Saggio critico sul Petrarca/XII. Conchiusione

XII. Conchiusione

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XI. Dissoluzione di Laura Appendice
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XII

CONCHIUSIONE


Riflettersi sull’esistenza, e assimilarsela, gustarla, goderla, interpretarla, idealizzarla, è privilegio dell’anima umana, specchio, misura, coscienza del mondo. Il Petrarca fu lo specchio di sé stesso; si ammira, si analizza, si compatisce, si conforta, si tormenta. E se talora si sforza di uscirne, come ne’ Trionfi, non è che apparenza; tutto gravita intorno a lui. Il mondo è un accessorio: non esiste per sé, ma per lui, colorato e trasformato dalle sue impressioni. Laura stessa, come realtá posta fuori di lui, è appena schizzata; ed è viva, quando dopo la morte diviene la sua creatura. Esploratore instancabile del proprio petto, segna in poesia quel medesimo stadio che Socrate in filosofia. Contemplativo anziché militante, converso e chiuso in sé stesso, ha rappresentato i fenomeni piú fuggevoli e delicati del cuore umano, a spese del proprio cuore, fattosene il carnefice. Quanto piú avanza negli anni, piú il reale gli sfugge, piú l’immaginazione lo consuma. Ad un dolore in gran parte immaginario, alternato con brevi speranze, con impeti di gioja e di entusiasmo, succede un dolor vero, e cronico, in cui si rivela il disinganno ed il vuoto d’una vita nel declinare. Talora sembra che quasi scherzi con la sua anima, e ne faccia una materia letteraria; l’esperienza dolorosa della vita rende lo scherzo serio. Queste gradazioni nello stato dell’anima spiegano l’ineguaglianza delle sue poesie. Ora trovi simulazione rettorica di sentimenti, non senza una certa buona fede, un credere d’averli. [p. 227 modifica]che tra’ concetti e le metafore fa penetrare talora degli accenti appassionati e sempre un calore d’immaginazione. In certe occasioni, a rari intervalli, ha de’ momenti di gioventú, che lo riempiono di confidenza e lo esaltano alla eloquenza ed all’entusiasmo. Ma le punture della vita moltiplicate producono un dolore, che, non potuto piú vincere, si trasforma in una malinconia tenera e dolce, effusa in poesie commoventi, di una grazia unica. Indi è che nelle sue rime trovi tutto: l’erudito, il pedante, il retore, il letterato, il poeta; l’artificioso e il naturale, il fattizio ed il vero, il ricercato e lo spontaneo; qui concetti, metafore, antitesi, galanterie; lá grazia, semplicitá, affetto; esempli d’ottimo e di pessimo gusto. Ma sempre maestro di verso e d’elocuzione sommo; e dove non puoi ammirare il poeta, ammiri l’uomo d’ingegno. La sua maniera tiene piú di Tacito che di Livio, piú del Tasso che dell’Ariosto; non corre copiosamente e largamente come un fiume ricco d’acque, ma raguna, profonda, comprime, con piú di nervo che di facondia, indizio d’una civiltá avanzata. Quest’arte di concentrare e appuntare, questo divorare gli spazii con la rapiditá del vapore, sopprimere gli accessorii, mostrar la superficie e lasciar intravedere il fondo, da una sola linea far indovinar tutto il corpo, in una formola inaspettata e luminosa serrar tutta una serie d’idee; questo parlar poco e dir molto, dirlo con la movenza della frase, con la fattura del verso, col collocamento d’una parola, col tono e col suono, di modo che la parola, oltre al valor logico, acquisti un valore poetico, come quando, cantata o interpretata dal gesto, o accompagnata dalla musica, ti sveglia nell’anima tante immagini e tanti sentimenti; quest’arte, a cui è giunta la prosa francese, a cui tendono la prosa tedesca e l’italiana, è somma nel Petrarca. Ma con la sua solita disuguaglianza: ora con lo stento e la ricerca di Seneca, ora con la limpidezza dell’intuizione e la velocitá dell’ispirazione.

Il Petrarca è il piú grande artista del Medio evo: dico artista, e non poeta. Egli ha digrossata la superficie scabra della vita e ne ha fatto un bel marmo polito e bianco; si, quella vota del Medio evo, cosí ricca, ma insieme cosí [p. 228 modifica]turbolenta, mista di pedanteria, d’ignoranza, di superstizione, di passione, di astrazione, egli l’ha ritirata in forme riposate e terse. Dico ritirata, perché la vita qui non è colta nella tempesta dell’azione, nell’abbondanza e nella spontaneitá della sua espansione, ma è come rientrata in sé, nel riposo della contemplazione; non sono esseri vivi, ma dipinti; il dramma vanisce nella descrizione, il sentimento nella sentenza, l’azione nella forma; il fiume rapido dell’esistenza s’è trasformato in un bel lago. La doppia barbarie plebea e scolastica è vinta per sempre; ritorna Venere e le Grazie, si possono giá presentire i miracoli del Poliziano, dell’Ariosto, di Raffaello.

Ma questo bel mondo plastico, se troppo vi ci avvicinate, s’allontana come un fantasma; i contorni si confondono, le linee si assottigliano ed ondeggiano. Gli è che sotto a frasi cosí chiare, scolpite con tanto rilievo, vaneggia un pensiero indeciso, inquieto, che non vi si può adagiare. Lo spiritualismo cristiano è qui piú forte del poeta. Non è giá che egli s’affatichi verso di quello, secondo che comunemente si crede, impaziente della forma angusta in cui sta come imprigionato, e vago di alzarvisi al di sopra: no. Lo spiritualismo non è un’aspirazione, ma un ostacolo che egli non può vincere, che trova nella sua stessa coscienza. Ciò che crede è in contraddizione con quello a cui tende. Crede allo spiritualismo e vi aspira; ma è un’aspirazione della ragione, in contrasto con le sue inclinazioni. Un romito in questo caso prende la disciplina e mortifica la carne; ma il nostro poeta se la vuol dare ad intendere, vuol persuadersi che contraddizione non c’è; e questo con tutta la buona fede degli uomini deboli, che, timidi incontro all’ostacolo, non lo potendo vincere, lo negano. Paganizza, e si crede cristiano; sforzasi di conciliare insieme Cristo e Cupido, lo spirito e il senso; poi ha sospetto del gioco, e se ne sdegna e se ne pente e fa propositi, salvo a tornar da capo. La sua immaginazione, il suo istinto artistico, l’educazione classica, la vivacitá, se non la persistenza del suo sentire, si ribellano contro quel misticismo cattolico-platonico, a cui pur credeva, che non osava gittar via, e che è rimaso com’un’invitta astrazione nel suo [p. 229 modifica]mondo plastico. Indi quella forma fissa, chiara, ben contornata, decisa, entro cui si move un pensiero contraddittorio, non fuso, non uno con quella. Se la contraddizione fosse seria e angosciasse il poeta e lo stimolasse a combattere, avremmo una poesia del piú alto interesse. Ma, poiché se la dissimula e s’illude, riposato in un certo inerte abbandono che gli concede appena qualche impeto a salti e ad incidente, nasce un difetto di calore interno, che rende quella cosí bella forma non di rado fredda ed insipida. Certo non è la materia che è mancata al poeta, ma l’anima uguale a quella. Non dubito di dire che quel contenuto è ciò che di piú poetico da s. Agostino a Pascal s’è incontrato nei tempi moderni. Ma quel contenuto non lo esalta, non lo punge, non lo strazia abbastanza; c’è, per manco d’energia, un fondo d’indifferenza e di distrazione, che persiste.

Qui è il difetto capitale del Petrarca: di qui nascono tutti gli altri. Dotato delle qualitá piú splendide che aver possa l’artista, ti sembra per cosí dire un Dio mezzo svogliato, che profonde intorno a sé la luce e l’armonia, non bene ancor risolutosi di quel che vuol fare. Perciò nella sua forma luccicante e vanitosa invano desideri quella puritá e misura, quella vaga e casta decenza, quella sobria, ma decisa lineatura, quella vita interiore calata tutta intera nella immagine, che testificano presso gli antichi un’esistenza piena di sicurezza e di riposo, in perfetto equilibrio. L’equilibrio è rotto, senza che ce ne sia ancora la patetica coscienza del poeta moderno; è rotto, e la forma ne conserva un’aria mentita, serena, elegante, vezzosa, civettuola anche fra le lacrime, continuando la tradizione antica con una certa esagerazione che scopre la menzogna.

Questa forma ha però uno stampo suo proprio, che la certifica moderna; è una forma, mi si passi la parola, battezzata, ed il suo battesimo è la lacrima. È una Venere sí, ma una Venere dalla guancia pallida e dagli occhi pensosi. C’è una vena inestinguibile di malinconia che consuma tanta bellezza, la consuma dolcemente, come una luce interiore troppo viva, che dimagra la carne, e la fa trasparente. La qual malinconia poco virile nasce non dall’avere invano combattuto, ma da [p. 230 modifica]poca voglia di combattere, dalla coscienza di volere e poter poco. Il poeta non gitta risolutamente un occhio nel suo male, anzi ne lo ritira spaurito; ed in luogo di apparecchiare i rimedii, s’abbandona e fantastica. Il che spiega l’impressione superficiale che fa questa poesia, dove la storia del cuore, raggomitolata come in medaglia, lascia appena intravedere abissi inesplorati. Si può dire che il Canzoniere sia una superficie, scavata di mano in mano dalla lirica moderna, o, se vi piace meglio, una prima pagina, in cui sono schizzati i semplici motivi della musica posteriore.

Desiderii illimitati, confusi e contradittorii, volti ora verso un’ascetica perfezione, ora verso godimenti quanto meno assaporati tanto piú vivi nell’immaginazione; desiderii senza speranza, fuori della realtá, soddisfatti in una realtá foggiata dal poeta: questa è una dissonanza poco scrutata, ma molto lamentata, in che è la malinconia del Petrarca. Potrei chiamarla la malattia dello spirito; poiché anche lo spirito ha la sua malattia, come la materia. Una tendenza esagerata verso un di lá inarrivabile, quale si sia il suo nome, congiunta col disprezzo assoluto di tutto ciò che è corporeo, può da prima produrre miracoli d’entusiasmo, ma a lungo andare succede la stanchezza, il fastidio, lo scoraggiamento, lo scontento di sé, e l’abbandono e la malinconia. Questa opposizione tra lo spirito e la materia, tra il dovere e il volere, giace in fondo alla poesia del Medio evo. Egli è per l’esagerato spiritualismo che vi domina l’allegoria, la personificazione, la riflessione, un difetto di reale e di concreto, un desiderio perenne senz’appagamento, Beatrice e Laura, sospirate in terra e trovate nell’altra vita. Una poesia fondata su questa base non ha la sua esistenza che nell’altro mondo, dove l’opposizione è risoluta, e ciascuna cosa sta al suo posto, dove la materia è l’inferno, e lo spirito è il paradiso: perciò la sola epopea possibile del Medio evo è al di lá della vita, è la Divina Commedia.

Il Canzoniere comprende i vacillamenti di un’anima appassionata, tirata in qua e in lá da due tendenze opposte senza poterle conciliare; il sentimento di questa interna irrequietezza [p. 231 modifica]è uno scontento, una malinconia, che, palliata dalla forza giovanile, da speranze e illusioni, all’ultimo si scopre male irrimediabile, il male proprio della lirica spiritualista, che è ad un tempo il suo genio: l’arte del Medio evo è essenzialmente malinconica. Anche nel paradiso di Dante, in mezzo all’eterna beatitudine, senti non so che scuro e vago, che ti annunzia un paradiso gotico; non sai come, allato a tanta luce, ti par di vedere delle grandi ombre: effetto nato dalla energica singolaritá della forma, che o ti ruba i contorni, o te li offre risentiti e crudi. Il Petrarca ha domato questo fondo gotico, lo ha decorato ed illuminato, a guisa di un bel tempietto greco. La sua malinconia non è né profonda, né straziante; perché né scende abbastanza in seno alle contraddizioni, né dimora troppo nello strazio di esse; anzi s’affretta ad uscirne. Rare sono le poesie, in cui ti ponga di rincontro le diverse forze che stirano l’anima; e, se lo fa, ci senti piuttosto riflessione astratta, che angoscia di passione. Il piú spesso sente il bisogno di liberarsi provvisoriamente da quella stretta, seguendo una di quelle correnti: dico provvisoriamente, perché egli medesimo sa che indi a poco un altro flutto l’aspetta. Onde è che nelle sue poesie trovi meno l’inquieta e rigogliosa energia dell’orgoglio, pronto al combattere, che l’abbandono e il rilassamento d’un’anima tenera. Ha potuto cosí dare alla sua malinconia una melodia, una grazia, una misura, una chiarezza semplice ed elegante, senza esempio in tutto il Medio evo. È un malato assiso con tanta grazia, abbigliato con tanta eleganza, che, a guardarlo con quel suo sorriso amabile, ti viene talora il sospetto, non sia forse un malato da scena.

Sarebbe un lavoro importante seguire nella storia della poesia moderna i progressi e le forme di questa malattia, combattuta sempre, e rinascente piú forte, come una maledizione fatale attaccata allo spirito moderno. Troveremmo poesie piú patetiche e piú profonde, sentimenti di mano in mano piú umani e piú reali, ma non sempre con vantaggio dell’arte. Il Petrarca nelle maggiori tensioni dell’anima non dimentica mai d’essere artista: come Cesare muore con decoro, egli piange con [p. 232 modifica]grazia. La bellezza della sua forma è tale, che rattempera e rammorbidisce l’effetto che nasce dal fondo, qual è l’impressione che vi fa la piccola morta del Manzoni, o Laocoonte che voi contemplate con ammirazione e con godimento. Mi direte che questo è illusione; ma l’arte è realta innalzata ad illusione; e, se desideriamo nel Petrarca un po’ piú di realtá, permettetemi ch’io soggiunga, che desidero in molti moderni un po’ piú d’illusione. Certo, per serenitá e chiarezza di contemplazione, per un certo interno equilibrio che gli rende impossibile ogni dissonanza e dismisura, e riconcilia, con la delicatezza e finezza de’ colori, ciò che nel mondo e nella sua anima è di piú discorde, ci è pochi che gli si possano comparare.

Torto fecero al Petrarca i petrarchisti; e non minor torto i critici, immoderati ne’ biasimi e nelle lodi. La sua immagine è passata a traverso le ombre dei secoli, e ne è stata alterata. È tempo di purificarla, guardandola non secondo le inclinazioni e i pregiudizii di questa o quell’epoca, ma in sé stessa. Italiano, non ho dubitato di esporre tutt’i suoi difetti, con non minor severitá e con piú giustizia de’ suoi detrattori. Un falso amor di patria ci fa credere bello dissimulare i difetti del proprio paese: la qual cosa è il ridicolo de’ popoli e degli uomini deboli. Quando oseremo guardare con indulgenza il prossimo ed esser severi verso noi stessi, saremo forti. Né so se ci sia maggior piccolezza, che questo arrossire di dire ad altri quello che grida alto nella nostra coscienza: una specie di falso rossore, che ci tiene imbarazzati, vili al nostro cospetto, insino a che, adagiati in una comoda ipocrisia, acquistiamo la faccia dura dell’impenitente, mentendo non solo agli altri, ma a noi stessi. Difetto confessato è mezzo emendato; osiamo guardarci in viso, se vogliamo guarirci. Heine ha frustato a sangue i suoi tedeschi; e ci è imbecilli che lo chiamano un cattivo tedesco. Finché dura in un popolo il mal vezzo di palliare le proprie magagne, dubito della sua grandezza. E mi par che non sia men piccolo quel glorificare piú del dovere, quel far, per esempio, del Petrarca un Davide ed un Platone: uguale indizio di debolezza, questa millanteria e quell’ipocrisia. Quanto a me, ho [p. 233 modifica]creduto conveniente alla grandezza della mia patria ed alla dignitá e sinceritá d’uomo dire aperto quello che pensavo, presentare il Petrarca qual io lo concepisco, senza rispetto di sorta altro che del vero, senza guardare se la sua immagine ne esca ingrandita o impiccolita. Cosi com’è, la è grande abbastanza, perché rimanga ne’ secoli.

Sovrano maestro d’armonie, pratico di tutti gli artificii e i segreti dell’elocuzione e della metrica, non è meraviglia che sia stato per si lungo tempo idolo della nazione ed esempio di gusto anche agli stranieri. Quelle forme eleganti e squisite, sciolte dallo spirito che le creò, divennero a poco a poco il morto vocabolario de’ lirici italiani; quel vasto repertorio di pensieri filosofici, morali, politici, erotici, cavati dal lavoro anteriore dell’umanitá e fissati maestrevolmente in forma di sentenze, fu saccheggiato da’ poeti posteriori. Riapparve il Canzoniere per parecchi secoli, a spizzico, parole e pensieri, come un cadavere: lo spirito, che lo vivificava, era scomparso. Quello che potevasi meccanicamente riprodurre, e che fu riprodotto, quello lodarono; intesi unicamente i critici a porre in rilievo le frasi, i concetti e le figure. E, poiché questo bel materiale riluce e spicca piú dove sta come per una civetteria di cattivo gusto accumulato, imitarono e predicarono poesie che sono tra le peggiori. Sottilizzando sulle sottigliezze petrarchesche, e raffinando modi e concetti giá in sé raffinati, si venne a tale, che Salvator Rosa potè ben dire:

                                    Le metafore il Sole han consumato.