Saggio di racconti/VI
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RACCONTO VI.
NICCOLÒ TARTALEA
(tartaglia)
Esaminate un poco la bella conformazione del nostro corpo, e vedete quanti mezzi la natura ci ha dati per godere dei suoi doni e delle sue bellezze, e per essere utili a noi stessi ed agli altri. Voi sapete già quanti sono i nostri sensi, e vi è noto per esperienza il loro ufficio. Che infinito numero di cose possiamo conoscere con l’aiuto dei sensi! E la nostra memoria è capace di combinare insieme queste cognizioni, e di serbarle fino alla morte. Quindi abbiamo la voce per comunicarci le nostre idee, per moltiplicare il numero delle cognizioni, e per manifestare gli affetti del nostro cuore; e poi la facoltà di muoverci da un luogo all’altro, e l’attitudine delle mani ad ogni genere di lavori... Ma io non finirei più se volessi parlarvi della perfezione del corpo umano. Rifletteteci da voi, ringraziate di questi doni la Provvidenza, e rammentatevi del dovere che avete di farne buon uso.
Ma vi sono e vi furono molti infelici, i quali nacquero privi di qualche senso o di qualche organo, o ne patirono il difetto per disgrazie o per malattie; e nonostante s’ingegnarono di rimediare alla loro mancanza col maggiore esercizio delle facoltà che loro rimanevano, e molti di essi divennero celebri nelle scienze o nelle arti. Si narra di Giovanni Gonnelli da Gambassi che sebben cieco fu capace di modellare in creta somigliantissimi ritratti; del naturalista Huber, il quale dopo aver perduto la facoltà di vedere, seppe descrivere meglio di ogni altro gli alveari ed i costumi delle api; e Saunderson, rimasto cieco da fanciulletto, fu matematico esimio, e compose trattati dottissimi sull’organo della vista, sulla teoria della visione, sui fenomeni della luce e sui colori. I sordi-muti manifestano quasi sempre molto ingegno; e taluni altri che parevano ebeti, alla fine si riscossero dall’ottusità della mente: così Taddeo Alderotti fiorentino, dopo essere stato stupido fino all’età di 30 anni e senza saper leggere nè raziocinare, diventò poi il medico più famoso del suo tempo. E chi sa quanto maggiori cose avrebbero fatte se non avessero avuto da superare simili ostacoli! Ora, se questi e vari altri infelici come loro, ad onta di sì gravi difficoltà, hanno potuto far molto e far bene, quanto più non è da aspettarsi da coloro ai quali mi mancano fin dalla nascita nè la perfezione degli organi e dei sensi, nè le altre doti di natura, nè educazione, nè studio!
Saranno ormai trecento anni, che nella città di Brescia nacque un bambino al quale fu dato il nome di Niccolò; ma i suoi genitori furono tanto poveri, ed egli ebbe nell’infanzia tali disgrazie, che ignorò perfino il proprio casato. Solamente sappiamo che suo padre fu una specie di vetturale, e che lo chiamavano Michelotto cavallaro. In quel tempo poi la Lombardia era travagliata da molte guerre, e vari popoli stranieri, come Tedeschi, Francesi, Spagnuoli, vi si combattevano per usurparne o per saccheggiarne chi una parte, chi un’altra. In tanto trambusto era difficile che i figliuoli dei poveri potessero essere educati bene e istruiti. Quasi tutti gli uomini andavano alla guerra, od erano continuamente minacciati, perseguitati e spogliati dagli stranieri amici o nemici. Le donne e i bambini stavano per le case impauriti, o fuggivano nelle campagne vicine, e vivevano per tutto con timore e disagio. La città di Brescia in quel tempo fu una delle più soggette a gravissimi danni. Sicchè Niccolò, per esser nato appunto allora e da poveri genitori, non potè avere nè educazione nè istruzione, e cresceva rozzo e ignorante di tutte le cose. Era giunto appena all’età di sei anni quando gli morì il padre, e diventò più tribolato che mai. La madre appena poteva campare per sè, faticando tutto dì fuori di casa o chiedendo l’elemosina quando non aveva da lavorare. Così Niccolo rimaneva abbandonato a sè stesso le intere giornate in mezzo a una piazza o per una strada; il suo misero corpicciuolo non aveva che pochi stracci per coprirsi dal freddo, e spesse volte patì la fame. Nè v’era da incolparne quella povera donna di sua madre; ma piuttosto l’ignoranza e la miseria. Un giorno poi, quando Niccolò aveva dieci anni, i Bresciani, che non volevano più sopportare il giogo dei Francesi, si sollevarono, e gli scacciarono quasi tutti. Ma Gastone di Fois, duce degli stranieri che si volevano impadronire di quella parte d’Italia, venne in gran furia con molti dei suoi soldati francesi contro la città sollevata; sbaragliò la gente che la difendeva, e ritornò in Brescia con un esercito avido di vendicarsi, di massacrare il popolo e di rubare. Quando i nemici entrano in una città in questo modo, si dice che la saccheggiano; e cotesto tremendo saccheggio (anno 1512) cagionò la strage di sei mila cittadini. Più lacrimevole d’ogni altra era la condizione dei vecchi, delle donne, dei figlioletti che non si potevano difendere nè fuggire in tanto scompiglio. Si ricovravano nelle chiese, e faceva scoppiare il cuore l’aspetto di tutte quelle deboli creature atterrite, col viso bianco, abbracciate fra loro, piangendo, urlando e raccomandandosi a Dio. Nonostante gli scellerati nemici non ne rimaser commossi; non rispettaron nemmeno la chiesa; vi si precipitarono furibondi, uccidendo i vecchi e le donne supplichevoli e i figliolini innocenti sul seno stesso delle madri; spogliando gli altari, mettendo a soqquadro ogni cosa; nè furono sazj finchè non ebbero portato via o calpestato o distrutto quanto v’era di pregevole e sacro. Speriamo che ora queste cose non seguano, e che non vi siano stranieri sì iniqui da commetterle un’altra volta.
Per avventura la madre di Niccolò potè restare illesa in così terribile rovina della sua patria; ma oh Dio! ella non sperava di ritrovar vivo il figliuolo.
Per quanti sforzi avesse fatto a tenerselo stretto al suo fianco, tuttavia la furia della gente che fuggiva ora quà e ora là, e l’impeto dei feroci soldati ne l’avevano separata. Già nella chiesa non s’udivano altro che i gemiti dei moribondi, le grida disperate delle madri; e ad ogni passo s’incontravano cadaveri d’innocenti. Oh! a lei non importava di esser rimasta viva, senza il figliuolo. Si pose a chiamarlo ad alta voce, a domandarne per tutto, ma invano; alla fine le parve di scorgerlo quasi sepolto sotto i cadaveri d’altri fanciulli. Corse colà, e non s’era ingannata; lo trasse di sotto ai cadaveri, se lo pose affannosa sulle ginocchia, e sentì che il cuore batteva ancora. Ma lo sventurato fanciullo aveva cinque gravi ferite nella testa, il volto tutto imbrattato di sangue, ed ogni istante poteva essere l’ultimo della sua vita. Tuttavia parendole di aver ritrovato un tesoro, lo prese in collo; e senza paura dei nemici che scorrevano per le vie uscì di chiesa, e lo portò a casa con la speranza, ma debole, di salvarlo. Come fare? nella sua indigenza non aveva modo di procacciargli medici nè medicine; e in quei momenti chi avrebbe dato ascolto alle sue querele? Ognuno aveva di che temere per sè medesimo, e gli stessi facoltosi erano privi dei necessari soccorsi. La povera madre non potè fare altro che lavarlo subito diligentemente con l’acqua, e s’accorse che il semplice, il solo espediente che le concedeva la povertà era pur utile a qualche cosa, e che a poco a poco usciva meno sangue dalle ferite. Allora seguitò a tenergli sempre monde le piaghe con le lavande, e in questo modo cominciò ad aver fiducia nella sua guarigione. Ma pareva che il sofferto martirio gli avesse tolto l’intendimento e la vivacità dell’infanzia. Guardava fisso, stentava a rispondere alle carezze, e non faceva udire quasi mai la sua voce. Oh, come era sgomenta la madre! Temè che fosse rimasto ebete, e ormai non vedeva altro in lui che un infelice destinato a perire di miseria e d’inedia. La piaga più grave, e l’ultima a rimarginarsi, fu quella delle labbra che erano tagliate ambedue in orribile modo. Finalmente guarì; ma restò così impedito nella favella, che sul principio era impossibile di capirlo; laonde coll’andar del tempo gli fu posto il soprannome di Tartaglia, che gli rimase poi per tutta la vita, e che egli non si vergognò di prendere per casato.
Dopo esser guarito continuò a patire per la miseria, ed era già arrivato a quattordici anni senza che avesse ombra d’istruzione. Anch’egli per guadagnarsi un po’ di pane cominciò ad aiutare la madre nei servigi che faceva a questo ed a quello; ed ebbe allora occasione di conoscere alcuni giovanetti che s’erano dati allo studio delle lettere. Considerando attentamente quello che essi facevano si sentì invogliato d’imitarli, e gli parve d’aver come loro il diritto d’istruirsi. Cercò un maestro che nelle ore del riposo gli insegnasse a scrivere e a far di conto; ma siccome non potè subito guadagnar tanto da ricompensarlo, così quell’uomo poco caritatevole dopo quindici giorni non si prese più cura di lui, ed ebbe la crudeltà di abbandonarlo. E Niccolò, senza lagnarsene e senza perdersi di coraggio, continuava ad affaticarsi tutta la giornata per ottenere un meschino campamento, e la notte si provava a studiare da sè medesimo quelle cose che gli altri giovani andavano ad imparare alle scuole. La geometria fu lo studio al quale si trovò maggiormente inclinato. Gli bastava d’aver visto per pochi momenti un libro o lo scartafaccio di uno scolaro, perchè tornato a casa, facesse più profitto egli da sè in una nottata di studio, che un altro in un mese di lezioni. Talora fu visto mettersi a sciogliere un quesito di geometria mentre si riposava sopra un muricciuolo dal portare un peso da un luogo ad un altro; e dimenticandosi del servigio che far doveva, starsene lì con un cannellino di brace, e ricoprire di figure e di numeri la superficie di un muricciuolo. Così imparò la geometria, le lingue greca e latina, senza essere aiutato da altri, come scrisse egli stesso, fuorchè da un’onorata figlia della povertà, chiamata industria.
Allora cominciarono i Bresciani ad accorgersi che quel povero garzoncello doveva avere un mirabile ingegno, e vi fu chi gli dette modo di studiare e di soccorrere la vecchia madre, che non si sapeva raccapezzare di quel prodigio. In breve colui che non aveva trovato un maestro per imparare a scrivere, fu richiesto premurosamente dai principali cittadini per istruire i loro figliuoli, e cercato dai giovani più studiosi per ascoltare le sue lezioni. Nè alcuno poneva mente al difetto del tartagliare, tanta era la sapienza e l’efficacia dei suoi ragionamenti. Alla fine l’illustre repubblica di Venezia, udito celebrare da lontano l’ingegno di Niccolò, volle chiamarlo ad aprirvi una pubblica scuola di matematiche; ed egli aveva appena vent’anni! Allora corse alla madre che già godeva del riposo procacciatole dal suo ingegno e dal suo affetto filiale, e le domandò se voleva accompagnarlo a Venezia. La buona vecchia, guardando il cielo con l’espressione della riconoscenza, si alzò e poi ricadde quasi svenuta dalla contentezza nelle braccia del figliuolo. Quand’ella si rinvenne, si trovò in mezzo alle persone più autorevoli della città venute per dire addio all’illustre figliuolo di Michelotto vetturale. E non meno onoravano la madre, vedendo quanta venerazione e quanto affetto Niccolò avesse per lei. Tutti i Bresciani furono addolorati della sua partenza; ma nel tempo stesso si congratulavano pensando come un povero fanciullo, nato e cresciuto fra loro in mezzo a tante calamità, fosse ambito per professore da uno dei principal popoli dell’Italia.
Venezia è fabbricata sopra tante isolette nel mezzo al mare; e per andarvi e necessario navigare sulla laguna. Quando il Tartaglia e sua madre furono vicini allo sbarco, videro una quantità di gondole dov’erano i più distinti personaggi della repubblica, e Niccolò andava indicando a sua madre i nuovi oggetti, le varie fogge del vestire ed il grado di quelle persone, immaginandosi che fossero lì per diporto. Ma quando esse gli furono presso e l’ebbero conosciuto, essendo proprio dirette verso di lui, accoltolo con lieti applausi, lo invitarono a salire con sua madre in una bella gondola condotta apposta e tutta di bellissimi ornamenti fregiata, e l’accompagnarono in trionfo nella città. E mentre onoravano in lui l’uomo di grande ingegno, erano presi da rispettosa tenerezza, vedendo come egli fosse più che tutto sollecito della madre. Ora potreste voi immaginarvi la consolazione di quella vecchia? È impossibile; bisogna esser madre o avere il cuore di quel figliuolo. Ricordatevi di quando ella si sgomentava credendolo divenuto ebete per le ferite.
In seguito poi egli ebbe sempre maggiori onori meritati dalla sua virtuosa condotta, dalla sapienza delle sue lezioni, dalle opere, e dalle maravigliose invenzioni di matematica. Francesco Donato, doge della repubblica di Venezia, gli ambasciatori e i principi di quelli stessi popoli stranieri che avevano fatto tanto danno alla sua patria, e Arrigo VIII re d’Inghilterra, fecero a gara per ricolmarlo di donativi e di onori. Ed egli non se ne inorgoglì mai; cercò anzi di fuggirli, pago di fare il proprio dovere adoperando l’ingegno a vantaggio del prossimo. Quindi preferì sempre ad ogni cosa la riputazione di figliuolo amoroso. Ma la madre non potè vedere fino a qual punto giungesse la stima di tutti gli uomini pel suo Niccolò. Era molto vecchia; dovè pagare il tributo alla natura, e la sua morte fu piena di contentezza, perchè dopo tante sventure era divenuta la più felice tra le madri bresciane.
Io spero che non vi scorderete mai di Niccolò Tartaglia, il quale benchè figliuolo di un vetturale, benchè deriso e creduto ebete nei primi anni, meritò poi d’essere ascritto nel numero degli illustri Italiani. E moltissimi sono gli esempi che io vi potrei citare di fanciulli nati nell’oscurità e nella miseria, e che nelle sventure e nell’abbandono hanno pur saputo da sè medesimi diventare uomini illustri ed utili all’universale. Verrà un tempo che ne conoscerete la storia, ed imparerete ad amare e a rispettare sempre più quella celebre patria che aveste a comune con loro.