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88 | racconto decimo |
borsa ed i fogli, e vista spalancata la porta, conobbi che pur troppo tutto’ era vero. Allora un subitaneo ravvedimento, una stretta di tenerezza filiale mi dettero la forza di correre al porto, e m’imbarcai subito per Ancona. Oh padre mio, esclamava, ho disonorato il tuo nome, sono indegno di te; ma almeno, ch’io giunga in tempo a salvarti da tanta miseria. Ahimè! pareva che anche il mare sdegnasse di sostenermi. Fatte poche miglia, fummo colti da una tempesta che ci spinse sulle coste della Dalmazia. La nave mercantile che mi conduceva era vecchia e mal costruita; l’acqua cominciò a scaturire da ogni parte nella sentina; invano ci affaticammo a vuotarla; poi si spezzo l’albero, cominciò a cadere una pioggia dirotta, e rassegnati tutti a morire ci distendemmo semivivi sul ponte. Dopo sette ore d’agonia, nelle tenebre della notte, un terribile, un improvviso urto ci riscosse; alcuni marinari gridarono terra! Ma la nave era sfasciata, e ci trovammo tra gli scogli dell’isola Lunga. I più dei nostri perirono; io fui raccolto da un povero pescatore. Almeno aveva potuto salvare dal naufragio i denari, l’ultimo scampo del misero padre; ed una barca pescareccia mi condusse il giorno dopo sulla costa del Regno.
Io non avvezzo al mare, e dopo il travaglio della tempesta, non ebbi forza di continuare il viaggio per terra, tanto più che v’erano da salire gli Appennini. Fui adunque costretto a fermarmi una settimana nello spedale di Chieti. Allora ebbi tempo di riflettere alle conseguenze della