemenza, si contentava per ora di condannarli a morte ed alla perdita de’ loro beni. La stessa sua innata clemenza faceva sí che condannasse all’esilio altri trentamila, che pur meritavano la morte; ed altri trentamila, che meritavano l’esilio, si contentava per ora di condannarli alla sola miseria ed infamia, loro vita durante tantum. E tutto ciò non per desio di vendetta o per memoria di offesa, ma solo per soddisfare in parte all’immenso debito che ogni buon sovrano ha colla giustizia divina, troppo oltraggiata dagli onesti e scellerati repubblicani»? [p. 281 modifica]

p. 200, v. 16: Si trovavano i testimoni, si formava il processo: tutto ciò non era che una conseguenza della sentenza giá dettata. Il principe di Torella fu condannato a morte per essersi trovato alla festa in cui si lacerarono le bandiere: ora è dimostrato che in quel giorno Torella non vi fu, né vi potette essere, perché, come capitano della guardia nazionale, montava la guardia colla sua compagnia al posto di San Giacomo.

p. 203, v. 19: Possano tutti gli altri comprendere da questi esempi infelici tutto l’orrore che si deve avere alla tirannia! Possano cosí, almeno una volta, i tiranni esser utili al genere umano, rendendolo piú saggio!

ivi, v. 22: Dopo la caduta della repubblica scorriamo per Napoli come tra gli avanzi miserabili di un vasto incendio. La popolazione intera non presenta che l’immagine dello squallore. Siccome la repubblica era stata seguita in Napoli dalla parte migliore della nazione, cosí, colla contrarivoluzione, tutto ciò, ecc.

p. 204, v. 14, dopo «ignoranza» è apposta la nota: Il re di Napoli ha proibiti i studi di filosofia e di matematica. Una delle accuse date a... si fu quella di far studiare a suo figlio le antichitá romane. — Padre scellerato! — gli diceva Bosco — questi studi fate fare a vostro figlio in questi tempi! — È facile indovinare che fu arrestato anche il maestro.

p. 205, v. 20: Questi ripetuti esempi mossero la Giunta a togliere ai condannati la libertá di parlare. I vili s’indispettiscono al coraggio de’ buoni. Ma gli atti, il contegno, il passo, tutto indicava quel coraggio che trionfava delle persecuzioni della Giunta.

p, 206, v. 26: Quest’opera é intitolata Saggio, e sarebbe ingiusto pretendere che in un saggio vi sia tutto. Molti avvenimenti ho dovuto anche tacere, perché potrebbero compromettere molte persone e famiglie, il destino delle quali dipende ancora dalla Giunta. Ma dichiaro che, oltre di ciò che io ho detto ed oltre delle persone che ho lodate, molti altri fatti e molte altre persone meriterebbero di esser tramandate alla posteritá. Non s’imputi perciò il mio silenzio a colpevole noncuranza. [p. 282 modifica]

p. 206, v. 29: Caracciolo... era... uno dei primi geni di Europa per la marina. Perché non era egli il primo? Perché non era alla testa di una marina grande quanto l’inglese, perché non serviva una corte che l’amava, perché non apparteneva ad una nazione che pregiava le sue cose. Caracciolo intanto avea guadagnato la stima della nazione; avea forzato anche il re ad amarlo; ma che poteva, ecc.

ivi, v. 33: posposto a Guillichini, Spanocchi, Thurn ed altre vilissime creature di Acton.

p. 207, v. 3: Perché non chiamar vile un uomo che conosceva Caracciolo, che poteva salvarlo, ed intanto segnò l’ordine della sua morte 5?

ivi, v. 12: il vile Thurn la comandava, ed il re... il re era a dieci passi sul legno di Nelson. Si portò la viltá finanche a volergli negare la sepoltura. Due giorni dopo il cadavere apparve galleggiante sotto il legno di Nelson, sotto gli occhi del re, quasi per rinfacciargli il suo delitto.

p. 208, v. 1: Io ho veduto quest’uomo rispettabile, quando nelle carceri avrebbe potuto salvar la vita. Hamilton e lo stesso Nelson, a’ quali avea piú volte prestati i soccorsi della sua scienza, aveano interceduto per lui. Egli ricusò una grazia che gli avrebbe forsi dovuto costare una viltá, e sdegnava una sorte migliore di quella de’ suoi fratelli.

ivi, v. 22: I suoi Saggi politici sono la miglior cosa che si possa leggere dopo le opere di Vico.

ivi, v. 25, è apposta la nota: Noi ci rimettiamo all’elogio che di lui pubblicherá il cittadino Massa nella nuova edizione che in Milano si fa de’ suoi Saggi politici.

p. 209, v. 2: Mi pareva di veder in lui il giovinetto Catone, che chiedeva un pugnale per uccidere Silla, che niun male [p. 283 modifica]gli avea fatto, da cui nulla egli avea che temere, ma che tanti mali e tanti timori cagionava agli altri. Emigrò due anni prima della rivoluzione, perseguitato dalla corte, che giá lo temeva.

p. 209, v. 29: Scotti Marcello. Io renderò questo omaggio alla modestia di quest’uomo, come Rousseau lo rese al sua patriota Abauzit.

ivi, v. 34, dopo «Giannone» è apposta la nota: La posteritá riderá certamente della quistione della chinea, agitata fino nel secolo decimottavo. Ma la filosofia ed il gusto, anche quando non si parlerá piú di chinea, apprezzeranno la Monarchia papale e l’Allocuzione del cardinale al papa, che Scotti e Salfi ci diedero.

p. 211, v. 16, dopo «italiana» è apposta la nota: Si avverta che quest’opera è composta qualche mese fa, quando le circostanze erano diverse (Nota dell’editore).

ivi, v. 25, invece del brano conclusivo, il seguente: Masaniello, senza i nostri lumi, ma nel tempo istesso senza i nostri vizi e gli errori nostri, suscitò in tempi meno felici una gran rivoluzione in quel regno; la spinse felicemente avanti, perché la nazione la desiderava; ed ebbe tutta la nazione con lui, perché egli voleva solo ciò che la nazione bramava. Con picciolissime forze, Masaniello ardí opporsi, e non invano, all’immensa vendetta della nazione spagnuola. Masaniello morí, ma l’opera sua rimase; né i napoletani avrebbero allora perduta la libertá, se, mossi dal funesto delirio, non avessero mendicati gli aiuti del romanzesco duca di Guisa, il quale portò tra noi idee e costumi che non eran quelli della nazione, e costui, da amico e protettore, non avesse voluto divenir padrone. Allora la nazione napoletana, che si era mossa contro la Spagna per amore della libertá, per lo stesso amore sí riuní alla medesima.

Ma, se mai il corso degli anni rimenerá in Napoli nuove occasioni di libertá, rammentino i repubblicani che il primo mezzo di render felice una nazione è quello di amarla, il secondo è quello di conoscerla: né la stima servile né la vile ammirazione né le dottrine de’ stranieri renderanno mai gli animi energici e sublimi, quali conviene che siano gli uomini liberi, né l’amor della patria si potrá mai generare negli umani petti senza la stima di se stesso. [p. 284 modifica]Rammentino che la popolazione del regno di Napoli vien formata da cinque milioni di persone, che tutte han dritto alla felicitá, e che una rivoluzione, la quale non produca la felicitá del maggior numero, non è che il trionfo momentaneo dí una fazione, che finalmente cade vittima della sua ingiustizia. Tolga il cielo dagli animi de’ nostri repubblicani quello spirito di odio e vendetta, che solo siede bene negli animi de’ re, e, piú della vendetta, tolga quello spirito di separazione ed insulto, che, senza distruggere l’inimico, l’offende e che, senza far perire la nazione, la lacera con eterna guerra. Ma sopratutto rammentino che non mai libertá vi fu senza indipendenza, che non mai indipendenza si ebbe senza forza, e che invano si fonda repubblica in una nazione, la quale abbia continuo bisogno degli aiuti e della protezione di un’altra. Potranno talora le altre nazioni infrangere i lacci nostri; ma, resa che ci abbiano una volta la libertá, noi soli possiamo e dobbiamo conservarla; e, coll’eterna gratitudine verso i nostri liberatori, mostrar dobbiamo ancora che noi siam degni di essere gli eterni loro amici.

Note

  1. Mi si è detto che tale istituzione era stata imitata da un’altra simile, che eravi nella Cisalpina. Non so se ciò sia vero; ma, quando anche lo fosse, non so se un esempio, e non felice, potesse giustificare una condotta non ragionevole.
  2. Lo ripeto: la causa dell’errore era ne’ principi e non nelle persone. Erano due cose diverse esser patriota e meritare un impiego. Ma intanto si diceva: — N... è un ottimo patriota; facciamolo generale. — Ma è cattivo generale... — Non importa, è patriota. — Quando si ragiona cosí, qual differenza tra questo linguaggio e quello di un despota, il quale dica: — M... è ignorante, è pazzo, è venale; ma è mio favorito, ed io lo voglio magistrato — ?
  3. Uomini del popolaccio. Non intendo offenderli, quando dico che erano inetti alle cariche loro date e che non godevano veruna opinione.
  4. Questo progetto fu con pochissima differenza proposto, anche prima, da Arcovito.
  5. Non è Nelson un grand’uomo? Non appartiene egli ad una gran nazione? Ebbene! Egli è per questo appunto tanto meno scusabile, ogni volta che avvilisce e la nazione e se stesso.