Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana/Professione - Arte - Mestiere
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PROFESSIONE - ARTE - MESTIERE.
(Dialogo fra queste tre voci)
M. Buondì, sorelle.
A. Donde ha originato costui la sua parentela con noi?
M. Costui ..... costui ..... A che serve, signorine mie, lo star sul grosso, e rinnegare i parenti? Noi siamo tutti e tre d’un casato, anzi così strettamente congiunti, che il mondo ci crede nati ad un medesimo parto.
A. Chi t’ha dato a credere siffatte cose?
M. Queste cose le ho imparate da me leggendo que’ libri, che fanno le parti a tutti i cristiani, che hanno un nome.
A. E dove hai tu imparato a leggere?
M. Nella scuola di mutuo insegnamento.
A. Potrai col tempo dirozzarti, ma per ora tu se’ pur sempre derrata da plebe.
M. Ed io ti replico, che sono tuo uguale, e se mi fai saltar la mosca al naso ti proverò che sono anche dappiù di tutte due voi altre ...... Su via, squaderniamo un po’ questo libro.
A. Che libro è quello?
M. Il vocabolario della lingua. Or tacete, signorine, e udite la vostra sentenza. (legge) «Mestiero, arte, esercizio, professione.» Ah? che ve ne pare? son’io una cosa stessa con voi? non possiamo noi fare un sol fuoco? anzi, essendo io del genere mascolino, non sono forse dappiù di voi, appunto come il maschio è dappiù della femmina? or bene, venitemi dietro, e fatemi un po’ di corteggio.
A. Ma quel libro.....
M. Eh non occorre calcitrare: è questo l’evangelo della lingua, e chi ne va senz’esso è sulla strada della resìa.
A. Mai no.
P. Mai no, al certo.
M. Mai sì stiticuzze, mai sì permalose, mai sì.
A. Vil verme! ..... a troncar sì bassa contesa mi basterebbe allargar queste ale che porto raccolte intorno alla persona, per poggiar tant alto che la ta vista non v’arriverebbe. Fa dunque fine al to dir temerario, e senti queste poche parole .....
M. Io vuo' dire il fatto mio, e dirlo di santa ragione; questi tuoi modi non mi quadrano, e opra d’alzar la voce schiamazzerò più forte di te, e ti ridurrò al silenzio.
A. Bravo! da par tuo!
M. Se il vocabolario non ti va a sangue, leggi quegli autori antichi che parlarono di me tanto onorevolmente, e ti so dire che son di quelli co’ mustacchi e colla barbetta, che vivevano millant’anni fa.
A. Qui ti voleva. Or ascoltami, e fa senno: al tempo in cui la lingua italiana balbettava in culla, tu ci venisti dalle coste della Provenza, ove avevi deposto il maestoso tuo nome di magisterium. per assumer quello di mestier1. In quest'abito fosti accolto da’ nostri padri, i quali ti riconobbero atto ai loro bisogni, che erano allora assai pochi: nè io era ancor ben nota per le mie tante qualità che risplendettero dappoi. I tempi ti correvano propizii, poichè fra le arti che professavano gli uomini non v’era che una sola distinzione, di nobili cioè, e di servili. Nobili erano l’armi, servili la medicina, l’architettura, ed ogni altra cosa che dalle opere dell’intelletto procedesse. Basti il dire che la cavalleria, quel bizzarro mescuglio di forza e d’ignoranza, si recava ad onore il non saper leggere. Quindi ogni arte, che quella dell’armi non fosse, era riputata indegna d’un onorato cavaliere, e chiamata mestiero. Ma quando la lingua prese ad ampliarsi per opera di que’ grandi, della fama de’ quali è pieno il mondo, quando s’incominciò a risalire alle fonti latine, allora il vocabolo magisterio tutto bello ed intiero venne a dispogliarti d’una gran parte de’ significati che gli avevi usurpato: allora io stessa incominciai a sollevarmi, e giunsi poscia tant'alto co’ miei prodigii, che, il mondo ebbe rossore d’accomunarmi con te, e ti ridusse alle botteghe ove stai. Ecco in breve la tua istoria; fanne il to pro.
M. Piano, che e’ non si levi polvere, monna dottoressa; tu salti a pie’ pari il tempo nel quale il popolo di Firenze era ordinato per arti e non già per mestieri, quantunque i mestieri fossero la parte più numerosa di esso.
A. Erano tempi di repubblica popolare; e chi non sa che tu sei, mentre essi durano, il tutto potente? Il popolo fiorentino che ve deva i cardatori ed i ciompi nel palazzo della Signoria, temendo forse che il nome di mestiero venisse a menomare la loro autorità, nobilitò ogni ignobile esercizio col nome d’ arte minore2, mostrando così, che io non posso in nessun modo sottentrarti senza rimettere alquanto della mia dignità.
M. Beati gli antichi; essi eran tutti dalla mia.
A. Bada all’uso de’ moderni, coi quali tu vivi.
M. Hanno messo un tallo sul vecchio cotesti; ma lasciamo di questo, e fa conto di avermi chiarito. Stiamo a’ moderni, come più vuoi, e dimmi mò, come avendo tanta tema che io collo starti vicino ti possa tignere, tu non ti fai un caso al mondo di prendere il luogo mio quando ti pare e piace? e se tu’l fai, giustizia vuole ch’io pur il faccia, e venga talvolta sostituito a te.
A. Non mai. Nell’ampio mio significato io posso abbracciare tutti quanti gli esercizii della mente e della mano dell’uomo, e però come maggiare ogni minore in me comprendo; ma tu nol potresti, senza mandar sossopra mille idee già stabilite da una lunga consuetudine.
M. Tu cerchi d’ingarbugliarmi con parolone che io non intendo. Spiegati con un esempio.
A. Non odi tu ripetere sovente l’ arte della guerra, l’ arte della scoltura, l' arte musicale?
M. Sì, odo.
A. Or fa, se’l puoi, di porti in mia vece.
M. Oh bella! Senti come è facile. Il mestiero della guerra, il mestiero della scoltura, il mestiero della musica, e vattene là.
A. A questo modo tu fai di Montecuccoli un masnadiero, di Canova uno scarpellino, e di Rossini un orbo che strimpella il violino per le strade; confondi gli artisti cogli artigiani, e sconvolgi questa bella civiltà del nostro secolo.
M. Ma non sono io ’l compagno dell’Industria, che è signora nobilissima?
A. Appunto come il fantaccino è il compagna d’armi del generale.
M. Boccuzza spiritosa! Non è a dire, che tu confetti le parole.
A. Vuoi altro da me?
M. Resta che mi sciolga un dubbio, e mi dica francamente, se io non posso uscir mai da quelle mie bottegacce affumigate, e comparir talvolta fra la nobil gente rimpannucciato, e in abito da festa.
A. Meglio per te che nol facessi.
M. Perchè?
A. Perchè quando tn vieni traslatato alle abi tudini morali o all’esercizio d’alcuna facoltà intellettuale dell’uomo, le fai odiose o ridicole.
M. Codeste tue abitudini morali, e facoltà intelletuuali le son cosacce, che mon mi vanno. Mano agli esempj, sorel.... voglio dire signora.
A. Tizio fa l’avvocato per mestiere, vale a dire che egli non istudia le cause, ed assassina i clienti; Filinto è poeta di mestiere, e s’intende un birbantello che scrivacchia per tutte le nozze, e scrocca i pranzi alle tavole de’ ricchi. Frine ha lasciato il marito, e fa il mestiere, non occorre dir quale; costui vende i suoi fratelli, e si dice che egli fa quel mestiere ....
M. Basta, basta: che nessun ci senta....
P. Se’ tu soddisfatto? hai tu avuto il dovere?
M. Con te, signora Professione che fai da te stimonio senza più, altro ci è. Tu se’....
P. Io non sono nè mestiero, nè arte, ma vo or coll’uno or coll’altra, secondo che l’uomo, col quale sto sempre dal dì ch’egli sceglie il modo del suo vivere futuro, imprende l’esercizio di quello, o di questa. Non posso mai andar sola, epperò m'accoppio più volentieri ai frati ed alle monacelle, che non mi lasciano mai, e se vengo fra la gente seguo coloro, che sono fermi in un proposto, e mi guardano come la compagna della vita loro.
M. Anche costei parla coi ghirigori. Che vuo' tu dire, schizzinosa?
P. Vuo’ dire che io non ho che far nulla con voi, poichè sono molti quelli, che senza esercitare nè arte, nè mestiero fanno professione d’onestà, di cortesia, di gentilezza; che io non possa andar sola, ognun che abbia occhi sel vede, non potendosi dire che uno fa professione senza aggiunger quale, ove non s’intenda di frati, perchè in questo solo caso sono voce solenne. Fuori di convento io vo colle virtù, colle arti, e coi mestieri, non mai colle cariche, nè colle dignità mondane.
M. E però quando vieni con me, tu se’ allora un altro me stesso.
P. No, perchè son sempre più nobile di te, e lontana affatto da quelle turpi allusioni accennate da costei poco fa.
A. Tieni dunque a mente questo ricordo, che tu sei propriamente esercizio d’opera manuale, senza nessun soccorso d’ingegno, e che quando vieni adoperato per figura la fai sempre cattiva. A cavarti il ruzzo dal capo d’esser nostro parente basti l’avvertire, che io non posso star mai senza ingegno, senza destrezza, senza abilità, e che costei disdegnosa d’ogni opera manuale non può assumere le tue veci, ma può soccorrerti, e darti alcun conforto, come fida ed onorata compagna d’ogni uomo, che abbraccia fermamente una buona maniera di vita.
M. Dunque io torno alle mie botteghe?
A. Verrò alcuna volta a visitarti, e ti abiliterò a produrti sui mercati d’Europa; ti giovi intanto il mio avviso, e caccia via quel prurito di vor ler montare in onoranza, poichè quando i tuoi pari vi si attentano, vanno sossopra gli stati, e si perde ogni onesta costumanza. Addio.
M. Senza tornata, signora mia.