Saggio di racconti/VII
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RACCONTO VII.
Dite, o fanciulli, vi è cara la voce dei genitori quando vi consigliano, quando v’accarezzano, quando vi dicono d’amarvi? E quella dei fratelli o degli amici che vi chiamano a lieta ricreazione, vi è cara? E ascoltate voi volentieri le parole di chi vi istruisce, di chi vi narra un bel fatto, di chi vi spiega una pagina della storia patria? E credo che ognuno di voi goderà di udire una bella musica od un bel canto... Ora, se per disgrazia foste nati senza l’organo dell’udito, immaginate voi di quanti piaceri sareste privi! È vero che non avendoli mai conosciuti, non sentireste il dolore della privazione, in quella stessa guisa che il cieco, il quale per non aver mai visto la luce non sa cosa sia, non ci pensa. Ma nonostante la disgrazia di esser cieco o sordo e ella minore? E il peggio si è che uno nato sordo, appunto perchè non ode la voce altrui, non può articolare la propria, non può conoscere nemmeno la lingua del paese dov’egli è nato! Che misera condizione! Egli poi vede muovere in tanti modi la bocca di chi parla, da immaginarsi che noi abbiamo un mezzo facile per comunicarci i nostri pensieri. Ma e’ non può imitarlo questo mezzo, ed è ridotto a valersi dei segni. L’uomo ha dovuto studiar molto prima di perfezionare l’istruzione di questi infelici, ed essi arrivano ad imparare con fatica, ma imparano; e con l’ingegno vanno molto innanzi. In vari luoghi sono state aperte scuole anche per loro; e chi se ne occupa fa uno dei maggiori benefizi alla società. I sordi-muti poveri si guadagnano il pane con un mestiero, e tutti possono riescire abilissimi nelle manifatture e nelle arti.
In uno spedale era un fanciullo sordo-muto che faceva il sarto, e che aveva imparato a leggere e scrivere; era di buona indole, amoroso, rassegnato con coraggio alla sua disgrazia, e lavorava benissimo e volentieri. Sicchè il direttore, gl’infermieri ed i suoi compagni, tutti gli volevano bene. Sventuratamente s’ammalò d’occhi, e il male fu così grave, che in poco tempo perdè la vista. Si poteva egli immaginare una disgrazia più grande? Oltre a non poter udire, a non poter parlare, eccolo ridotto anche a non vedere più nulla. Se non gli fosse rimasto il tatto, il gusto e l’odorato, si poteva rassomigliare a una statua. Sempre silenzio, sempre tenebre intorno a lui!... Oh! nei primi giorni che si trovò ridotto in sì misera condizione, pianse amaramente, e ne piangevano anche gli altri. Almeno avesse potuto avvedersi di quella tenera compassione! sarebbe stato per lui un conforto. Alla fine si dette pace; e seppe sostenere con intrepidezza la nuova disgrazia. Ma lo stare senza far nulla era un altro tormento; e la noia lo avrebbe condotto a morire d’inedia. Allora si provò a cucire anche al buio, e in poco tempo vi riescì. Faceva maraviglia come egli potesse riconoscere al tasto i pezzi di panno tagliati dal maestro, metterli insieme e cucirli con esattezza. Così passava le sue giornate solitario in mezzo alla gente, ridotto ad aspettare d’esser toccato per accorgersi che qualcheduno fosse con lui. E quando si sentiva toccare da una persona, le pigliava tosto la mano, gliela stringeva forte forte, e la baciava, mostrando nel viso e negli atti la gioia d’avere accanto un suo simile. Ma gli rimaneva da superare una gran difficoltà, quella di conoscere al tasto i segni che gli venivano fatti con le mani. Poteva leggere toccando con le dita certe parole scolpite in rilievo; ma come avere e subito tutte quelle che erano necessarie per rispondere alle domande? Si racconta di un cieco provvisto di tatto così delicato, da intendere un foglio scritto con inchiostro denso; ma quanto tempo ci voleva innanzi di giungere a una squisitezza di sentire come quella! Un giorno gli venne sotto le mani la lavagna sulla quale era solito scrivere quando vedeva, e compiacendosene come della memoria di un bene perduto, volle serbarla sotto il capezzale colla speranza di ricavarne ancora qualche costrutto. Dopo molto tempo gli riescì di trovare sul letto una pietra da sarti, e, come se fosse stato ispirato da Dio, prese subito la lavagna e vi scrisse alcune parole. Poi la tenne in mano di faccia a chi passava, come per invitare a leggere quanto vi aveva scritto. Ma per alcun tempo nessuno vi badò, e dubitando egli d’avere scritto male, cancellò più volte le parole, e più volte le riscrisse. Con impazienza aspettava d’essere inteso; ma cominciava già a perderne la speranza, allorchè il direttore dello spedale finalmente vi fece attenzione, e gli riuscì di leggere: «Scrivetemi sulla mano.» Dopo averci pensato un poco, gli parve d’aver capito la sua idea; gli si accostò, gli prese la mano, e il giovine tra l’incertezza e il contento tremava tutto. Allora il direttore gli tracciò col suo dito sopra la palma un s ed un i per provare se aveva inteso quello che egli chiedeva. Fu tanta la gioia del giovine a questa scoperta, che piangendo abbracciò il direttore; e poi cominciarono tra loro un colloquio. Il sordo-muto-cieco faceva i soliti segni colle dita, e il direttore gli rispondeva nel modo suggerito dalla necessità. Oh, pur troppo la necessità insegna agli uomini molte cose! Da quel giorno in poi il poveretto riacquistò la sua ilarità, sicchè pareva che avesse ricuperato la vista. Infetti la sua infelicità era minore, perchè in qualche modo poteva rimettersi in corrispondenza cogli uomini. Quindi non solo il direttore, ma ognuno imparò così a conversare con lui, ed egli potè riconoscere i suoi compagni e far nuove relazioni con altri. Di tutti desiderava sapere il nome, e saputolo, nol dimenticava. Così arrivò al punto d’imparare alcuni versi che gli venivano tracciati sulla palma della mano, e d’acquistare nuove cognizioni e nuove idee.
Grandi sono le sciagure che minacciano l’uomo su questa terra; ma se egli ha la forza d’animo di non iscoraggirsi giammai, può sfidarle e diminuirne l’acerbità. Iddio ci ha dato l’ingegno e il valore per superare ogni ostacolo; anche i fanciulli debbono avere la forza d’animo conveniente alla loro età ed alle loro peripezie: Si ricordino che sono destinati ad essere uomini.