Saggio critico sul Petrarca/XI. Dissoluzione di Laura
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XI
DISSOLUZIONE DI LAURA
Ora assistiamo alla decadenza del Petrarca. La sua storia amorosa gli si presenta come la storia d’un altro, che egli considera con l’occhio tranquillo dello spettatore. Tutto ciò che finora ha guardato come cosa sua, guarda come la storia naturale del genere umano. Certo, c’è qui un progresso, che non si è compreso mai cosí bene, come ai nostri tempi. Questa maniera di poesia ha nel Leopardi la sua piú energica espressione. Sentire nel proprio dolore il dolore di tutti, guardare nel proprio destino il destino delle umane generazioni, è la poesia all’ultima potenza, che, senza perdere d’intensitá, guadagna d’estensione. Ma il poeta vi giunge stanco e vuoto. Per alzarsi da una poesia meramente subbiettiva a questa obbiettivitá si richiede in lui una trasformazione interiore, un’anima forte ancora abbastanza per rinnovarsi e vivere un’altra vita, nella quale si sentisse ancor calda l’antica. Ma è un domandar troppo all’individuo; il poeta è sul declinare. Le antiche passioni sono ottuse e logore; e di nuove non ce n’è. Quel generalizzare è il processo della morte; Laura vacilla e muore, vale a dire si confonde con la generalitá; i sentimenti raffreddandosi si sciolgono in idee; non ci è formazione, ma dissoluzione.
In tutta la sua vita ebbe il Petrarca un certo desiderio di allontanarsi da Laura e pensare a Dio; di che rimangono vestigi in parecchi sonetti. Ma quel desiderio non serve che a rendere, per il contrasto, piú visibile la passione: si può chiamare quasi il condimento dell’amore. Morta Laura, quel desiderio comincia a farsi via piú risolutamente, ajutato da Laura stessa in vita con le sue arti leggiadre (son. XXI, XXII), in morte nelle sue apparizioni co’ suoi consigli (son. XVII, XVIII, LXIX):
Fedel mio caro, assai di te mi dole; Ma pur per nostro ben dura ti fui: Dice, e cos’altre d’arrestar il Sole. |
I di miei piú leggier che nessun cervo, Fuggir com’ombra; e non vider piú bene Ch’un batter d’occhio e poche ore serene, Ch’amare e dolci nella mente servo. Misero mondo, instabile e protervo! Del tutto è cieco chi ’n te pon sua spene: Che ’n te mi fu ’1 cor tolto; ed or sei tene Tal ch’è giá terra e non giunge osso a nervo. |
Non a caso è virtute, anzi è bell’arte. |
Che stilo oltra l’ingegno non si stende; E per aver uom gli occhi nel Sol fissi, Tanto si vede men, quando piú splende. |
ogni mio studio in quel temp’era Pur di sfogare il doloroso core In qualche modo, non d’acquistar fama. Pianger cercai, non giá del pianto onore. Or vorrei ben piacer; ma quella altera. Tacito, stanco, dopo sé mi chiama. |
Di rime armato, ond’oggi ini disarmo, Con stil canuto avrei fatto, parlando, Romper le pietre e pianger di dolcezza. |
Tennemi Amor anni ventuno ardendo Lieto nel foco, e nel duol pien di speme; Poi che Madonna e ’1 mio cor seco insieme Salirò al ciel, dieci altri anni piangendo. |
Omai son stanco, e mia vita riprendo Di tanto error, che di virtute il seme Ha quasi spento; e le mie parti estreme, Alto Dio, a te devotamente rendo. Pentito e tristo de’ miei si spesi anni; Che spender si doveano in miglior uso, In cercar pace ed in fuggir affanni. Signor, che in questo career m’hai rinchiuso, Trammene salvo dagli eterni danni; Ch’io conosco ’l mio fallo, e non lo scuso. |
I’ vo piangendo i miei passati tempi I quai posi in amar cosa mortale... |
Il poeta ne ha un po’ studiato l’acconciatura e l’abbigliamento. Epiteti a due a due, partizioni simmetriche, antitesi ben collocate, armonia grave e sostenuta gli danno un aspetto di maestá rispondente al nobil soggetto. È una poesia uscita dalla testa e dalle regole, mirabile di artificio tecnico. L’architettura è d’una semplicitá decorosa; ma il tempio è vóto e freddo1. Dov’è Laura? Il vero paradiso del poeta è abitato da Laura, e senza di lei non ride alla immaginazione. Invano ei ci mette la Vergine; invano la gratifica de’ piú gentili e cari epiteti che la pietá de’ devoti abbia saputo inventare. Quella sua litania, che ha nome canzone, abbondante di contrapposti e di pensieri ingegnosi, ma povera d’immagini e d’affetto, vorrebbe essere un inno, e casca nell’elegia; vorrebbe spaziare ne’ cieli, e rimane nella terra. E questo, che alcuni reputano biasimo, questo è il suo pregio. In quell’ultima parte dell’etá il poeta non ha le ale, quantunque sei creda, non ha le ale per levarsi al cielo; e dopo vana ostentazione di forza cede al fato, voglio dire alla sua natura, e s’intenerisce, e solo nel suo intenerirsi racquista un po’ l’antica vena. Parlando alla Vergine, s’incontra in Laura; e questa, «poca mortai terra caduca», è pur quella che qui l’ispira e sveglia nel suo cuore gli usati palpiti: altera immagine che, accusata e repulsa, gli sta pure innanzi e gli comanda. Supplicando con trepidazione alla Vergine, come per cacciar col suo nome un altro nome, gitta uno sguardo malinconico sul suo passato; e come tutto è sparito! come il tempo è corso rapido!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, Cercando or questa ed or quell’altra parte, Non è stata mia vita altro ch’affanno. Mortai bellezza, atti e parole m’hanno Tutta ingombrata l’alma. Vergine sacra ed alma. Non tardar, ch’i’ son forse all’ultim’anno. I df miei, piú correnti che saetta, Fra miserie e peccati Sonsen andati; e sol Morte n’aspetta. |
Qui il Canzoniere si chiude. Ben promette il poeta di farne un altro alla Vergine, ma è troppo tardi. Non può farsi una vita nova, e l’antica è stanca. Pur non se ne avvede; e perché sa far versi, e per lungo uso conosce tutti i segreti dell’arte, concepisce un lavoro di maggior mole, non so che simile alla Divina Commedia. Parlo de’ suoi Trionfi. Ben so che il poeta mori con la lima in mano, scontento del suo lavoro, e che i critici a questo difetto di correzione recano il poco successo. La veritá è che mai il poeta non ha fatti di si bei versi, di cui molti sono rimasi proverbiali, giunto all’ultimo della chiarezza e dell’eleganza. E con che accuratezza l’abbia lavorato, lo mostrano le tante correzioni e cangiamenti che si trovano ne’ codici. Ben qua e lá desideri le ultime cure, come in Virgilio; ma laddove l’Eneide è rimasa immortale, i Trionfi sono quasi dimenticati. Gli è che il difetto non è nella parte tecnica, ma nell’anima dell’autore; non si tratta d’una malattia della cute, ma di una malattia organica insanabile.
Viene un momento che non siamo pili capaci di passione e di azione, non piú capaci di coglier gli arili nello stato d’azione o di passione; siamo non piú attori, ma spettatori di noi e degli altri; guardiamo cose ed uomini con occhio critico. Tale è lo stato del Petrarca. Il passato se gli schiera innanzi nudo di quelle passioni ed illusioni che gli davano calore; egli lo contempla con calma senile, non senza ridere un po’ di tante fanciullaggini, egli l’uomo savio; se ne stacca, lo divide in diverse etá, lo generalizza. Quel passato non è piú il suo passato; perde ciò che avea di concreto e di personale, e diviene la storia della vita umana; il sentimento si scioglie in idea, l’individuo in genere. Il tempo del suo amore per Laura è l’etá della giovinezza o delia passione, a cui succede la calma della ragione, insino a che morte chiude quaggiú la nostra storia. Ma la Fama la continua presso la posteritá, in sino a che vien consumata dal Tempo, destinato esso pure a sparire nell’eterno presente dell’altra vita. Ecco i sei stati della vita umana. Ma come si fa a rappresentarli? Il poeta non può rappresentare direttamente il generale, ed in ciò è distinto dal filosofo. Il suo uffizio è di cogliere la vita nella sua integritá; non analizzarla, non classificarla, non generalizzarla; di coglierla come si offre al senso, all’immaginazione, al sentimento. Ben può rappresentarla, come la ragione e la riflessione filosofica l’hanno interpretata, ma a patto, che, posta quella interpretazione, ne esprima le impressioni sull’immaginazione e sul sentimento, a quel modo che ha fatto Leopardi, e che non fanno i suoi imitatori. La materia del poeta è perciò l’individuo, questo o quello, tale e tale cosa, ma di modo che il lettore nel particolare sorprenda il generale. Cosi Dante ha rappresentato gli stati della vita umana nei tre regni dell’altro mondo, in una concreta individualitá; e ci ha dato perciò più che un’allegoria; ci ha dato una vera rappresentazione individua, che sta da sé, e da sé produce tutti gli effetti poetici. Il Petrarca ha rappresentato gli stati della vita in sé stesso, nelle sue proprie illusioni e passioni; e quando ha voluto uscirne, quando ha concepito la vita nella sua generalitá, costretto pure ad individuare, non gli e rimaso altro che allegorizzare. Ha immaginato dunque sei figure allegoriche, corrispondenti a’ sei stati della vita, l’Amore, la Castitá, la Morte, la Fama, il Tempo, la Divinitá. Abbandonato dal sentimento, in balla della riflessione, ha fatto di ciascuna figura la trionfatrice della precedente, si che la Castitá trionfa dell’Amore, la Morte di tutt’e due, la Fama della Morte, il Tempo della Fama, e la Divinitá del Tempo: un gran concetto seicentistico, e piuttosto una gran freddura, che ha chiamato i Trionfi. Né crediate giá che quelle figure sieno vere persone, né che quelle vittorie sieno vere battaglie. Figure e trionfi, sono semplici nomi; e dove pur talora ci è qualcosa di piú determinato, gli è allegoria o sentenza. Che interesse, in fé vostra, potete prendere per mere astrazioni, a cui il poeta indarno s’è studiato di dare un’apparenza d’individualitá? Amore, che, eminente su d’un carro, come i vittoriosi capitani di Roma, trionfa d’innumerabili mortali suoi cattivi, fa ridere; piú ancora, quando esalta Laura con un fracasso, con un rimbombo paragonato al terribil suono dell’Etna o di Scilla e di Cariddi, o quando Lucrezia e Penelope gli saltan su e lo spennacchiano. Questo fondo astratto e generale, espresso in sentenze e allegorie, è il primo difetto organico della concezione.
Direste che questo è la cornice, e non il quadro, e che il principale interesse è non ne’ trionfatori, ma negli uomini di cui si trionfa. Cosi presse Dante i tre regni sono la vasta cornice, in cui si agita l’umanitá, obbietto della poesia. Ma qui comparisce un secondo difetto organico, voglio dire inerente alla concezione. Gli uomini sono colti fuori dell’azione e della passione, nel punto che sono soggiaciuti, vale a dire quando ogni storia ed ogni interesse è finito. Gli è come se uno rappresentasse un esercito non nell’atto della battaglia, ma dopo, in rassegna. Pur li c’è la memoria ancor calda della giornata ed il celebre: io fui. Qui c’è lunga processione d’uomini, non operanti, di rado parlanti, materia non drammatica, ma puramente descrittiva, come pezzi di storia naturale: «io vidi il tale e la tale, e poi la tale e il tale». In queste liste di uomini, o piuttosto di nomi, appena è se talora sorge qualcuno con un segno di distinzione che ti arresta, come una scritta funebre in un cimitero. Di queste scritte molte sono insulse, ma ce ne ha delle felicissime, soprattutto per gli uomini di lettere e di scienze. Dice d’Omero:
Primo pittor delle memorie antiche. |
Ed uno al cui passar l’erba fioriva. |
Non ben contento de’ secondi onori. |
E so i costumi e i lor sospiri e canti E ’l parlar rotto e ’l subito silenzio E ’l brevissimo riso e i lunghi pianti, E qual è ’l mel temprato con l’assenzio. |
Onestate e Vergogna alla front’era; Nobile par delle virtú divine, Che fan costei sopra le donne altera; Senno e Modestia all’altre due confine; Abito con Diletto in mezzo ’l core; Perseveranza e Gloria in su la fine; Bell’Accoglienza, Accorgimento fore; Cortesia intorno intorno a Puritate; Timor d’infamia e sol Desio d’onore; Pensier canuti in giovenil etate, E (la concordia ch’è si rara al mondo) V’era con Castitá somma beltate. Tal venia contr’Amor... |
O ciechi, il tanto affaticar che giova? Tutti tornate alla gran madre antica, E ’l nome vostro appena si ritrova. |
Passan vostri trionfi e vostre pompe, Passali le signorie, passano i regni; Ogni cosa mortai Tempo interrompe. |
I’ vidi ’l ghiaccio, e li presso la rosa; Quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo... Stamane era un fanciullo ed or son vecchio. |
Non avrá loco fu, sará, né era; Ma è solo, in presente, e ora, e oggi, E sola eternitá raccolta e ’ntera. |
Queste lunghe processioni di nomi, di fenomeni, di sentenze non sono esse medesime che ima seconda cornice, un immenso accompagamento di due personaggi, Petrarca e Laura. Qui riconosciamo il nostro poeta. La parte giovanile della sua istoria è avvolta in allegorie. L’anima disavvezza non può rifare quei tempi, non li ricorda neppure come un sogno confuso. Ma quando Laura muore, sorgono sentimenti piú conformi al suo stato, ed una dolce e malinconica emozione vi certifica un avanzo di vita poetica. Le ultime terzine sulla morte di Laura, e la sua apparizione ed il lungo colloquio con l’amante, hanno ispirato il Tasso, il Manzoni, il Leopardi. Se qui c’è cosa che riveli stanchezza e vecchiezza, è la prolissitá, tanto piú notabile, quanto piú contraria alla natura dello stile petrarchesco, d’una elegante concisione. Ben c’è l’usata concisione nell’espressione di ciascuna idea; ma le idee inutili o ripetute abbondano. Quanti particolari senza succo anzi che Laura muoja! da far quasi dire al lettore: — Falla morire piú presto! — . Nel colloquio, un sol pensiero:
Teco era ’l cor; a me gli occhi raccolsi, |
Quand’io considero bene i Trionfi, parmi che il principio sia lavorato con gran diligenza, e che la fine talora abbia aria di abbozzo; pure, la fine piace piú, ci si sente l’impressione immediata d’una storia personale. L’autore ha voluto darle proporzioni epiche, troppo piú che la non porta; e certe esagerazioni, naturali nella lirica, che giudica secondo impressioni personali, non possono non far ridere un po’ in un quadro epico, come:
La notte che segui l’orribil caso Che spense ’l Sol, anzi ’l ripose in cielo. |
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I’ vo piangendo i miei passati tempi
I quai posi in amar cosa mortale.
Senza levarmi a volo, avend’io l’ale
Ter dar forse di me non bassi esempi.
Tu, che vedi i miei mali indegni ed empi.
Re del cielo, invisibile, immortale,
Soccorri all’alma disviata e frale,
E ’1 suo difetto di tua grazia adempí:
Si che, s’io vissi in guerra ed in tempesta.
Mora in pace ed in porto; e se la stanza
Fu vana, almen sia la partita onesta.
A quel poco di ri ver che m’avanza
Ed al morir degni esser tua man presta.
Tu sai ben che ’n altrui non ho speranza. - ↑
La notte che segui l’orribil caso
Che spense ’l Sol, anzi ’l ripose in cielo,
Ond’io son qui com’uom cieco rirnaso,
Spargea per l’aere il dolce estivo gelo.
Che con la bianca amica di Titone
Suol de’ sogni confusi torre il velo;
Quando donna sembiante alla stagione,
Di gemme orientali incoronata,
Mosse ver me da mille altre corone;
E quella man giá tanto desiata
A me, parlando e sospirando, porse;
Ond’eterna dolcezza al cor m’è nata.Riconosci colei che prima torse
I passi tuoi dal pubblico viaggio,
Come ’l cor giovenil di lei s’accorse?
Cosi, pensosa, in atto umile e saggio
S’assise e seder femmi in una riva
La qual ombrava un bel lauro ed un faggio.
Come non conosch’io l’alma mia Diva?
Risposi in guisa d’uom che parla e plora:
Dimmi pur, prego, se sei morta o viva.
Viva son io, e tu sei morto ancora,
L’iss’ella, e sarai sempre, fin che giunga
Per levarti di terra l’ultim’ora.
Ma ’l tempo è breve, e nostra voglia è lunga:
Però t’avvisa, e ’1 tuo dir stringi e frena,
Anzi che ’1 giorno, giá vicin, n’aggiunga.
Ed io: al fin di quest’altra serena
C’ha nome vita, che per prova ’l sai.
Deh dimmi se ’l morir è si gran pena.
Rispose: mentre al vulgo dietro vai,
Ed alt opinion sua cieca e dura,
Esser felice non può’ tu giammai.
Ma morte è fin d’una prigione oscura
Agli animi gentili; agli altri è noia,
C’hanno posto nel fango ogni lor cura.
Ed ora il morir mio che si t’annoia.
Ti farebbe allegrar, se tu sentissi
La millesima parte di mia gioia.
Cosi parlava; e gli occhi ave’ al ciel fissi
Divotamente: poi mise in silenzio
Quelle labbra rosate, insin ch’io dissi:
Silla, Mario, Neron, Gaio e Mesenzio,
Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno
Parer la morte amara piú ch’assenzio.
Negar, disse, non posso che l’affanno
Che va innanzi al morir, non doglia forte.
Ma piú la tema dell’eterno danno:
Ma pur che l’alma in Dio si riconforte,
E ’l cor, che ’n sé medesmo forse è lasso,
Che altro ch’un sospir breve è la morte?
I’ aveva giá vicin l’ultimo passo.
La carne inferma, e l’anima ancor pronta;
Quand’ndi’ dir in un suon tristo e basso:
O misero colui ch’e’ giorni conta,
E pargli l’un mill’anni, e ’ndamo vive,
E seco in terra mai non si raffronta;E cerca ’l mar e tutte le sue rive,
E sempre un stile ovunqu’ e’ fosse tenne;
Sol di lei pensa, o di lei parla, o scrive!
Allora in quella parte onde ’l suon venne,
Gli occhi languidi volgo; e veggio quella
Ch’ambo noi, me sospinse e te ritenne.
Riconobbila al volto e alla favella;
Che spesso ha giá il mio cor racconsolato.
Or grave e saggia, allor onesta e bella.
E quand’io fui nel mio piú bello stato.
Nell’etá mia piú verde, a te piú cara,
Ch’a dir ed a pensar a molti ha dato;
Mi fu la vita poco men che amara,
A rispetto di quella mansueta
E dolce morte ch’a’ mortali è rara:
Che ’n tutto quel mio passo er’io piú lieta
Che qual d’esilio al dolce albergo riede;
Se non che mi stringea sol di te pietá.
Deh, Madonna, diss’io, per quella fede
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
Or piú nel volto di chi tutto vede,
Creovvi Amor pensier mai nella testa
D’aver pietá del mio lungo martire,
Non lasciando vostr’alta impresa onesta?
Ch’e’ vostri dolci sdegni e le dolc’ire,
Le dolci paci ne’ begli occhi scritte,
Tenner molt’anni in dubbio il mio desire.
Appena ebb’io queste parole ditte,
Ch’i’ vidi lampeggiar quel dolce riso
Ch’un Sol fu giá di mie virtuti afflitte.
Poi disse sospirando: mai diviso
Da te non fu ’1 mio cor, né giammai fia;
Ma temprai la tua fiamma col mio viso.
Perché, a salvar te e me, null’altra via
Era alla nostra giovinetta fama:
Né per ferza è però madre men pia.
Quante volte diss’io meco: questi ama,
Anzi arde: or si convien ch’a ciò provveggia;
E mal può provveder chi teme o brama.
Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia.
Questo fu quel che ti rivolse e strinse
Spesso, come cavai fren che vaneggia.
Piú di mille fiate ira dipinse
Il volto mio, ch’Amor ardeva il core;
Ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.Poi se vinto te vidi dal dolore.
Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente.
Salvando la tua vita e ’l nostro onore.
E se fu passion troppo possente,
E la fronte e la voce a salutarti
Mossi or timorosa ed or dolente.
Questi fur teco mie’ ingegni e mie arti;
Or benigne accoglienze ed ora sdegni:
Tu ’l sai, che n’hai cantato in molte parti.
Ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor si pregni
Di lagrime, ch’io dissi: questi è corso
A morte, non l’aitando; i’ veggio i segni.
Allor provvidi d’onesto soccorso.
Talor ti vidi tali sproni al fianco,
Ch’i’ dissi; qui convien piú duro morso.
Cosi caldo, vermiglio, freddo e bianco.
Or tristo or lieto infin qui t’ho condutto
Salvo (ond’io mi rallegro), benché stanco.
Ed io: Madonna, assai fora gran frutto
Questo d’ogni mia fé, pur ch’io ’1 credessi;
Dissi tremando e non col viso asciutto.
Di poca fede! or io, se noi sapessi.
Se non fosse ben ver, perché ’l direi?
Rispose, e ’n vista parve s’accendessi.
S’al mondo tu piacesti agli occhi miei.
Questo mi taccio; pur quel dolce nodo
Mi piacque assai ch’intorno al cor avei;
E piacemi ’l bel nome (se ’l ver odo)
Che lunge e presso col tuo dir m’acquisti:
Né mai ’n tuo amor richiesi altro che modo.
Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
Volei mostrarmi quel ch’io vedea sempre.
I’ tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.
Quinci ’1 mio gelo, ond’ancor ti distempre:
Che concordia era tal dell’altre cose,
Qual giunge Amor, pur ch’onestate il tempre.
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose;
Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.
Tu eri di mercé chiamar giá roco,
Quand’io tacea, perché vergogna e tema
Facean molto desir parer si poco.
Non è minor il duol perch’altri ’l prema.
Né maggior per andarsi lamentando;
Per finzion non cresce il ver né scema.Ma non si ruppe almen ogni vel quando
Sola i tuoi detti, te presente, accolsi,
«Dir piú non osa il nostro amor» cantando?
Teco era ’l cor; a me gli occhi raccolsi:
Di ciò, come d’iniqua parte, duolti.
Se ’l meglio e ’l piú ti diedi, e ’l men ti tolsi.
Né pensi che, perché ti fosser tolti
Ben mille volte, e piú di mille e mille
Renduti e con pietate a te tur volti.
E state toran lor luci tranquille
Sempre ver te, se non ch’ebbi temenza
Delle pericolose tue faville.
Piú ti vo’ dir, per non lasciarti senza
Una conclusion ch’a te fia grata
Forse d’udir in su questa partenza:
In tutte l’altre cose assai beata,
In una sola a me stessa dispiacqui.
Che ’n troppo umil terreo mi trovai nata.
Duoimi ancor veramente ch’io non nacqui,
Almen piú presso al tuo fiorito nido:
Ma assai fu bel paese cnd’io ti piacqui.
Che potea ’l cor, del qual sol io mi fido.
Volgersi altrove, a te essendo ignota;
Ond’io fora men chiara e di men grido.
Questo no, rispos’io, perché la rota
Terza del ciel m’alzava a tanto amore.
Ovunque fosse, stabile ed immota.
Or che si sia, diss’ella, i’ n’ebbi onore,
Ch’ancor mi segue: ma per tuo diletto
Tu non t’accorgi del fuggir dell’ore.
Vedi l’Aurora dell’aurato letto
Rimenar a’ mortali il giorno; e il Sole
Giá fuor dell’Oceano infino al petto.
Questa vien per partirci; onde mi dole:
S’a dir hai altro, studia d’esser breve,
E col tempo dispensa le parole.
Quant’io soffersi mai, soave e leve,
Dissi, m’ha fatto il parlar dolce e pio;
Ma ’l viver senza voi m’è duro e greve.
Però saper vorrei. Madonna, s’io
Son per tardi seguirvi, o se per tempo.
Ella, giá mossa, disse: al creder mio,
Tu stara’ in terra senza me gran tempo.