Saggio critico sul Petrarca/III. II mondo del Petrarca

III. II mondo del Petrarca

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II. Il petrarchismo IV. Laura e Petrarca
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III

IL MONDO DEL PETRARCA


I difetti che vengono da moda e da false opinioni non viziano essenzialmente l’ingegno, che si fa sempre largo. In tutta una scuola poetica, dove dominano certi difetti trasformati in legge, i grandi poeti vi si accomodano, perché anche loro ci credono. Ma il genio li tira inconsapevolmente, ponendoli in situazioni che li appassionano, e brilla in mezzo ai difetti, e talora giunge a cacciarli via del tutto. Questo possiamo dirlo di Fra Guittone, Guido Cavalcanti e Dante, predecessori del Petrarca. Gli altri poeti non escono dalla mezzanitá; hanno un contenuto reso triviale dal tempo e raffinato; e spesso congiungono una ricercatezza convenzionale di concetto con una forma ancor barbara: perché il concetto viene loro d’altronde giá bello e formato, e la lingua debbono formarla essi, e non sanno. Perciò merito non piccolo è di Guido Guinicelli e Cino da Pistoja, l’avere dirozzata e rammorbidita la lingua; e, se non fecero piú, gli è che la natura non avea lor conceduto di musicale altro che l’orecchio. In Fra Guittone spunta il primo raggio di poesia. Ordinariamente scrive come gli altri, scrive per esercizio letterario. Ma il nostro Guittone, assalito da scrupoli, volge le spalle al mondo ed alla donna, e si rende frate; e, come il mondo e la donna lo insegue anche nel monastero, rimane sospeso tra cielo e terra, non sa essere né tutto di Dio né tutto del diavolo, ed in un flutto di contraddizioni gli escono dal petto commosso accenti patetici, e diviene [p. 52 modifica]poeta. Sembra che un amore mal ricambiato lo abbia sospinto al monastero; sperava di trovarvi la pace dell’anima, ma indarno;

                                         Poi son ricorso in Cielo al sommo bene,
Per fuggir le dorate aspre quadrella:
Nulla mi giova; ond’io son fuor di spene.
     
Non può rimuovere da sé quell’immagine, sente che ne morrá e ci pensa, e gli è caro il pensarci, e si abbandona a quei pensieri funebri e teneri, che sono il frutto privilegiato della sventura:
                                         Quanto piú mi distrugge il mio pensiero,
Che la durezza altrui produsse al mondo.
Tanto ognor, lasso! in lui piú mi profondo,
E col fuggir della speranza spero.
     Eo parlo meco, e riconosco in vero
Che mancherò sotto si grave pondo:
Ma il mio fermo disio tant’è giocondo,
Ch’eo bramo e seguo la cagion ch’eo pero.
     Ben forse alcun verrá dopo qualch’anno.
Il qual, leggendo i miei sospiri in rima,
Si dolerá della mia dura sorte.
     E chi sa che colei, ch’or non m’estima,
Visto con il mio mal giunto il suo danno,
Non deggia lagrimar della mia morte!
     
Qui cí è un sentimento profondo e vero, espresso con una. semplicitá e facilitá poco credibile in quel tempo. Il sonetto è tirato innanzi col nesso e la sicurezza di una visione immediata, e si può comparare agli eccellenti del Petrarca. Fino allora non erasi sentito ancora un suono si commovente di malinconia, né ci era ancora esempio di tanta proprietá di epiteti e di verbi, e di versi cosí felici e cosí pieni di senso, che stringono in poche parole e lasciano indovinare tutta una storia interiore, come:
                                    E col fuggir della speranza spero...
Ch’io bramo e seguo la cagion ch’eo pero...
Visto con il mio mal giunto il suo danno...
     
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Altre volte gli viene in pensiero di uccidersi; ma lo intenerisce e lo ritiene la verde etá e la speranza:

                                    Ed a restar di qua mi priega e ’nvita,
Si ch’io spero col tempo esser felice.
     

Sentimento assai piú umano e nobile e poetico, che la paura dell’inferno, la quale impedisce il Petrarca dal darsi la morte. Altre volte si raccomanda fervidamente alla Madonna, perché lo sciolga da quel pensiero col divino amore:

                                    Come d’asse si trae chiodo con chiodo:      
verso rubatogli dal Petrarca e rimaso proverbiale. Qui niuna orma piú di rettorica e di fattizio; e Guittone sarebbe venuto a’ posteri con molta piú lode, se la forma non fosse spesso aspra ed irta, e se le poche buone non fossero affogate in una farragine di poesie men che mediocri.1 Ma ne’ contemporanei Guittone levò molto grido; e certo non meritava di essere poi, come fu, oscurato da’ Guinicelli e da’ Cini, che non lo valevano, di piú Uscio, ma di nessun nervo. Ben nacque poeta Guido Cavalcanti, cui l’immatura morte e le distrazioni filosofiche e pohtiche impedirono di sabre ai primi gradi. Anch’egli con gli stessi difetti, filosofeggia, scherza, allegorizza, sottilizza. Ma la ballata
                                    In un boschetto trovai pastorella,2      
[p. 54 modifica]è un miracolo di grazia; e la ballata:
                                    Perch’io no spero di tornar giammai,3      

è ciò che di piú tenero e insieme di piú soave si trovi in ballata italiana. Era esule, lontano dalla patria e dall’amata, tisico, poco poi moriva. Moriva, ma lasciando di sé eterna [p. 55 modifica]memoria in un lamento funebre, penetrato di una malinconia pura da ogni amarezza, anzi sposata con immagini piene di grazia: è un sorriso sulle smorte labbra.

Venne l’Alighieri e cacciò tutti di nido. Non v’attendete giá ch’io voglia parlarvi di Dante; non se ne può avere una giusta immagine cosí per incidente. Solo dirò al mio proposito, che in lui sono gli stessi difetti, abuso di scienza, di allegoria, di personificazioni, idee attinte nel comune arsenale e comunemente dette. Il primo sonetto è una freddura, e ce ne ha parecchi altri di simili. Ma giá vi fiutate quella possanza di forma, a cui doveva alzare la poesia. Che la gentilezza nasca dall’amore, è uno dei luoghi comuni del tempo. Ma la prima volta [p. 56 modifica]è ora espresso con poetica leggiadria: Dante ha innanzi non un pensiero astratto, ma una forma:

                                         Negli occhi porta la mia donna Amore,
Per che si fa gentil ciò ch’ella mira:
Ove ella passa, ogni uom vèr lei si gira,
E cui saluta fa tremar lo core...
     Ogni dolcezza, ogni pensiero umile
Nasce nel core a chi parlar la sente,
Ond’è beato chi prima la vide.
     Quel ch’ella par, quando un poco sorride,
Non si può dicer, né tenere a mente,
Sí è novo miracolo e gentile.
     

Lo stesso concetto trovate in parecchi sonetti, e sopra tutti in uno celebrato per l’eccellenza della forma, che lo avvicina a’ migliori del Petrarca:

                                         Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia, quand’ella altrui saluta,
Ch’ogni lingua divien tremando muta,
E gli occhi non ardiscon di guardare.
     Ella sen va, sentendosi laudare,
Umilemente d’onestá vestuta,
E par che sia una cosa venuta
Di cielo in terra a miraeoi mostrare.
     Mostrasi si piacente a chi la mira.
Che dá per gli occhi una dolcezza al core,
Che ’ntender non la può chi non la pruova.
     E par che della sua labbia si muova
Uno spirto soave, pien d’amore,
Che va dicendo all’anima: sospira
     

La donna come tipo convenzionale, ornata di tutta perfezione, era fin qui un pensiero crudo e magro, fabbricato a priori, estraneo alle impressioni immediate del poeta. Dante è il primo che le dá, non dico un nome, che sarebbe nulla, ma una forma: finora avevamo donne anonime, concetti, anzi [p. 57 modifica]che persone: Beatrice è la prima donDa poetica che comparisce sull’orizzonte. E l’amante ne fa una giovinetta, o piuttosto un’angioletta, scesa pur mo dal cielo, che, rapita in Urica beatitudine, racconta ella stessa le sue bellezze con l’ingenuitá e la grazia di una fanciulla:

                                         Io mi son pargoletta bella e nova,
E son venuta per mostrarmi a vui
Delle bellezze e loco, dond’io fui.
     Io fui del cielo, e torneròwi ancora,
Per dar della mia luce altrui diletto,
E chi mi vede e non se ne innamora,
D’amor non averi mai intelletto...
     Ciascuna stella negli occhi mi piove
Della sua luce e della sua virtute:
Le mie bellezze sono al mondo nove,
Perocché di lassú mi son venute...
     Queste parole si leggon nel viso
D’un’angioletta, che ci è apparita:
Ond’io, che per campar la mirai fiso,
Ne sono a rischio di perder la vita...
     

Quest’angioletta fu per Dante una momentanea apparizione, a guisa di un sogno d’un quarto d’ora che si perpetua nella memoria. Quell’immagine diviene la sua orifiamma, intorno alla quale raccoglie il suo universo; ella resta Beatrice, ed è insieme teologia, filosofia, grazia, amore, politica, tutta quella vasta sintesi che abbraccia l’anima del poeta. Questa è la Beatrice della Divina Commedia; che troviamo ancora nella sua lirica dove piange la sua morte. Né il suo genio si è spiegato mai con tanta forza, che ora che è impressionato dal dolore. Dante non ha né la dolce malinconia del Cavalcanti, né la tenerezza un po’ molle del Petrarca; ha un dolore virile, ingrandito dalla possente immaginazione, e mescolato di una certa fierezza; la lagrima gli scappa, ma presto l’asciuga, e sembra, non che se ne paoneggi come il Petrarca, ma che quasi ne abbia onta. L’espressione del dolore è gigantesca, [p. 58 modifica]come nelle nature forti: conoscenti e sconosciuti, la terra, l’aria, il mare, il sole, tutto vi prende parte, di tutto egli fa un piedistallo a Beatrice; ma non vi stagna, non giugne fino alla tenerezza e al languore. Dipinge a gran tratti, lasciando grandi ombre come in un tempio gotico, e porgendoti innanzi qualche cosa di colossale che ti percota; in quel dolore senti non so che di scuro e di grande, come la disperazione. Irresistibile è la commozione, quando a immagini gigantesche sopravvengono immagini tenere; quando, per esempio, nella costernazione di tutto l’universo, come invaso da presentimenti di prossime rovine, si sente con fioca voce il funebre annunzio:

Ed uom m’apparve scolorito e fioco,
Dicendomi: che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua, ch’era si bella.

L’universo muore! E non si piange; si rimane immobile. Beatrice è morta: e scorrono le lagrime. Ma è un lampo; subito, con un solo impeto, il poeta risorge dal profondo del dolore, bruscamente, senza i passaggi e le gradazioni artificiose di un’arte piú raffinata: ne risorge per tuffarvisi un’altra volta, effondendo la ricca anima ne’ piú diversi movimenti e sentimenti.4 [p. 59 modifica]

Vi citerò, come i piú degni di nota, i sonetti:

                                         Voi, che portate la sembianza umile,
Con gli occhi bassi mostrando dolore,
Onde venite, che ’l vostro colore
Par divenuto di pietá, simile?
     

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                                         Vedeste voi nostra donna gentile
Bagnata il viso di pietá d’amore?
Ditelmi, donne, che ’l mi dice il core,
Perch’io vi veggio andar sanza atto vile.
     E se venite da tanta pietate,
Piacciavi di restar qui meco alquanto,
E checché sia di lei, noi mi celate:
     Ch’io veggio gli occhi vostri c’hanno pianto,
E veggio vi venir si sfigurate.
Che ’l cor mi trema di vederne tanto.

     Se’ tu colui, ch’hai trattato sovente
Di nostra donna, sol parlando a nui?
Tu rassomigli alla voce ben lui,
Ma la figura ne par d’altra gente.
     

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                                         E perché piangi tu si coralmente,
Che fai di te pietá venire altrui?
Vedestú pianger lei, ché tu non pui
Punto celar la dolorosa mente?
     Lascia piangere a noi, e triste andare,
(E’ fa peccato chi mai ne conforta),
Ché nel suo pianto l’udimmo parlare.
     Ella ha nel viso la pietá si scorta,
Che qual l’avesse voluta mirare,
Saria dinnanzi a lei caduta morta.

     Deh peregrini, che pensosi andate
Forse di cosa che non v’è presente,
Venite voi di si lontana gente,
Come alla vista voi ne dimostrate?
     Ché non piangete, quando voi passate
Per lo suo mezzo la cittá dolente,
Come quelle persone che neente
Par che ’ntendesser la sua gravitate.
     Se voi restate per volere udire,
Certo lo core de’ sospir mi dice
Che lagrimando n’uscirete pui.
     Ella ha perduta la sua Beatrice;
E le parole, ch’uom di lei può dire.
Hanno virtú di far piangere altrui.
     

Questi tre sonetti contengono ciascuno una vera situazione drammatica, còlta e rappresentata in uno de’ momenti piú lirici; e, quantunque la forma non si possa dir perfetta, sono tra’ migliori per la felicitá dell’invenzione e la veritá de’ sentimenti. Ci è niente di piú volgare che dire: — Beatrice è morta — ? Ma preparata com’è nell’ultimo sonetto, questa notizia fa un effetto maraviglioso. Il poeta incontra peregrini che camminano indifferenti, e se ne maraviglia. Essi non piangono! Gli pare che tutti dovessero conoscere la sua sventura, anzi la sventura della cittá, e, conoscendola, gli pare impossibile che non si pianga. Questa situazione cosí naturale e insieme cosí nova risponde a ciò che di piú secreto si move [p. 62 modifica]nel core umano; di modo che la semplice esposizione, nuda di ogni artificio di forma, raggiunge il piú alto effetto estetico. L’affetto penetra anche in mezzo alle astrazioni; e se vi prende vaghezza di leggere altre poesie, dove fra le astruserie filosofiche scintillano movimenti poetici, non dimenticherete la piú bella canzone allegorica che sia stata mai scritta:

                                         Tre donne intorno al cuor mi son venute,
seggionsi di fore,
Chó dentro siede Amore,
Lo quale è in signoria della mia vita.
Tanto son belle, e di tanta virtute,
Che ’l possente signore.
Dico quel che è nel core,
Appena di parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
Come persona discacciata e stanca,
Cui tutta gente manca
E cui virtute e nobiltá non vale.
Tempo fu giá nel quale,
Secondo il lor parlar, furon dilette;
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste cosf solette
Venute son, come a casa d’amico;
Ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.
     Dolesi l’una con parole molto,
E ’n su la man si posa,
Come succisa rosa;
Il nudo braccio, di dolor colonna,
Sente lo raggio che cade dal volto;
L’altra man tiene ascosa
La faccia lagrimosa;
Discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
La vide in parte, che ’l tacere è bello,
Egli pietoso e fello,
Di lei e del dolor fece dimanda:
O di pochi vivanda
     
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                                    (Rispose in voce con sospiri mista),
Nostra natura qui a te ci manda.
10 che son la più trista,
Son suora alla tua madre, e son Drittura;
Povera (vedi) a panni ed a cintura.
     Poiché fatta si fu palese e conta,
Doglia e vergogna prese
11 mio Signore, e chiese
Chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
E questa, ch’era si di pianger pronta,
Tosto che lui intese.
Piú del dolor s’accese,
Dicendo: Or non ti duol degli occhi miei.
Poi cominciò: Siccome saper dèi,
Di fonte nasce Nilo picciol fiume;
Ivi, dove ’l gran lume
Toglie alla terra del vinco la fronda,
Sovra la vergin onda.
Generai io costei, che m’è da Iato,
E che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
Mirando sé nella chiara fontana,
Generò questa, che m’è piú lontana
     Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
E poi con gli occhi molli,
Che prima furon folli,
Salutò le germane sconsolate.
E poiché prese l’uno e l’altro dardo.
Disse: Drizzate i colli;
Ecco l’armi ch’io volli;
Per non l’usar, le vedete turbate.
Larghezza e Temperanza, e l’altre nate
Del nostro sangue mendicando vanno;
Però, se questo è danno,
Pianganlo gli occhi, e dolgasi la bocca
Degli uomini a cui tocca.
Che sono a’ raggi di cotal ciel giunti:
Non noi, che semo deU’eterna rocca:
Ché, se noi siamo or punti,
     
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                                    Noi pur saremo, e pur troverem gente,
Che questo dardo fará star lucente.
     Ed io ch’ascolto nel parlar divino
Consolarsi e dolersi
Cosí alti dispersi,
L’esilio, che m’è dato, onor mi tegno:
E se giudizio o forza di destino
Vuol pur che il mondo versi
I bianchi fiori in persi;
Cader tra’ buoni è pur di lode degno.
E se non che degli occhi miei ’l bel segno
Per lontananza m’è tolto dal viso,
Che m’have in foco miso.
Lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’have
Giá consumate si Tossa e la polpa,
Che morte al petto m’ha posta la chiave;
Onde s’io ebbi colpa.
Piú lune ha volto il sol, poiché fu spenta;
Se colpa muore, purché l’uom si penta.
     Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
Per veder quel che bella donna chiude:
Bastin le parti nude;
Lo dolce pomo a tutta gente niega.
Per cui ciascun man piega.
E s’egli avvien che tu mai alcun truovi
Amico di virtú, e quel ten priega,
Fatti di color nuovi:
Poi gli ti mostra; e ’l fior ch’è bel di fuori.
Fa desiar negli amorosi cuori.
     

La possanza dell’immaginazione ha fatte queste tre donne cosí palpabili e vive, come le greche divinitá; ed il concetto è di una tale limpidezza, che si coglie a primo sguardo. È il solito concetto, su cui tanto erasi lavorato innanzi, che amore non può essere scompagnato da gentilezza; cioè a dire, da virtú. Dirittura, Larghezza, Temperanza, e le altre virtú germane d’Amore, vanno errando proscritte e mendiche, e i dardi [p. 65 modifica]d’amore per ií lungo disuso sono irrugginiti. L’interesse giunge al sommo, quando il poeta, stracciando il velo dell’allegoria, si pianta fieramente accanto alle nobili dive, e sente orgoglio d’essere proscritto insieme con quelle:

                                         Ed io che ascolto nel parlar divino
Consolarsi e dolersi
Cosi alti dispersi,
L’esilio, che m’è dato, onor mi tegno.
     

Qui non ammirate solo il gran poeta: vi sentite pieni di riverenza innanzi ad un gran carattere.

Il soggetto m ha invescato e m’ha fatto obbliare il Petrarca. Non vi recherá ora maraviglia che nel Petrarca ci sieno due uomini, il letterato e il poeta, come in tutt’i suoi predecessori.

L’amore ha ispirato il Petrarca; ma l’uomo non è fatto tutto d’un pezzo, né le impressioni operano esse sempre, esse assolutamente. Insieme coll’amore ci è la scuola poetica, le opinioni letterarie, lo spettro del pubblico, il fattizio ed il convenzionale: elementi di cui trovate i vestigi anche in mezzo alla piú schietta ispirazione. Nelle piú cattive poesie, chi sa bene fiutare, sente spesso l’impressione vigorosa dell’ingegno; e nelle migliori, le involontarie abitudini della scuola. Noi vogliamo ora sceverare da tutti questi estranei elementi la schietta poesia.

Ciascun poeta ha il suo mondo piú o meno vasto, a cui crede, e che opera sulla sua immaginazione. Il mondo del Petrarca fu Laura.

Chi è Laura? Un pubblico estetico risponderebbe sorridendo: — Leggiamo il Petrarca e vedremo — . Ma i popoli estetici sono rare apparizioni; in certe epoche soggiacciono a certi indirizzi particolari, filosofici, storici, politici, morali, economici, ed allora veggono la poesia attraverso a questi indirizzi. Quando non si comprende, o non si gusta piú la realtá poetica, nasce la curiositá della realtá materiale. Cosí di tempo in tempo sono sorte delle quistioni: — Laura fu [p. 66 modifica]maritata o donzella? quale fu il suo marito? ebbe figli? fu ricca? fu nobile? e, innanzi tutto, è Laura una creatura reale o meramente poetica? non sarebbe ella un’allegoria, una personificazione; e, posto che no, fino a qual punto l’amò il Petrarca? di qual natura fu quest’amore? — . Confesso che non saprei rispondere a queste e simili domande, per la semplice ragione che non lo so, e che il Petrarca non me ne ha fatto confidenza. Del suo amore vive sol quello a cui ha dato un’esistenza poetica. Eh mio Dio! e che altro dunque rimane della storia fuori di quello che lo spirito fa suo? Tutto l’altro se ne stacca e imputridisce. Di Laura e del Petrarca qualche cosa è morto, ed era degno di morire; è rimasto ciò che lo spirito, ricevendo e riflettendo, ha eternato.

Giovane, inesperto della donna, il Petrarca riceve una profonda impressione alla vista di Laura. Fu per lui quasi la donna de’ nostri sogni giovanili; quando crediamo di averla trovata, ce le atterriamo innanzi come ad un essere soprannaturale. In questo primo stadio adoriamo, e non amiamo ancora: l’amore è timido e goffo, non osiamo di rivolgerle la parola, di trattar come nostro simile quella che ci fa battere il cuore. Il Petrarca la segue alle passeggiate, per i campi, in chiesa, non osa d’accostarsele. Dopo un par d’anni ha accesso in sua casa; mai non osa di dirle: — Io t’amo — ; parlano solo gli sguardi ed i gesti. Ben qualche volta, fatto ardito, vorrebbe dirle... ma uno sguardo severo lo arresta, e la parola gli si agghiaccia nella gola. In un momento d’audacia gli usci detto non so che, e Laura gli rispose con disdegno: — Io non son chi tu credi — . Di che rimase cosí esterrefatto il nostro innamorato, che si finge trasformato in cervo, come Atteone alla vista di Diana. Quest’amore durò ventun anno, e rimane l’ultimo giorno propriamente nello stesso stato quasi che il primo, senza sviluppo, senza successione. E perché qui il primo stadio dell’amore è tutto l’amore? Ci sono delle situazioni, che nella vita si chiamano false, e nella poesia infelici, quando nella vita non puoi tutt’osare e nella poesia non puoi tutto dire, perché hai di rincontro de’ principii ai quali tu credi, e [p. 67 modifica]combattere contro a quelli, gli è come combattere contro te stesso: c’è qui il dovere e la pubblica opinione che pesa sul poeta. Ben si sforza di credere e di far credere alla purezza del suo amore; ma non può fare illusione a sé, né può tenere nell’illusione gli altri. Talora conosce spaventato la gravitá della sua passione, e prende risoluzioni, col sentimento confuso che non ne fará nulla; talora la voce pubblica lo accusa, e innanzi all’altrui maldicenza, ed alla sua debolezza, il poeta s’allontana e fa lunghi viaggi. È cosí guardingo e misurato, che, parlando dei suo amore liberamente, non lascia mai che alcun sospetto caggia sopra di Laura; anzi, con un delicato olocausto del suo amor proprio, te la mostra sempre restia, e solo talora pietosa piú che amorosa; e, se alcuna rara volta le attribuisce un sentimento piú tenero, non lo afferma che in una forma dubitativa:

                                    Forse (o ch’io spero!) il mio tardar le lode.      

Mi direte: — Ma quando si tratta di passioni vere e profonde, o l’esistenza è spezzata, o il desiderio è placato — . È giusto; e qui l’uomo ci ajuta a comprendere il poeta. Natura delicata e impressionabile, senza durata e senza persistenza, il Petrarca potea aver delle emozioni, non delle passioni, delle emozioni piú o meno forti, che ora si accostano alla passione, e ora sfumano in modo che egli può scherzarvi sopra e farvi de’ concetti. Della passione era efficace sedativo la sua immaginazione, che dava uno sfogo alle ansietá del reale nelle divine consolazioni della poesia. Cosi, sciogliendosi dalle strette della realtá, e spaziando in una regione piú serena, ha potuto poetare sopra sé stesso:

                                    Chi può dir com’egli arde, è ’n picciol foco.      

Né molto grande dovea essere un foco potuto descrivere con tanta eleganza e leggiadria.

Cosa è dunque questo amore? É un sentimento indefinibile, a cui l’amante non sa assegnare un nome:

                                    S’amor non è, che dunque è quel ch’i’ sento?
Ma s’egli è amor, per Dio, che cosa e quale?
     
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É un si ed un no, un voglio e non voglio:

                                    Io medesmo non so quel ch’io mi voglia.      
E quello che si chiama la contraddizione del Petrarca, un ondeggiamento di volontá di un essere debole: cosa contraria al senso comune, ma piena di senso poetico. Un contadino col suo grosso buon senso gli avrebbe detto: — Vuoi, o non vuoi? se vuoi, dunque osa; e se no, smetti — . Il Petrarca non passò mai il Rubicone; rimase in un fluttuante fantasticare, fuori dell’azione. E chi conosce l’uomo, dirá: — Tale l’uomo, tale la sua storia.

Questo amore è dunque la prima pagina di un romanzo; ci manca il romanzo o la storia. Perché si ha storia, quando i fatti generano fatti, quando i sentimenti si sviluppano e, giunti all’ultima intensitá, si trasformano in sentimenti d’altra natura. Qui hai una folla di piccoli accidenti, staccati, l’uno fuori dell’altro: i fatti variano, il fondo rimane lo stesso. Parimente i sentimenti restano sterili, ciascuno chiuso in sé, senza progresso o connessione; si cambiano, si ripetono, secondo l’umore e gli accidenti. Trovi un’anima abbandonata alla corrente, che va in qua e in lá sdrucciolando, e mai non è che si fermi con forza propria, con un voglio virile. Ma i critici sono come i metafisici, che in mezzo alle stravaganze e agli accidenti del mondo si studiano nella loro impazienza di metterci essi un po’ d’ordine; e, quando i fatti ripugnano, se la pigliano con Dio; e: — Se io fossi stato Domineddio, avrei saputo far meglio — . Di buon’ora i critici si sono industriati ad ordinare le poesie del Petrarca meglio ch’egli non avea fatto; e, appunto perché quest’ordine è impossibile, non trovi due che siano d’accordo. Quando poi, progredita la critica, dall’ordine materiale ed esteriore si passò all’ordine interno del contenuto, nacque facilmente l’illusione che ci potesse essere un nesso in queste espansioni amorose. Confesso umilmente ch’io ho avuto questa illusione nei miei giovani anni, e che esponendo il Canzoniere mi parea di avere trovato un filo logico, un prima e [p. 69 modifica]poi, o, per dir meglio, un post hoc ergo propter hoc: e feci una specie di romanzo critico, di cui forte mi applaudivo. E me ne sarei insuperbito, se avessi saputo quello che ora so, che Leopardi ha avuto il medesimo pensiero, e che Pierre Leroux ha costruito un suo romanzo di questo genere, non riescitomi ancora di leggere. Questi romanzi critici si potrebbero aggiungere a’ tanti altri sulla vita del Petrarca, per esempio a quello del Levati, e all’altro di madama Genlis. Un certo nesso generale, certi grandi intervalli, ne’ quali si possano distribuire le sue poesie, con un ordinarle secondo categorie estetiche per agevolarne il giudizio, questo va. Ciò che è assurdo, è supporre un ordine a priori costruito dal Petrarca, come se gli fosse venuto in mente di fare un vero poema dell’amore. Ci è qui gran ricchezza di sentimenti, che si potrebbero considerare come i materiali ancora sciolti di un poema lirico; ma che sbalzan fuori giorno per giorno, secondo lo stato di un’anima agitata, senza scopo, senza direzione e senza connessione. Onde il Canzoniere, anzi che un poema, si potrebbe chiamare il giornale dell’amore, un giornale di tutti i fenomeni fuggevoli che appariscono nel nostro spirito, físsati in verso.

  1. Ci è tanta distanza fra queste e altre poesie attribuitegli, che nasce il sospetto non poter esser tutte della stessa persona.
  2. Crediamo utile riferire in piè di pagina le poesie cui si accenna nel testo. Ecco la prima ballata.
                                             In un boschetto trovai pastorella,
    Piú che la stella — bella al mio parere.
         Capegli avea biondetti e ricciutelli,
    E gli occhi pien d’amor, cera rosata:
    Con sua verghetta pasturava agnelli:
    E scalza, e di rugiada era bagnata:
    Cantava come fosse innamorata,
    Era adornata — di tutto piacere.
         
                                             D’amor la salutai immantinente,
    E domandai se avesse compagnia:
    Ed ella mi rispose dolcemente
    Che sola sola per lo bosco giá:
    E disse: sappi, quando l’augel pia,
    Allor disia — lo mio cor drudo avere.
         Poiché mi disse di sua condizione,
    E per lo bosco augelli udío cantare.
    Fra me stesso dicea: ora è stagione
    Di questa pastorella gioi’ pigliare.
    Mercé le chiesi, sol che di basciare.
    Ed abbracciare — fosse ’l suo volere.
         Per man mi prese d’amorosa voglia,
    E disse che donato m’avea ’l core:
    Menommi sotto una freschetta foglia,
    lá dove io vidi fior d’ogni colore:
    E tanto vi sentio gioia e dolzore,
    Che Dio d’Amore — mi parve ivi vedere.
         
  3. E questa è l’altra:
                                             Perch’io no spero di tornar giammai,
    Ballatetta, in Toscana,
    Va tu leggiera e piana
    Dritta alla donna mia,
    Che per sua cortesia
    Ti fará molto onore.
         Tu porterai novelle de’ sospiri.
    Piene di doglia e di molta paura;
    Ma guarda che persona non ti miri.
    Che sia nemica di gentil natura;
    Che certo per la mia disavventura
    Tu saresti contesa.
    Tanto da lei ripresa,
    Che mi sarebbe angoscia:
    Dopo la morte poscia
    Pianto e novel dolore.
         
                                             Tu senti, Ballatetta, che la morte
    Mi stringe si che vita m’abbandona,
    E senti come ’l cor si sbatte forte
    Per quel che ciascun spirito ragiona:
    Tant’è distrutta giá la mia persona
    Ch’io non posso soffrire.
    Se tu mi vuoi servire,
    Mena l’anima teco,
    (Molto di ciò ten preco)
    Quando uscirá del core.
         Deh, Ballatetta, alla tua amistate
    Quest’anima, che triema, raccomando;
    Menala teco nella tua pietate
    A quella bella donna, a cui ti mando:
    Deh, Ballatetta, dille sospirando
    Quando le sei presente;
    Questa vostra servente
    Vien per istar con vui,
    Partita da colui
    Che fu servo d’Amore.
         Tu, voce sbigottita e deboletta.
    Ch’esci piangendo dello cor dolente,
    Con l’anima, e con questa Ballatetta
    Va’ ragionando della strutta mente.
    Voi troverete una donna piacente
    Di sí dolce intelletto,
    Che vi sará diletto.
    Starle davanti ognora.
    Anima, e tu l’adora
    Sempre nel suo volere.
         
  4.                                          Donna pietosa e di novella etate.
    Adorna assai di gentilezze umane,
    Era lá, ov’io chiamava spesso Morte.
    Veggendo gli occhi miei pien di pietate.
    Ed ascoltando le parole vane.
    Si mosse’con paura a pianger forte:
    Ed altre donne che si furo accorte
    Di me per quella che meco piangia,
    Fecer lei partir via,
    Ed appressarsi per farmi sentire.
    Qual dicea: Non dormire;
    E qual dicea: Perché sí ti scontorte?
    Allor lasciai la nova fantasia.
    Chiamando il nome della donna mia.
         
                                             Era la voce mia si dolorosa,
    E rotta si dall’angoscia e dal pianto,
    Ch’io solo intesi il nome nel mio core;
    E con tutta la vista vergognosa,
    Ch’era nel viso mio giunta cotanto.
    Mi fece verso lor volgere Amore.
    Egli era tale a veder mio colore,
    Che iacea ragionar di morte altrui.
    Deh confortiam costui.
    Pregava Tuna l’altra umilemente;
    E dicevan sovente:
    Che vedestu, che tu non hai valore?
    E quando un poco confortato fui.
    Io dissi: Donne, dicerollo a vui.
         Mentre io pensava la mia frale vita,
    E vedea il suo durar come è leggero,
    Piansemi Amor nel core, ove dimora:
    Perché Panima mia fu si smarrita,
    Che sospirando dicea nel pensiero:
    Ben converrá che la mia donna mora.
    Io presi tanto smarrimento allora,
    Ch’io chiusi gli occhi vilmente gravati:
    Ed eran si smagati
    Gli spirti miei, che ciascun giva errando.
    E poscia immaginando.
    Di conoscenza e di veritá fuora.
    Visi di donne m’apparver crucciati.
    Che mi dicien pur: Morrati, morrati.
         Poi vidi cose dubitose molte
    Nel vano immaginar, ov’io entrai:
    Ed esser mi parca non so in qual loco,
    E veder donne andar per via disciolte,
    Qual lagrimando, e qual traendo guai,
    Che di tristizia saettavan foco.
    Poi mi parve veder a poco a poco
    Turbar lo sole ed apparir la stella,
    E pianger egli ed ella;
    Cader gli augelli volando per l’âre,
    E la terra tremare;
    Ed uom m’apparve scolorito e fioco.
    Dicendomi: Che fai? non sai novella?
    Morta è la donna tua, ch’era si bella.
         
                                             Levava gli occhi miei bagnati in pianti,
    E vedea, che parean pioggia di manna.
    Gli angeli, che tomavan suso in cielo,
    Ed una nuvoletta avean davanti,
    Dopo la qual gridavan tutti: Osanna;
    E s’altro avesser detto, a voi dire’ lo.
    Allor diceva Amor: Piú non ti celo;
    Vieni a veder nostra donna che giace.
    L’immaginar fallace
    Mi condusse a veder mia donna morta;
    E quando l’avea scorta,
    Vedea che donne la covrian d’un velo;
    Ed avea seco umiltá sf verace.
    Che parea che dicesse: Io sono in pace.
         Io diveniva nel dolor si umile,
    Veggendo in lei tanta umiltá formata.
    Ch’io dicea: Morte, assai dolce ti tegno.
    Tu dèi ornai esser cosa gentile.
    Poiché tu sei nella mia donna stata,
    E dèi aver pietate e non disdegno.
    Vedi che sf desideroso vegno
    D’esser de’ tuoi, ch’io ti somiglio in fede:
    Vieni, che ’l cor ti chiede.
    Poi mi partia, consumato ogni duolo;
    E, quando io era solo,
    Dicea, guardando verso l’alto regno;
    Beato, anima bella, chi ti vede.
    Voi mi chiamaste allor, vostra mercede.