Saggio di racconti/X
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RACCONTO X.
Sotto il capezzale del letto di un povero giovine morto di etisia in uno spedale di Napoli fu trovato questo scritto:
Io Domenico Zola nacqui in Venezia da onesti e facoltosi genitori, e fino all’età di sette anni fui educato in casa mia, e vissi con loro. Me ne rammento poco dei primi anni; ma so che furono i più felici, poichè io era figlio unico, e toccavano a me tutto l’amore e tutte le carezze dei genitori... Ah sì! la memoria di quella vita è stata la mia sola consolazion vera su questa terra. Ogni mio desiderio era subito esaudito; per me tutte le ricreazioni, tutti i diletti; e credo non aver dovuto una sola volta far cosa di contro genio. Povera madre mia! me ne sovvengo di te, del tuo grande amore; e mi rammento che non avevi bene se non mi vedevi lieto e felice.
Mio padre era negoziante, e stava poco in casa; anzi per due volte in quei sette anni viaggiò lontano da Venezia parecchi mesi. Tornato dal suo secondo viaggio trovò mia madre malata; e poveretto! gli toccò a vederla peggiorare e morire nelle sue braccia. Odo ancora i pianti che furono per casa; ma io che non aveva idea della morte, la credei un sonno più lungo, e aspettava che la mamma si risvegliasse. Poi seppi che l’avevano portata nel Campo-santo; voleva correre a rivederla; mi fu negato. Anzi la stessa sera mi vidi condurre in casa dei parenti, e il giorno, dopo mio padre mi abbracciò, mi dette mille baci con le lacrime agli occhi, abbracciò anche i parenti, mi raccomandò a loro, e si rimesse in viaggio; più, credo io, per fuggire alcun tempo i luoghi che gli rammentavano la perdita dolorosa, che per avidità di guadagno. Mi rimasero impresse nella mente le sue parole: «Voglimi sempre bene, e studia, figliuolo mio; studia per diventare il sostegno della mia vecchiaia.» — Mi rimasero impresse; ma oh Dio! con qual frutto! ora le sono il più crudele dei miei rimorsi.
A dir vero, anche i parenti mi volevano bene, e non mi lasciavano mancar nulla; ma quanta differenza dal loro affetto a quello dei genitori! Indi fui messo in un collegio, ed avrei avuto modo di farvi buona figura. L’ingegno forse non mi mancava, ed io era anche il più ricco dei miei alunni; così almeno mi diceva il prefetto, e lo davano a divedere le attenzioni che mi venivano fatte, la dovizia delle mie vesti, e i ragguardevoli donativi che i miei superiori ricevevano a nome del babbo. Nei primi mesi pensai molto a lui, e mi affliggeva della sua lontananza; ma poi gli studj che mi annoiavano, i divertimenti e la compagnia mi distrassero, e cominciai a non desiderare altro che di godere dei miei comodi, e di sentirmi dire ch’io era ricco. Ah! nissuno mi fece riflettere che quella ricchezza era tutto sudore di mio padre, che io non doveva abusarne, e che i molti denari sono inutili anzi dannosi senza l’istruzione, e senza la buona condotta. I parenti venivano a vedermi due o tre volte l’anno, ed io desiderava la loro venuta solo pei donativi che andava poi ostentando agli occhi dei camerati.
Ho detto che gli studi mi annoiavano; ma presto la noia divenne avversione. Io diceva tra me: Se è vero che sia ricco, non occorre che studi. Così m’era nata a poco per volta tanta pigrizia, che mi pareva troppa fatica la stessa ricreazione. Alla fine per isfuggire i rimproveri dei maestri e la vergogna d’esser rimasto indietro anche ai minori d’età, mi buttai a fare il malato. Mi crederono, o finsero di credermi; e abbandonato nell’infermeria, ebbi agio di fomentare la mia pigrizia. Aveva già ricevuto due o tre lettere di mio padre dall’America. Erano piene di savi consigli e di affettuose ammonizioni; si lagnava del suo indugio involontario; mi scongiurava a serbargli affetto, a fare il mio dovere come figliuolo amoroso, e come buono alunno del collegio. Quelle lettere mi davano da pensare per alcuni giorni, e mi inspiravano buoni proponimenti, ma di poca durata. Ormai la pigrizia mi aveva reso ottuso l’intelletto, debole la volontà, insopportabile ogni fatica; era divenuto indifferente al biasimo ed all’elogio; e inclusive le forze, le forze stesse del mio corpo erano diminuite a segno, che mi pareva d’essere inchiodato nel letto.
Quindi la mancanza di moto e l’intemperanza nel cibo mi fecero ammalar davvero; corsi rischio di soccombere, e passai due anni tra la malattia e la convalescenza. Quando fui guarito ne aveva dodici; e dopo questa lezione avrei dovuto ravvedermi. Ma intanto io era il più ignorante di tutti; appena sapeva leggere e meno scrivere e far di conto. Arrossii di me stesso, ma trovai facilmente una scusa nella lunga malattia; credei che l’assunto di raggiungere gli altri sarebbe stato ormai superiore alle mie forze, pericoloso per la debolezza della salute, e deposi ogni pensiero di correzione. I maestri non si presero più cura di me; fui creduto incapace d’imparare, e divenni il ludibrio del collegio. Alla pigrizia si aggiunse allora lo scoraggimento e il dispetto.
Mi trovava a quindici anni nella massima umiliazione, quando mio padre tornò dai suoi lunghi viaggi. Per pochi momenti godemmo d’esser l’uno nelle braccia dell’altro. Ma poi... oh, come fu amareggiata la gioia di rivederci! Accortosi egli della mia vergognosa condizione, fu preso da immenso dolore; ed io, io ebbi ancora la forza d’arrossire di me stesso, e fui costretto a nascondermi, a fuggire i suoi sguardi: «Misero me! aveva esclamato mio padre, ecco dunque perduto anche il figliuolo! E peggio che perduto! Se fosse morto, non mi dovrei vergognare di lui!» Quindi accusando fors’anco la trascuratezza dei superiori, mi tolse tosto da quel collegio, mi fece entrare nella milizia, e dopo pochi giorni ripartì per l’America. Quella volta non venne a dirmi addio. Forse era troppo dolorosa per lui la vista di un figliuolo sì sciagurato; ma ebbi una lettera che ho conservata per lungo tempo e che era a un di presso di questo tenore. «Figlio mio, se ti saprai ravvedere, troverai un altro padre nel tuo superiore; ed io tornerò ad amarti e ad aver cura, benchè lontano, di te, come del più caro oggetto ch’io m’abbia su questa terra. La mia assenza non sarà più tanto lunga; fa ch’io ti ritrovi quale il cuor mio ti vorrebbe; e pensa che le ricchezze di un negoziante possono esser distrutte da un colpo di vento.» Io bagnai quella lettera con le lacrime del pentimento; mi sottoposi alla disciplina militare, alle fatiche, agli studj; ma, oh Dio! fu troppo tardi! La pigrizia era sì radicata, che tornò presto ad opprimermi; nè valsero mortificazioni, minacce o gastighi per liberarmene. Chè anzi li considerai come ingiuste persecuzioni, e divenni maggiormente malvagio. Allora io la vinsi la mia pigrizia, sì, io la vinsi, ma per obbedire alli stimoli della vendetta. Scellerato ch’io fui! Scusando me stesso con indulgenza colpevole, accusai gli altri del danno ch’io m’era fatto; e divorato dai rimorsi, avvilito, respinto dalla società, condussi per tre anni una vita lacrimevole, parte nell’infermeria, e parte in carcere. Due volte tentai di scappare, e due volte fui condannato a più lunga pena.
Una mattina il superiore venne a trovarmi. Aveva in mano una lettera; era accigliato. Sebbene da lungo tempo io fossi avvezzo a non curarne la severità, nonostante quella volta mi fece tremare al primo vederlo; e quella lettera che mi parve di mio padre, mi empì l’anima di sgomento: «Vostro pardre, egli disse in tono compassionevole, ha bisogno di voi, del vostro aiuto... Egli è infelice! Qual soccorso potete dargli? Un fallimento lo ha ridotto nella miseria. Ha dovuto abbandonare l’America; a quest’ora sarà a Napoli, e stenderà forse la mano per chiedere l’elemosina; qual soccorso potete dargli? Avete venti anni... E’ non ha risparmiato spese per educarvi... Cosa farete per lui? Sciagurato! Se egli sapesse tutto, gli dareste la morte. Ma... benchè tardi, la disgrazia vi farà ravvedere. Eccovi una borsa di denaro; andate a portarlo a quell’infelice; me lo restituirete quando potrete. Eccovi anche il vostro passaporto e il suo indirizzo. Fino da questo momento siete libero.» E lasciatami aperta la carcere, andò via.
Io rimasi atterrito, senza forza di alzarmi, nè di parlare. Mi venne un giramento di capo, un’arsione tormentosa alle fauci. Mi parve di veder mio padre comparso lì, davanti a me, nel posto del superiore, vestito da povero, in atto di rimproverare la mia sciagurata condotta; volli mettermi in ginocchioni per chiedergli perdono; ma stramazzai a viso innanzi sopra il terreno, e perdetti i sensi. Ritornato in me, credeva sulle prime d’aver sognato; ma ritrovata la borsa ed i fogli, e vista spalancata la porta, conobbi che pur troppo tutto’ era vero. Allora un subitaneo ravvedimento, una stretta di tenerezza filiale mi dettero la forza di correre al porto, e m’imbarcai subito per Ancona. Oh padre mio, esclamava, ho disonorato il tuo nome, sono indegno di te; ma almeno, ch’io giunga in tempo a salvarti da tanta miseria. Ahimè! pareva che anche il mare sdegnasse di sostenermi. Fatte poche miglia, fummo colti da una tempesta che ci spinse sulle coste della Dalmazia. La nave mercantile che mi conduceva era vecchia e mal costruita; l’acqua cominciò a scaturire da ogni parte nella sentina; invano ci affaticammo a vuotarla; poi si spezzo l’albero, cominciò a cadere una pioggia dirotta, e rassegnati tutti a morire ci distendemmo semivivi sul ponte. Dopo sette ore d’agonia, nelle tenebre della notte, un terribile, un improvviso urto ci riscosse; alcuni marinari gridarono terra! Ma la nave era sfasciata, e ci trovammo tra gli scogli dell’isola Lunga. I più dei nostri perirono; io fui raccolto da un povero pescatore. Almeno aveva potuto salvare dal naufragio i denari, l’ultimo scampo del misero padre; ed una barca pescareccia mi condusse il giorno dopo sulla costa del Regno.
Io non avvezzo al mare, e dopo il travaglio della tempesta, non ebbi forza di continuare il viaggio per terra, tanto più che v’erano da salire gli Appennini. Fui adunque costretto a fermarmi una settimana nello spedale di Chieti. Allora ebbi tempo di riflettere alle conseguenze della mia scellerata condotta! Finalmente potei partire da Chieti, e varcare a fatica gli Appennini per vie scoscese. Ma con che faccia poteva io presentarmi ad un padre tradito sì crudelmente? Più volte ebbi a dire a me stesso: «Sarebbe stato meglio che fossi perito nel naufragio!!» Indi rimproverandomi la stolta disperazione, mi feci coraggio, e arrivai a Napoli ventisei giorni dopo la partenza da Venezia.
Ogni povero vecchio che incontrava per via mi faceva tutto arrossire e tremare; credeva sempre che fosse mio padre. Alla fine dopo lungo e penoso aggirarmi per quella immensa città, mi fu insegnata la sua abitazione, che era un povero tugurio nei sobborghi sul mare. Col tremito addosso, con l’ansietà, con lo spasimo dei rimorsi salii una scala di legno che schricchiolava sotto i miei piedi. Quando fui per arrivare in cima, vi comparve una vecchia che messo il dito alle labbra m’impose tosto silenzio. Allora le chiesi sotto voce di Antonio Zola; ed ella rispose: «È qui; ma non si passa; sta peggio; e cosa volete da lui?» — «Come! dissi, sta peggio? Dunque è malato!» — «È moribondo, pover uomo; Parlate adagio.» — «Padre mio!» esclamai, appoggiandomi alla parete, che mi si ripiegarono le ginocchia, nè potei dir altro. La vecchia mi resse alla meglio, e intanto udii una voce, una voce che finì di straziarmi l’anima: «È lui, è lui; e venuto a chiudermi gli occhi.» Allora mi precipitai al suo capezzale; vidi quegli occhi infossati, scintillanti, pieni di compassionevole severità, e vi lessi il rimprovero mescolato all’affetto; sentii palpitare il suo cuore, non ebbi ardire d’imprimere un bacio sulle sue labbra. Io aveva la lingua attaccata al palato, un nodo mi serrava la gola, e i capelli mi parevano spine confitte nel cranio. Ho sofferto l’agonia della morte nel naufragio; ma non era da mettersi a paragone con quello spasimo. Dopo che il padre m’ebbe guardato, richiuse gli occhi, cercò una delle mie mani, la strinse con forza, e mentre io mi scioglieva in lacrime ed in singulti: «Almeno, disse con fioca voce, ti sei ricordato di me. Ora morirò in pace.» — «Perdono, padre mio, perdono!» potei esclamare alla fine. Ed egli riaperti gli occhi un’altra volta, con tenerezza mi disse: «Sì, ti perdono; Iddio...» E guardando il cielo spirò. «Ah! voi l’avete ucciso!» urlò subito la vecchia coprendosi la faccia. «Pur troppo! esclamai disperatamente, pur troppo sono stato io che l’ho ucciso. Io sono un mostro!»
Poi caddi svenuto sopra il corpo del padre, nè mi rammento d’altro, che d’essermi trovato qui in questo letto, dove in breve morirò anch’io. Ogni giorno mi sento diminuire le forze; ogni giorno il sangue che verso dai polmoni mi fa provare i tormenti dell’agonia. Finchè la mente mi ha retto, ho voluto notare le mie colpe ed i miei gastighi, perchè siano d’esempio e di correzione.
Io cominciai dall’esser pigro nelle più piccole cose. Un libro caduto e non raccolto subito, una faccenda rimessa al giorno dopo, una lezione fattami fare da un camerata, il rimanere oggi un quarto d’ora, domani una mezz’ora di più nel mio letto, furono i primi passi a quel vizio che ha cagionato la mia rovina. E dietro esso ne vengono tanti altri!... Il pigro è uno scellerato che fa un danno incalcolabile alla società; ed è tanto più pericoloso, in quanto che le leggi non lo puniscono come il ladro o come l’omicida. Ma e’ commette colpe anche più gravi; tradisce sè stesso, il prossimo, la Provvidenza. Quand’io rifletto al bene che avrei potuto fare per la condizione nella quale era nato, ed al male che invece ho commesso, inorridisco di me medesimo, e non oso sperare il perdono degli uomini, nè quello di Dio. Mi son pentito; ma come rimediare alle conseguenze delle mie colpe? Forse domani morirò, e sarà finito lo spasimo dei miei dubbi e dei miei rimorsi.