Saggio critico sul Petrarca/XI. Dissoluzione di Laura

XI. Dissoluzione di Laura

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XI

DISSOLUZIONE DI LAURA


Ora assistiamo alla decadenza del Petrarca. La sua storia amorosa gli si presenta come la storia d’un altro, che egli considera con l’occhio tranquillo dello spettatore. Tutto ciò che finora ha guardato come cosa sua, guarda come la storia naturale del genere umano. Certo, c’è qui un progresso, che non si è compreso mai cosí bene, come ai nostri tempi. Questa maniera di poesia ha nel Leopardi la sua piú energica espressione. Sentire nel proprio dolore il dolore di tutti, guardare nel proprio destino il destino delle umane generazioni, è la poesia all’ultima potenza, che, senza perdere d’intensitá, guadagna d’estensione. Ma il poeta vi giunge stanco e vuoto. Per alzarsi da una poesia meramente subbiettiva a questa obbiettivitá si richiede in lui una trasformazione interiore, un’anima forte ancora abbastanza per rinnovarsi e vivere un’altra vita, nella quale si sentisse ancor calda l’antica. Ma è un domandar troppo all’individuo; il poeta è sul declinare. Le antiche passioni sono ottuse e logore; e di nuove non ce n’è. Quel generalizzare è il processo della morte; Laura vacilla e muore, vale a dire si confonde con la generalitá; i sentimenti raffreddandosi si sciolgono in idee; non ci è formazione, ma dissoluzione.

In tutta la sua vita ebbe il Petrarca un certo desiderio di allontanarsi da Laura e pensare a Dio; di che rimangono vestigi in parecchi sonetti. Ma quel desiderio non serve che a rendere, per il contrasto, piú visibile la passione: si può [p. 211 modifica]chiamare quasi il condimento dell’amore. Morta Laura, quel desiderio comincia a farsi via piú risolutamente, ajutato da Laura stessa in vita con le sue arti leggiadre (son. XXI, XXII), in morte nelle sue apparizioni co’ suoi consigli (son. XVII, XVIII, LXIX):

                                         Fedel mio caro, assai di te mi dole;
Ma pur per nostro ben dura ti fui:
Dice, e cos’altre d’arrestar il Sole.
     
Nutrito da Laura, quel desiderio va a volgersi contro Laura e contro l’amore: il passato apparisce vanitá e peccato. In questa specie di ribellione contro l’antico uomo, il poeta mostra una certa caldezza (son. LI):
                                         I di miei piú leggier che nessun cervo,
Fuggir com’ombra; e non vider piú bene
Ch’un batter d’occhio e poche ore serene,
Ch’amare e dolci nella mente servo.
     Misero mondo, instabile e protervo!
Del tutto è cieco chi ’n te pon sua spene:
Che ’n te mi fu ’1 cor tolto; ed or sei tene
Tal ch’è giá terra e non giunge osso a nervo.
     
La fuga degli anni considerata in sé è un sublime negativo; ma in rispetto all’individuo lo sparir delle cose andate, con la memoria di esse ancor viva, è un’immagine piena di malinconia. Quest’attenenza col proprio essere, qpesta squisita sensibilitá, che ci rende si vivace il mondo esterno e ce lo fa riempiere di noi stessi, è notabilmente diminuita nel nostro poeta. E può ora nominar Laura senza che il cuore piú batta: può riandare i suoi sentimenti senza prendervi parte; può fare anche delle osservazioni sul proprio stato, come un medico sul suo infermo. Una volta nota che, se è libero dal giogo d’amore, non è proprio merito, ma caso, la morte di Laura; e che perciò non si può chiamar virtú (son. LXIV):
                                    Non a caso è virtute, anzi è bell’arte.      
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Un’altra volta trova che le lodi fatte a Laura sono infinitamente al di sotto di lei, e, come dice, «breve stilla d’infiniti abissi» (son. LXVII):
                                         Che stilo oltra l’ingegno non si stende;
E per aver uom gli occhi nel Sol fissi,
Tanto si vede men, quando piú splende.
     
In quest’ultimo stadio s’era dato a raccogliere e limare i suoi lavori, sopratutto le rime, con l’occhio alla posteritá. Con quello scontento di sé, ch’è proprio di ogni gran poeta, trova che avrebbe potuto, che potrebbe far meglio (son. XXV):
                                                             ogni mio studio in quel temp’era
Pur di sfogare il doloroso core
In qualche modo, non d’acquistar fama.
     Pianger cercai, non giá del pianto onore.
Or vorrei ben piacer; ma quella altera.
Tacito, stanco, dopo sé mi chiama.
     
Sono gli ultimi moti di un cuore stanco. Dice ancora: — Se Laura non fosse morta, e se l’amore fosse ito continuando infino a vecchiezza (son. XXXVI),
                                         Di rime armato, ond’oggi ini disarmo,
Con stil canuto avrei fatto, parlando,
Romper le pietre e pianger di dolcezza.
     
Ed ha ragione. Il suo «stile canuto» è senza fiori, pieno di succo, e nella sua concisione chiaro e naturale, soprattutto affettuosissimo. Ma ora se il poeta nella parte tecnica è pur sempre maestro di stile, la musa ispiratrice inaridisce. E se si volge a Dio, non è giá nuova passione, ma stanchezza d’ogni passione. Nessuno potrebbe dipingerlo meglio di lui stesso (son. LXXXIV):
                                         Tennemi Amor anni ventuno ardendo
Lieto nel foco, e nel duol pien di speme;
Poi che Madonna e ’1 mio cor seco insieme
Salirò al ciel, dieci altri anni piangendo.
     
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                                         Omai son stanco, e mia vita riprendo
Di tanto error, che di virtute il seme
Ha quasi spento; e le mie parti estreme,
Alto Dio, a te devotamente rendo.
     Pentito e tristo de’ miei si spesi anni;
Che spender si doveano in miglior uso,
In cercar pace ed in fuggir affanni.
     Signor, che in questo career m’hai rinchiuso,
Trammene salvo dagli eterni danni;
Ch’io conosco ’l mio fallo, e non lo scuso.
     
«Omai son stanco!», e sentite la stanchezza in questo sonetto, naturale ma debole. La qual fiacchezza è alquanto palliata nel seguente;
                                         I’ vo piangendo i miei passati tempi
I quai posi in amar cosa mortale...
     

Il poeta ne ha un po’ studiato l’acconciatura e l’abbigliamento. Epiteti a due a due, partizioni simmetriche, antitesi ben collocate, armonia grave e sostenuta gli danno un aspetto di maestá rispondente al nobil soggetto. È una poesia uscita dalla testa e dalle regole, mirabile di artificio tecnico. L’architettura è d’una semplicitá decorosa; ma il tempio è vóto e freddo1. Dov’è Laura? Il vero paradiso del poeta è abitato da Laura, e senza di lei non ride alla immaginazione. Invano ei [p. 214 modifica]ci mette la Vergine; invano la gratifica de’ piú gentili e cari epiteti che la pietá de’ devoti abbia saputo inventare. Quella sua litania, che ha nome canzone, abbondante di contrapposti e di pensieri ingegnosi, ma povera d’immagini e d’affetto, vorrebbe essere un inno, e casca nell’elegia; vorrebbe spaziare ne’ cieli, e rimane nella terra. E questo, che alcuni reputano biasimo, questo è il suo pregio. In quell’ultima parte dell’etá il poeta non ha le ale, quantunque sei creda, non ha le ale per levarsi al cielo; e dopo vana ostentazione di forza cede al fato, voglio dire alla sua natura, e s’intenerisce, e solo nel suo intenerirsi racquista un po’ l’antica vena. Parlando alla Vergine, s’incontra in Laura; e questa, «poca mortai terra caduca», è pur quella che qui l’ispira e sveglia nel suo cuore gli usati palpiti: altera immagine che, accusata e repulsa, gli sta pure innanzi e gli comanda. Supplicando con trepidazione alla Vergine, come per cacciar col suo nome un altro nome, gitta uno sguardo malinconico sul suo passato; e come tutto è sparito! come il tempo è corso rapido!

                                    Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
Cercando or questa ed or quell’altra parte,
Non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortai bellezza, atti e parole m’hanno
Tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra ed alma.
Non tardar, ch’i’ son forse all’ultim’anno.
I df miei, piú correnti che saetta,
Fra miserie e peccati
Sonsen andati; e sol Morte n’aspetta.
     
Questo è l’ultimo raggio di poesia del Canzoniere. Indarno vuole il poeta uscir del suo passato; solo riprofondandosi in sé stesso sente invigorirsi la vena, trova accenti poetici. Quel passato è cosí doloroso; pur vorrebbe rattenerlo, ed è fuggito come saetta. Tutto questo gli si presenta con facilitá e con evidenza. La fuga degli anni soprattutto è espressa in versi labili, scorrevoli gli uni su gli altri; e sarebbero sublimi, se non fossero improntati d’una malinconia senza lacrima e senza lamento: la stanca malinconia del vecchio, che, nella sollecitudine inquieta di sé, tutto rimena alla sua persona, e non sente un sublime che è a sue spese.
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Qui il Canzoniere si chiude. Ben promette il poeta di farne un altro alla Vergine, ma è troppo tardi. Non può farsi una vita nova, e l’antica è stanca. Pur non se ne avvede; e perché sa far versi, e per lungo uso conosce tutti i segreti dell’arte, concepisce un lavoro di maggior mole, non so che simile alla Divina Commedia. Parlo de’ suoi Trionfi. Ben so che il poeta mori con la lima in mano, scontento del suo lavoro, e che i critici a questo difetto di correzione recano il poco successo. La veritá è che mai il poeta non ha fatti di si bei versi, di cui molti sono rimasi proverbiali, giunto all’ultimo della chiarezza e dell’eleganza. E con che accuratezza l’abbia lavorato, lo mostrano le tante correzioni e cangiamenti che si trovano ne’ codici. Ben qua e lá desideri le ultime cure, come in Virgilio; ma laddove l’Eneide è rimasa immortale, i Trionfi sono quasi dimenticati. Gli è che il difetto non è nella parte tecnica, ma nell’anima dell’autore; non si tratta d’una malattia della cute, ma di una malattia organica insanabile.

Viene un momento che non siamo pili capaci di passione e di azione, non piú capaci di coglier gli arili nello stato d’azione o di passione; siamo non piú attori, ma spettatori di noi e degli altri; guardiamo cose ed uomini con occhio critico. Tale è lo stato del Petrarca. Il passato se gli schiera innanzi nudo di quelle passioni ed illusioni che gli davano calore; egli lo contempla con calma senile, non senza ridere un po’ di tante fanciullaggini, egli l’uomo savio; se ne stacca, lo divide in diverse etá, lo generalizza. Quel passato non è piú il suo passato; perde ciò che avea di concreto e di personale, e diviene la storia della vita umana; il sentimento si scioglie in idea, l’individuo in genere. Il tempo del suo amore per Laura è l’etá della giovinezza o delia passione, a cui succede la calma della ragione, insino a che morte chiude quaggiú la nostra storia. Ma la Fama la continua presso la posteritá, in sino a che vien [p. 216 modifica]consumata dal Tempo, destinato esso pure a sparire nell’eterno presente dell’altra vita. Ecco i sei stati della vita umana. Ma come si fa a rappresentarli? Il poeta non può rappresentare direttamente il generale, ed in ciò è distinto dal filosofo. Il suo uffizio è di cogliere la vita nella sua integritá; non analizzarla, non classificarla, non generalizzarla; di coglierla come si offre al senso, all’immaginazione, al sentimento. Ben può rappresentarla, come la ragione e la riflessione filosofica l’hanno interpretata, ma a patto, che, posta quella interpretazione, ne esprima le impressioni sull’immaginazione e sul sentimento, a quel modo che ha fatto Leopardi, e che non fanno i suoi imitatori. La materia del poeta è perciò l’individuo, questo o quello, tale e tale cosa, ma di modo che il lettore nel particolare sorprenda il generale. Cosi Dante ha rappresentato gli stati della vita umana nei tre regni dell’altro mondo, in una concreta individualitá; e ci ha dato perciò più che un’allegoria; ci ha dato una vera rappresentazione individua, che sta da sé, e da sé produce tutti gli effetti poetici. Il Petrarca ha rappresentato gli stati della vita in sé stesso, nelle sue proprie illusioni e passioni; e quando ha voluto uscirne, quando ha concepito la vita nella sua generalitá, costretto pure ad individuare, non gli e rimaso altro che allegorizzare. Ha immaginato dunque sei figure allegoriche, corrispondenti a’ sei stati della vita, l’Amore, la Castitá, la Morte, la Fama, il Tempo, la Divinitá. Abbandonato dal sentimento, in balla della riflessione, ha fatto di ciascuna figura la trionfatrice della precedente, si che la Castitá trionfa dell’Amore, la Morte di tutt’e due, la Fama della Morte, il Tempo della Fama, e la Divinitá del Tempo: un gran concetto seicentistico, e piuttosto una gran freddura, che ha chiamato i Trionfi. Né crediate giá che quelle figure sieno vere persone, né che quelle vittorie sieno vere battaglie. Figure e trionfi, sono semplici nomi; e dove pur talora ci è qualcosa di piú determinato, gli è allegoria o sentenza. Che interesse, in fé vostra, potete prendere per mere astrazioni, a cui il poeta indarno s’è studiato di dare un’apparenza d’individualitá? Amore, che, eminente su d’un carro, come i vittoriosi capitani di Roma, trionfa [p. 217 modifica]d’innumerabili mortali suoi cattivi, fa ridere; piú ancora, quando esalta Laura con un fracasso, con un rimbombo paragonato al terribil suono dell’Etna o di Scilla e di Cariddi, o quando Lucrezia e Penelope gli saltan su e lo spennacchiano. Questo fondo astratto e generale, espresso in sentenze e allegorie, è il primo difetto organico della concezione.

Direste che questo è la cornice, e non il quadro, e che il principale interesse è non ne’ trionfatori, ma negli uomini di cui si trionfa. Cosi presse Dante i tre regni sono la vasta cornice, in cui si agita l’umanitá, obbietto della poesia. Ma qui comparisce un secondo difetto organico, voglio dire inerente alla concezione. Gli uomini sono colti fuori dell’azione e della passione, nel punto che sono soggiaciuti, vale a dire quando ogni storia ed ogni interesse è finito. Gli è come se uno rappresentasse un esercito non nell’atto della battaglia, ma dopo, in rassegna. Pur li c’è la memoria ancor calda della giornata ed il celebre: io fui. Qui c’è lunga processione d’uomini, non operanti, di rado parlanti, materia non drammatica, ma puramente descrittiva, come pezzi di storia naturale: «io vidi il tale e la tale, e poi la tale e il tale». In queste liste di uomini, o piuttosto di nomi, appena è se talora sorge qualcuno con un segno di distinzione che ti arresta, come una scritta funebre in un cimitero. Di queste scritte molte sono insulse, ma ce ne ha delle felicissime, soprattutto per gli uomini di lettere e di scienze. Dice d’Omero:

                                    Primo pittor delle memorie antiche.      
Chiama Virgilio e Marco Tullio: «gli occhi della lingua nostra». Dice di Marco Tullio:
                                    Ed uno al cui passar l’erba fioriva.      
Finge Demostene:
                                    Non ben contento de’ secondi onori.      
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Con questo processo dissolvente, i sentimenti che compariscono ne’ fatti ne sono staccati ed infilati a mo’ di processione anch’essi, talora in forma allegorica; i fatti sono generalizzati in forma di sentenze; onde nascono liste nojose di uomini, di fenomeni e di sentenze. Amore trionfando avea in grembo pensiero, e vanitá in braccio; innanzi, dubbia speme e breve gioja; dopo le spalle, penitenza e dolore; intorno al carro, errori, sogni ed immagini smorte: su le porte, false opinioni; su per le scale, lubrico sperare, ecc. Alla fine del capitolo terzo trovi una lunga serie di fenomeni amorosi, rappresentati nel Canzoniere in atto, ora sciolti, astratti dalla persona; eccone la fine:
                                         E so i costumi e i lor sospiri e canti
E ’l parlar rotto e ’l subito silenzio
E ’l brevissimo riso e i lunghi pianti,
     E qual è ’l mel temprato con l’assenzio.
     
Ecco l’esercito, con cui Laura combatte e vince Amore:
                                         Onestate e Vergogna alla front’era;
Nobile par delle virtú divine,
Che fan costei sopra le donne altera;
     Senno e Modestia all’altre due confine;
Abito con Diletto in mezzo ’l core;
Perseveranza e Gloria in su la fine;
     Bell’Accoglienza, Accorgimento fore;
Cortesia intorno intorno a Puritate;
Timor d’infamia e sol Desio d’onore;
     Pensier canuti in giovenil etate,
E (la concordia ch’è si rara al mondo)
V’era con Castitá somma beltate.
     Tal venia contr’Amor...
     
E come i sentimenti, cosí i fatti sono considerati in un modo generale, a guisa di principii filosofici o morali. Intere pagine sono filze di sentenze, per lo piú idee comuni annunziate con molta pompa; talora un solo pensiero diluito e rigirato, sino alla noja. Udite questa terzina:
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                                         O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E ’l nome vostro appena si ritrova.
     
Se il poeta non è giunto al sublime proprio di questo concetto, è pur grave e solenne; ma questa impressione è infiacchita, perché la terzina è affogata in tante altre simili di contenuto e di forma, sicché il tutto ha aria di declamazione e di predica. Sublime è ancora il concetto del tempo e dell’eternitá, ed il poeta vuole attingere questo sublime, e non ci riesce, perché analizza e sentenzia troppo; sublime analizzato è sublime annichilato. C’è una terzina, che ha ispirato il Tasso:
                                         Passan vostri trionfi e vostre pompe,
Passali le signorie, passano i regni;
Ogni cosa mortai Tempo interrompe.
     
Di questa rapiditá del tempo ci sono magnifiche immagini:
                                         I’ vidi ’l ghiaccio, e li presso la rosa;
Quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo...
Stamane era un fanciullo ed or son vecchio.
     
Ma il nostro vecchio ha tutta la prolissitá della sua etá, e quando comincia, non la finisce cosí presto: qui t’incontri in una declamazione più lunga dell’altra. Parimente s’è sforzato d’analizzare l’eternitá, e appunto per questo l’ha annichilata:
                                         Non avrá loco fu, sará, né era;
Ma è solo, in presente, e ora, e oggi,
E sola eternitá raccolta e ’ntera.
     
Ti par di sentire un maestro di grammatica che conjuga verbi e infilza avverbii: hai una spiegazione grammaticale, non immagine, non impressione, non emozione; e séguita per una pagina, sempre intorno a questa eterna eternitá.

Queste lunghe processioni di nomi, di fenomeni, di sentenze non sono esse medesime che ima seconda cornice, un immenso [p. 220 modifica]accompagamento di due personaggi, Petrarca e Laura. Qui riconosciamo il nostro poeta. La parte giovanile della sua istoria è avvolta in allegorie. L’anima disavvezza non può rifare quei tempi, non li ricorda neppure come un sogno confuso. Ma quando Laura muore, sorgono sentimenti piú conformi al suo stato, ed una dolce e malinconica emozione vi certifica un avanzo di vita poetica. Le ultime terzine sulla morte di Laura, e la sua apparizione ed il lungo colloquio con l’amante, hanno ispirato il Tasso, il Manzoni, il Leopardi. Se qui c’è cosa che riveli stanchezza e vecchiezza, è la prolissitá, tanto piú notabile, quanto piú contraria alla natura dello stile petrarchesco, d’una elegante concisione. Ben c’è l’usata concisione nell’espressione di ciascuna idea; ma le idee inutili o ripetute abbondano. Quanti particolari senza succo anzi che Laura muoja! da far quasi dire al lettore: — Falla morire piú presto! — . Nel colloquio, un sol pensiero:

                                    Teco era ’l cor; a me gli occhi raccolsi,      
è stemperato in una ventina di frasi, che sottosopra dicono tutte lo stesso. Nondimeno rincontro degli amanti, le poche parole di Laura sulla natura della morte, l’amabile verecondia sparsa come un velo sul suo amore, l’incredulitá dell’amante, ed il dolce rimprovero dell’amata, l’ultimo addio e le ultime parole, e qua e lá teneri movimenti d’affetto e felicissimi versi, fanno di questo sogno, tanto imitato, una delle gemme della nostra poesia2.
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Quand’io considero bene i Trionfi, parmi che il principio sia lavorato con gran diligenza, e che la fine talora abbia aria di abbozzo; pure, la fine piace piú, ci si sente l’impressione [p. 222 modifica]immediata d’una storia personale. L’autore ha voluto darle proporzioni epiche, troppo piú che la non porta; e certe esagerazioni, naturali nella lirica, che giudica secondo impressioni personali, [p. 223 modifica]non possono non far ridere un po’ in un quadro epico, come:

                                         La notte che segui l’orribil caso
Che spense ’l Sol, anzi ’l ripose in cielo.
     
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La morte di Laura è troppo piccola cosa allato alla morte del creato; ma la veritá è che qui il creato ci sta per Laura. Invano il poeta si sforza di dar grandezza a questa storia dell’umanitá; ciò che lo attira e lo commove, è la storia sua. Certo non è detto senza emozione quel perire di tutte le cose, che negli ultimi Trionfi diviene come il motivo lugubre di tutta la musica; ma li pure senti la malinconica impressione del vecchio, che vede fuggire il tempo e si trova giá in cospetto dell’eterno. L’epica è la superficie; il fondo riman lirico e personale.
  1.                                          I’ vo piangendo i miei passati tempi
    I quai posi in amar cosa mortale.
    Senza levarmi a volo, avend’io l’ale
    Ter dar forse di me non bassi esempi.
         Tu, che vedi i miei mali indegni ed empi.
    Re del cielo, invisibile, immortale,
    Soccorri all’alma disviata e frale,
    E ’1 suo difetto di tua grazia adempí:
         Si che, s’io vissi in guerra ed in tempesta.
    Mora in pace ed in porto; e se la stanza
    Fu vana, almen sia la partita onesta.
         A quel poco di ri ver che m’avanza
    Ed al morir degni esser tua man presta.
    Tu sai ben che ’n altrui non ho speranza.
         
  2.                                          La notte che segui l’orribil caso
    Che spense ’l Sol, anzi ’l ripose in cielo,
    Ond’io son qui com’uom cieco rirnaso,
         Spargea per l’aere il dolce estivo gelo.
    Che con la bianca amica di Titone
    Suol de’ sogni confusi torre il velo;
         Quando donna sembiante alla stagione,
    Di gemme orientali incoronata,
    Mosse ver me da mille altre corone;
         E quella man giá tanto desiata
    A me, parlando e sospirando, porse;
    Ond’eterna dolcezza al cor m’è nata.
         
                                             Riconosci colei che prima torse
    I passi tuoi dal pubblico viaggio,
    Come ’l cor giovenil di lei s’accorse?
         Cosi, pensosa, in atto umile e saggio
    S’assise e seder femmi in una riva
    La qual ombrava un bel lauro ed un faggio.
         Come non conosch’io l’alma mia Diva?
    Risposi in guisa d’uom che parla e plora:
    Dimmi pur, prego, se sei morta o viva.
         Viva son io, e tu sei morto ancora,
    L’iss’ella, e sarai sempre, fin che giunga
    Per levarti di terra l’ultim’ora.
         Ma ’l tempo è breve, e nostra voglia è lunga:
    Però t’avvisa, e ’1 tuo dir stringi e frena,
    Anzi che ’1 giorno, giá vicin, n’aggiunga.
         Ed io: al fin di quest’altra serena
    C’ha nome vita, che per prova ’l sai.
    Deh dimmi se ’l morir è si gran pena.
         Rispose: mentre al vulgo dietro vai,
    Ed alt opinion sua cieca e dura,
    Esser felice non può’ tu giammai.
         Ma morte è fin d’una prigione oscura
    Agli animi gentili; agli altri è noia,
    C’hanno posto nel fango ogni lor cura.
         Ed ora il morir mio che si t’annoia.
    Ti farebbe allegrar, se tu sentissi
    La millesima parte di mia gioia.
         Cosi parlava; e gli occhi ave’ al ciel fissi
    Divotamente: poi mise in silenzio
    Quelle labbra rosate, insin ch’io dissi:
         Silla, Mario, Neron, Gaio e Mesenzio,
    Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno
    Parer la morte amara piú ch’assenzio.
         Negar, disse, non posso che l’affanno
    Che va innanzi al morir, non doglia forte.
    Ma piú la tema dell’eterno danno:
         Ma pur che l’alma in Dio si riconforte,
    E ’l cor, che ’n sé medesmo forse è lasso,
    Che altro ch’un sospir breve è la morte?
         I’ aveva giá vicin l’ultimo passo.
    La carne inferma, e l’anima ancor pronta;
    Quand’ndi’ dir in un suon tristo e basso:
         O misero colui ch’e’ giorni conta,
    E pargli l’un mill’anni, e ’ndamo vive,
    E seco in terra mai non si raffronta;
         
                                             E cerca ’l mar e tutte le sue rive,
    E sempre un stile ovunqu’ e’ fosse tenne;
    Sol di lei pensa, o di lei parla, o scrive!
         Allora in quella parte onde ’l suon venne,
    Gli occhi languidi volgo; e veggio quella
    Ch’ambo noi, me sospinse e te ritenne.
         Riconobbila al volto e alla favella;
    Che spesso ha giá il mio cor racconsolato.
    Or grave e saggia, allor onesta e bella.
         E quand’io fui nel mio piú bello stato.
    Nell’etá mia piú verde, a te piú cara,
    Ch’a dir ed a pensar a molti ha dato;
         Mi fu la vita poco men che amara,
    A rispetto di quella mansueta
    E dolce morte ch’a’ mortali è rara:
         Che ’n tutto quel mio passo er’io piú lieta
    Che qual d’esilio al dolce albergo riede;
    Se non che mi stringea sol di te pietá.
         Deh, Madonna, diss’io, per quella fede
    Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
    Or piú nel volto di chi tutto vede,
         Creovvi Amor pensier mai nella testa
    D’aver pietá del mio lungo martire,
    Non lasciando vostr’alta impresa onesta?
         Ch’e’ vostri dolci sdegni e le dolc’ire,
    Le dolci paci ne’ begli occhi scritte,
    Tenner molt’anni in dubbio il mio desire.
         Appena ebb’io queste parole ditte,
    Ch’i’ vidi lampeggiar quel dolce riso
    Ch’un Sol fu giá di mie virtuti afflitte.
         Poi disse sospirando: mai diviso
    Da te non fu ’1 mio cor, né giammai fia;
    Ma temprai la tua fiamma col mio viso.
         Perché, a salvar te e me, null’altra via
    Era alla nostra giovinetta fama:
    Né per ferza è però madre men pia.
         Quante volte diss’io meco: questi ama,
    Anzi arde: or si convien ch’a ciò provveggia;
    E mal può provveder chi teme o brama.
         Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia.
    Questo fu quel che ti rivolse e strinse
    Spesso, come cavai fren che vaneggia.
         Piú di mille fiate ira dipinse
    Il volto mio, ch’Amor ardeva il core;
    Ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.
         
                                             Poi se vinto te vidi dal dolore.
    Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente.
    Salvando la tua vita e ’l nostro onore.
         E se fu passion troppo possente,
    E la fronte e la voce a salutarti
    Mossi or timorosa ed or dolente.
         Questi fur teco mie’ ingegni e mie arti;
    Or benigne accoglienze ed ora sdegni:
    Tu ’l sai, che n’hai cantato in molte parti.
         Ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor si pregni
    Di lagrime, ch’io dissi: questi è corso
    A morte, non l’aitando; i’ veggio i segni.
         Allor provvidi d’onesto soccorso.
    Talor ti vidi tali sproni al fianco,
    Ch’i’ dissi; qui convien piú duro morso.
         Cosi caldo, vermiglio, freddo e bianco.
    Or tristo or lieto infin qui t’ho condutto
    Salvo (ond’io mi rallegro), benché stanco.
         Ed io: Madonna, assai fora gran frutto
    Questo d’ogni mia fé, pur ch’io ’1 credessi;
    Dissi tremando e non col viso asciutto.
         Di poca fede! or io, se noi sapessi.
    Se non fosse ben ver, perché ’l direi?
    Rispose, e ’n vista parve s’accendessi.
         S’al mondo tu piacesti agli occhi miei.
    Questo mi taccio; pur quel dolce nodo
    Mi piacque assai ch’intorno al cor avei;
         E piacemi ’l bel nome (se ’l ver odo)
    Che lunge e presso col tuo dir m’acquisti:
    Né mai ’n tuo amor richiesi altro che modo.
         Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
    Volei mostrarmi quel ch’io vedea sempre.
    I’ tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.
         Quinci ’1 mio gelo, ond’ancor ti distempre:
    Che concordia era tal dell’altre cose,
    Qual giunge Amor, pur ch’onestate il tempre.
         Fur quasi eguali in noi fiamme amorose;
    Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
    Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.
         Tu eri di mercé chiamar giá roco,
    Quand’io tacea, perché vergogna e tema
    Facean molto desir parer si poco.
         Non è minor il duol perch’altri ’l prema.
    Né maggior per andarsi lamentando;
    Per finzion non cresce il ver né scema.
         
                                             Ma non si ruppe almen ogni vel quando
    Sola i tuoi detti, te presente, accolsi,
    «Dir piú non osa il nostro amor» cantando?
         Teco era ’l cor; a me gli occhi raccolsi:
    Di ciò, come d’iniqua parte, duolti.
    Se ’l meglio e ’l piú ti diedi, e ’l men ti tolsi.
         Né pensi che, perché ti fosser tolti
    Ben mille volte, e piú di mille e mille
    Renduti e con pietate a te tur volti.
         E state toran lor luci tranquille
    Sempre ver te, se non ch’ebbi temenza
    Delle pericolose tue faville.
         Piú ti vo’ dir, per non lasciarti senza
    Una conclusion ch’a te fia grata
    Forse d’udir in su questa partenza:
         In tutte l’altre cose assai beata,
    In una sola a me stessa dispiacqui.
    Che ’n troppo umil terreo mi trovai nata.
         Duoimi ancor veramente ch’io non nacqui,
    Almen piú presso al tuo fiorito nido:
    Ma assai fu bel paese cnd’io ti piacqui.
         Che potea ’l cor, del qual sol io mi fido.
    Volgersi altrove, a te essendo ignota;
    Ond’io fora men chiara e di men grido.
         Questo no, rispos’io, perché la rota
    Terza del ciel m’alzava a tanto amore.
    Ovunque fosse, stabile ed immota.
         Or che si sia, diss’ella, i’ n’ebbi onore,
    Ch’ancor mi segue: ma per tuo diletto
    Tu non t’accorgi del fuggir dell’ore.
         Vedi l’Aurora dell’aurato letto
    Rimenar a’ mortali il giorno; e il Sole
    Giá fuor dell’Oceano infino al petto.
         Questa vien per partirci; onde mi dole:
    S’a dir hai altro, studia d’esser breve,
    E col tempo dispensa le parole.
         Quant’io soffersi mai, soave e leve,
    Dissi, m’ha fatto il parlar dolce e pio;
    Ma ’l viver senza voi m’è duro e greve.
         Però saper vorrei. Madonna, s’io
    Son per tardi seguirvi, o se per tempo.
    Ella, giá mossa, disse: al creder mio,
         Tu stara’ in terra senza me gran tempo.