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86 | racconto decimo |
trascuratezza dei superiori, mi tolse tosto da quel collegio, mi fece entrare nella milizia, e dopo pochi giorni ripartì per l’America. Quella volta non venne a dirmi addio. Forse era troppo dolorosa per lui la vista di un figliuolo sì sciagurato; ma ebbi una lettera che ho conservata per lungo tempo e che era a un di presso di questo tenore. «Figlio mio, se ti saprai ravvedere, troverai un altro padre nel tuo superiore; ed io tornerò ad amarti e ad aver cura, benchè lontano, di te, come del più caro oggetto ch’io m’abbia su questa terra. La mia assenza non sarà più tanto lunga; fa ch’io ti ritrovi quale il cuor mio ti vorrebbe; e pensa che le ricchezze di un negoziante possono esser distrutte da un colpo di vento.» Io bagnai quella lettera con le lacrime del pentimento; mi sottoposi alla disciplina militare, alle fatiche, agli studj; ma, oh Dio! fu troppo tardi! La pigrizia era sì radicata, che tornò presto ad opprimermi; nè valsero mortificazioni, minacce o gastighi per liberarmene. Chè anzi li considerai come ingiuste persecuzioni, e divenni maggiormente malvagio. Allora io la vinsi la mia pigrizia, sì, io la vinsi, ma per obbedire alli stimoli della vendetta. Scellerato ch’io fui! Scusando me stesso con indulgenza colpevole, accusai gli altri del danno ch’io m’era fatto; e divorato dai rimorsi, avvilito, respinto dalla società, condussi per tre anni una vita lacrimevole, parte nell’infermeria, e parte in carcere. Due volte tentai di scappare, e due volte fui condannato a più lunga pena.