Saggio critico sul Petrarca/IV. Laura e Petrarca
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IV
LAURA E PETRARCA
Il Canzoniere è la conseguenza di questa situazione. E innanzi tutto, poiché questo amore non fa un passo, non giunge fino ad una dichiarazione, fino ad una espansione confidenziale, avvolto in un costante equivoco, da cui nessuno de’ due osa uscire, chiamato per tacito accordo amicizia spirituale e casta, ma non si che il sospetto di Laura si scemi o il desiderio del Petrarca si temperi; che cosa, posta questa situazione, può essere, che cosa è Laura? Laura è una Dea, non è ancora una donna.
Si crede a torto che la Dea sia piú perfetta della donna, come si crede che l’ideale sia piú perfetto del reale. La Dea è la donna iniziale, ancora nelle sue qualitá generali, non realizzate; è il genere, il femminile, il pensiero di una epoca sviluppatosi dal dogma o dal simbolo religioso, uscito dalla nuditá dell’astrazione metafisica, vestito d’una prima forma dalla poesia, ma d’una forma ricordevole, in cui il pensiero si ricorda ancora, se posso dir cosí, del passato, da cui si è sciolto di fresco. Quel pensiero prende una faccia, diviene bellezza che innamora di sé le immaginazioni, acquista un nome di battesimo, si chiama Laura o Beatrice. La donna del Medio evo o è rozza materia di piacere, frutto di plebea barbarie, o è concezione metafisica e religiosa; o è terra, o è Dea. La Dea non ha preso le spoglie dell’umanitá, mescolatasi in mezzo agli avvenimenti; ma è l’ideale dell’uomo attraverso il cammino della vita, la sua stella, il faro che gli mostra la sua ultima destinazione. Questa è certo una delle piú gentili concezioni di quel tempo, generata e dallo spiritualismo cristiano e dal culto della donna presso i barbari, e piú tardi nobilitata dalle idee platoniche. È, in sostanza, il pensiero che rompe il guscio del simbolo, si spoglia della ruvida scorza delle scuole, ed incarnandosi in una donna, brilla come l’aurora della poesia.
In Beatrice trovi ancora i vestigi di questa formazione. Ben senti in lei una creatura reale, ma sembra quasi che Dante ne abbia onta, e che si sforzi di fartelo dimenticare, tutto inteso ad allegorizzarla, a trasformarla in un’idea religiosa e filosofica. L’ama piú che come donna, l’ama come la bella immagine di tutto ciò a cui l’uomo crede secondo religione e secondo filosofia; e, in veritá, Beatrice è l’ideale piú comprensivo e piú profondo che abbia prodotto l’arte del Medio evo; è, sotto faccia di donna, qualche cosa di cosí colossale come San Pietro. Ma questa donna, irta di sillogismi e di casismi, è pure la donna sua, amata col caldo e con le illusioni della giovinezza, trasformata a grado a grado secondo che si trasformava l’amante, ma conservando sempre una vita plastica ed appassionata innanzi ad un poeta, la cui fantasia mai non invecchia, e che, con uno strano mescolamento di pedanteria e di poesia, spesso di mezzo a un sillogismo fa scoppiare il fremito delle passioni. Qualche cosa di questa pedanteria, ma insieme con tanta parte di poesia, vedi in Beatrice.
Non si può disconoscere in Laura vestigi d’un tipo convenzionale. Il poeta la concepisce un po’, come si concepiva da tutti la donna: con impressioni presenti e vive si mescolano opinioni preconcette, condizione a cui non si possono sottrarre gl’ingegni piú spontanei. Laura è un esemplare di tutta perfezione, che dalla contemplazione di bellezza terrena tira l’anima alla contemplazione delle cose celesti, è scala al Fattore, i suoi occhi mostrano la via che conduce al cielo, da lei viene virtú e santitá. Questo concetto platonico è il luogo comune, girato e rigirato dal poeta in varie guise. Il che lo dispone talora a sostituire alla bellezza la perfezione morale, onestá, castitá, purezza, umiltá, eco. Ecco un sonetto a contrasti, che è il compendio delle virtú di Laura:
In nobil sangue vita umile e queta. Ed in alto intelletto un puro core; Frutto senile in sul giovenil fiore, E ’n aspetto pensoso anima lieta. Raccolto ha ’n questa donna il suo pianeta, Anzi ’l re delle stelle; e ’l vero onore, Le degne lode e ’l gran pregio e ’l valore, Ch’è da stancar ogni divin poeta. |
Queste qualitá sono assolutamente inestetiche, perché fuori della forma; ed ogni poeta ci si stancherá inutilmente attorno. Laura non può essere poetica che come bella; ma la bellezza era anche concepita secondo un tipo prestabilito. Nello spiritualismo cristiano e platonico il bel corpo è il velo, l’ombra, come dice energicamente Dante, la corruscazione dell’anima. Nel Convito di Dante è esposta questa dottrina con tanta precisione e convinzione, che ben mostra con quali preoccupazioni filosofiche si poetava. Il Petrarca era zelantissimo di Platone e devoto al cristianesimo ancor piú di Dante: sicché s’incontrano nella stessa dottrina.
I due poeti toscani hanno dato a questo concetto tutta quella realtá poetica di cui era capace. Mirano a questo, che il lettore non si arresti nell’immagine, ma l’oltrepassi, rimanendo come dolcemente naufragato in un vago indefinito. Ci è nella bellezza corporale un certo non so che, visibile ma intangibile, che sta nel corpo e appare come un di lá del corpo, senza contorni né determinazioni, di una natura cosí eterea e vaporosa che ci dá una prossima immagine dell’anima: la qual vista opera sull’immaginazione di modo, che il corpo ti si spoglia innanzi di ogni parte terrea e greve, divenuto spirituale, voglio dire simile ad un fantasma, ad un’ombra. Tale è la luce serena dell’occhio, la dolcezza del guardare o della parola o del riso, il foco amoroso del sospiro, lo svolazzar delle chiome la leggerezza o la maestá dell’incesso, questo o quello atteggiarsi della persona, che sono, per dir cosí, suoni musicali, non ancora parole. Certo, ogni bellezza poetica è cosí fatta: l’arte è il regno delle ombre; il corpo per sé stesso è prosa, e, se vuoi renderlo poetico, gli dèi dare una espressione. Ma ne’ nostri poeti quei tratti esprimono l’anima in genere, non in questo o quello stato, quasi placida e ridente bambina, fuori ancora della storia: ond’è che l’impressione presso il lettore rimane indeterminata; ben passa di lá dal corpo, ma in quel di lá non trova niente di fisso e di reale, in cui appoggiarsi.
Laura è la piú bella creatura del Medio evo, e non ha altra vicina che Beatrice. Il poeta ne ha fatta una gloriosa trasfigurazione. Mette principalmente in risalto la serenitá e la dolcezza dei suoi tratti:
Dal bel seren delle tranquille ciglia Sfavillan sf le mie due stelle fide... Pace tranquilla, senza alcuno affanno, Simile a quella che nel cielo india, Move dal lor innamorato riso... Per divina bellezza indarno mira Chi gli occhi di costei giammai non vide, Come soavemente ella gli gira. Né sa com’Amor sana e come ancide. Chi non sa come dolce ella sospira, E come dolce parla e dolce ride. |
La bellezza è non solo nei tratti, ma nelle attitudini; ciascuna delle quali ti presenta l’oggetto sotto un altro aspetto, e gli crea una nuova bellezza. Laura è una bella statua che prende le attitudini piú vaghe. Ora la vedi come un fiore, assisa fra l’erba, ora appoggiata il seno ad un verde cespo, ora andar pensosa cogliendo fiori e facendosene ghirlanda:
Qual miracolo è quel, quando fra l’erba Quasi un fior siede! ovver quand’ella preme Col suo candido seno un verde cespo! Qual dolcezza è nella stagione acerba Vederla ir sola co’ pensier suoi ’nsieme. Tessendo un cerchio all’oro terso e crespo! |
Divina lei, divina la natura. Di rado1 trovi nel Petrarca quello che dicesi bellezza della natura, quel coglierla nella sua vita propria e immediata. La è bella non per sé, ma come eco di Laura, quasi corde che rendano suono tocche da quelle dita:
L’erbetta verde e i fior di color mille, Sparsi sotto quell’elee antiqua e negra, Pregan pur che ’l bel piè li prema o tocchi, E ’l ciel di vaghe e lucide faville S’accende intorno, e ’n vista si rallegra D’esser fatto seren da sí begli occhi. |
La natura alla presenza di bella donna amata perde la vaghezza delle sue qualitá proprie, ed acquista un non so che d’oltrenaturale, un non so che della donna o di noi stessi che comunichiamo a lei, e che in certe epoche chiamiamo poesia della natura, non avvezzi ancora a trovare la sua poesia in lei stessa. Di tal guisa è nel Petrarca, come nel sonetto CXI:
Schietti arboscelli, e verdi frondi acerbe; Amorosette e pallide viole; Ombrose selve, ove percote il Sole, Che vi fa co’ suoi raggi alte e superbe; O soave contrada, o puro fiume, Che bagni ’l suo bel viso e gli occhi chiari, E prendi qualitá dal vivo lume; Quanto v’invidio gli atti onesti e cari! Non fia in voi scoglio ornai che per costume D’arder con la mia fiamma non impari. |
L’essere le viole amorosette e pallide non basta perché le sieno belle: è Laura che le fa belle. E Laura che, come sole, illumina il bosco e lo anima, sí che ei se ne sente insuperbire e ingrandire; fino gli scogli si commuovono e imparano ad amare.2 La Natura è come l’ornamento e la veste di Laura.
Laura è una Dea, non è ancora una donna; voglio farvelo sentire. Ecco innanzi a voi sul palcoscenico un’attrice: chi è costei? Giulietta, Desdemona, Antigone, Fedra, non sapete ancora chi ella sia. Datele le vezzose forme di Laura, quegli occhi, quelle chiome, quel riso, quell’incesso, quelle attitudini; il pittore prende il pennello e dipinge; il poeta guarda ed aspetta. Il poeta dice: — Tu sei forse l’ultima parola del pittore, tu non sei per me che appena la prima parola. Il pittore ti può ben rappresentare, perché ha il colore, che può nell’unitá dello spazio riprodurre l’unitá della tua persona; a questo la parola è fioca, e cento Omeri non valgono un Raffaello — . Ma la parola è un’arme più possente, che può rappresentare quello che pensi e senti. Se non vuoi esser solo una creatura pittorica, se vuoi essere una poesia, parla ed opera. Ecco incomincia il dramma, i suoi gesti si animano, i colori le si alternano sul volto, ella odia, ella ama, ella si sdegna, ella ha paura; dal grembo della Dea spunta la donna, ed il poeta prende la penna. Laura è l’attrice prima che incominci il dramma; non è ancora né madre, né sposa, né amante; non è la tale donna nel tale e tale momento della vita; la sua anima è un libro chiuso, sempre muta, sempre uguale, è quasi ancora natura, non è spirito. Di qui quella quietudine d’aspetto che è proprio della natura, e che esprime assenza di moto o di passione. Certo, questa quietudine, che negli esseri umani si chiamerebbe riposo o calma, è di un alto interesse estetico: è la forma della dignitá e della forza:
A guisa di leon quando si posa. |
Tale è il riposo che trovate nella fronte di un Dio; ma appunto per questo la forma dee essere piena di senso, non una petrificarione; dee supporre un contrasto vinto da una volontá superiore, o la coscienza tranquilla della forza, la confidenza. Laura è onesta, pura, casta; ma queste qualitá rimangono delle nozioni astratte, e non penetrano nella rappresentazione, si che non si può dire propriamente che viva, cioè che si trovi in un tale stato di volontá, con un tale scopo. E in mezzo agli avvenimenti, e ne resta al di fuori; è a contatto colle passioni, e vi si tiene al di sopra; è nella terra, ed alcuna miseria terrena non la tange; non t’aspetti quasi ch’ella potesse morire:
In Dea non credev’io regnasse Morte. |
Bella a farne una statua o un ritratto, bella in un sonetto; ma, a lungo andare, nell’incessante ripetizione delle stesse immagini, ti senti stanco, perché la sua anima rimane vuota di ogni movimento.
Oggi che la poesia ha condotta la storia della donna si avanti, oggi che siamo giunti sino a Fanny e Bovary, Laura non ci può contentare. Quella sopraumana beatitudine, che si traduce nella immutabile serenitá delle forme, ci par fredda e stupida. Ma, se possiamo spogliarci di noi e de’ nostri tempi, non ci faremo senza un vivo interesse a considerare la donna nel suo stato quasi ancora di formazione, cosí come le prime volte è stata abbozzata dalla poesia moderna. Troveremo allora che questa Laura, la quale sembra si povera allo spirito moderno, è la creatura piú reale che il Medio evo, posto quel concetto, poteva produrre, reale come qual altra voi vi vogliate creatura poetica. Reale non solo in sé, ma ben piú nel Petrarca; non in quello che sente, ma in quello che fa sentire, perché, se Laura è una Dea, Petrarca è un uomo. È noto l’amore di un prigioniero per una pianta; quella pianta vive e sente, è una creatura umana nell’anima del prigioniero. Che importa che l’idolo adorato sia un vitello d’oro? quell’idolo ha la sua realtá nella coscienza del divoto. Laura non è un essere che stia da sé; è per il Petrarca e col Petrarca. Per uno sforzo d’astrazione abbiamo potuto scompagnamela, abbiamo potuto interrogarla: — Chi sei? — . Ed abbiamo ottenuto il concetto e la forma astratta di Laura. Ma quelle forme sono intimamente legate con le illusioni e i sentimenti che svegliano; ma queste illusioni e questi sentimenti sono una parte della vita di Laura. La vita di Dio è non pure quello che fa, ma piú quello che fa pensare e sentire e fare all’uomo. Perciò nello spirito del lettore non ci è mai una Laura, o, se ci è, sará fratto di una riflessione posteriore. Nello spirito del lettore, ci è Laura, come sembra al Petrarca, e come opera su di lui; tutto è subbiettivo e Urico. Le chiome d’oro, la luce degli occhi, il suo andare, voi lo vedete in correlazione con le impressioni dell’amante, nelle quali è il principale interesse. Erano passati quindici anni, e Laura non era piú quella, e gli amici si maravighavano come il poeta l’amasse ancora con la stessa tenacitá. — E vero, risponde il poeta, i suoi occhi sono scarsi di luce: forse non è piú tale: ma che fa?
Piaga per allentar d’arco non sana. |
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, Che ’n mille dolci nodi gli avvolgea; E ’l vago lume oltra misura ardea Di quei begli occhi, ch’or ne son si scarsi; E ’l viso di pietosi color farsi. Non so se vero o falso, mi parea: I’ che l’esca amorosa al petto avea, Qual maraviglia se di subit’arsi? Non era l’andar suo cosa mortale, Ma d’angelica forma; e le parole Sonavan altro che pur voce umana. Uno spirto celeste, un vivo sole Fu quel ch’i’ vidi; e se non fosse or tale, Piaga per allentar d’arco non sana. |
Giudicherete male questo sonetto, se vorrete considerarlo come una descrizione di Laura. Ben potete per astrazione raccogliere i tratti di Laura e dire: — £ la centesima volta che ci vengono innanzi quelle chiome e quei lumi e l’angelica forma e il vivo sole: ripetizione di concetti e di frasi — . Ma qui non lo dite; questa Laura tante volte apparsavi qui vi par nuova; sembra che sia la prima volta che la vediate. E la cagione è che queste forme non sono qui raccozzate in sé e per sé, rimanendo al di fuori il poeta, semplice spettatore; ma si mostrano nella tale situazione e con le tali impressioni; il generale è sempre quello, ma, secondo che voi lo mettete in una o in un’altra situazione, diviene un nuovo individuo. Ogni cangiamento nell’anima dell’amante diviene un cangiamento di Laura; perché, se le forme sono le stesse, il loro significato e il loro interesse è altro. Ecco perché Laura, che avete giá contemplata in tanti sonetti, è sempre pur dessa, e pure qui vi fa un’impressione tutta nuova. Ella invecchia, l’amore riman giovine. E testimonianza di questa vigorosa giovanezza è l’immaginazione amorosa cosí tenace e potente, che non vuol cedere alla realtá, che la mette in dubbio, e di rincontro a quella evoca la Laura del primo giorno, e ritrova le prime impressioni della gioventú, il primo entusiasmo, ma non senza una certa coscienza mal dissimulata dell’illusione, come in quell’ingenuo: «qual maraviglia?», ed in quel: «non so se vero o falso»; e non senza un lieve alito di tristezza, che si scopre affatto nell’ultimo. Questo sonetto, immaginato con tanta freschezza e rappresentato con tanto calore e naturalezza, si può chiamare il rêve di Laura: Laura sparita ed evocata, ma con la coscienza ch’ella è sparita.
Laura non è dunque un personaggio rappresentato obbiettivamente, con una propria storia, ma è un’apparizione vagante in un leggiadro chiaroscuro, a cui il poeta non osa mai di alzare il velo, vista a distanza, interpretata sempre e non capita mai, chiara solo negli effetti straordinarii che produce. Apparisce in una forma contradittoria; ora umile, ora altera: cosa è? I critici fanno temerarie supposizioni; anche il povero poeta fa le sue interpretazioni, disaette appena fatte. Il vero è che non lo sappiamo, e che il poeta non lo sa; non può mai affermare: — M’ama, non m’ama — . Questo è il difetto, questa è la bellezza di Laura: di qui nasce un contenuto amoroso, il piú ricco del Medio evo, la storia del Petrarca, che è ad un tempo, e inseparabilmente, la storia di Laura. Laura è un essere che il Petrarca non capisce; ora gli sembra cosí, ora cosí; capisce almeno sé stesso?
Il Petrarca non ha potuto mai conchiudere, se l’amore per una donna sia un peccato o no. Nello stretto senso cattolico, la donna è la tentazione, e l’amore verso di quella è un peccato, in quanto l’uomo volge alla fattura il culto dovuto al Fattore. Ma questa severa conclusione veniva raddolcita dalla interpretazione platonica, che non solo giustificava, anzi nobilitava l’amore. Fu come una specie di transazione tra la donna e Dio. L’amore terreno non dee essere assoluto, ultimo fine, ma via all’amore celeste; si dee amare la donna in Dio e per Dio, d’un amore puro d’ogni concupiscenza. Fra Guittone, che era sincero e credente, non si lasciò persuadere da questo distinguo, e considerò l’amore della donna come contrario al divino, come un peccato, un dolce peccato, di cui sente il titillamento anche in mezzo alla preghiera; non è il suo un ondeggiamento, ma un combattimento altamente tragico tra la ragione e la fede, è la passione, la volontá ricalcitrante: è il fatum della natura umana. Il Petrarca non combatte, ma ondeggia.
In Dante non ci è alcun segno di ondeggiamento. Tutto è chiarezza nella sua intelligenza; tutto è forza nella sua volontá. Fa quello che vuole, e vuole quello a cui crede: nessuna esitazione o discordia interiore; Beatrice è per lui una fanciulla angelica, e si gloria d’amarla con quell’entusiasmo giovanile, che è cosí puro, cosí fuori d’ogni sensualitá; morta, la piange con la disperazione di un primo e solo amore, come tutto fosse morto con lei; e quando si gitta nella vita pubblica, quando s’abbandona con ardore alla scienza, ogni ideale politico, religioso e morale, che gli luce innanzi come faro, lo chiama con amorosa superstizione Beatrice. I contorni del suo amore sono perfettamente disegnati.
Il Petrarca ondeggia. Ora s’applaude del suo amore, ne benedice tutte le circostanze, il giorno e il mese e l’anno (son. XXXIX), e la stagione e il tempo e l’ora e il punto e il bel paese, e il loco, e il primo dolce affanno, e l’arco e le saette e i sospiri e le lagrime, si promette d’amar sempre, chiama il suo amore onesto, esalta l’onestá dell’amata, la ringrazia di tutto il bene che gli ha fatto, d’averlo reso singolare dall’altra gente, amante della virtú e della gloria. Ora maledice al suo amore, deplora il tempo perduto «tra le vane speranze e il van timore», s’indispettisce contro Laura, la chiama superba, l’accusa di civetteria, se la prende con gli specchi consumati da lei, suoi rivali, opera del demonio. Su questa china giunge fino a Guittone; l’amore diventa voglia bassa, cioè la carne o il peccato nel senso cattolico, a cui contrappone la ragione:
La voglia e la ragion combattut’hanno Quattordici anni; e vincerá il migliore, S’anime son quaggiú del ben presaghe. |
Qual vincerá, non so: ma infino ad ora Combattut’hanno, e non pur una volta. |
Fra questi due estremi trovi una grande varietá di gradazioni, che rendono intelligibile il passaggio dall’uno all’altro. Nello stato tranquillo dell’animo il poeta è disposto a rappresentare il suo amore come affatto poetico e platonico, come un omaggio d’ammirazione e di riconoscenza alle virtú di Laura e a’ beneficii che gliene sono venuti. In questa via incontri sonetti di lodi e di ringraziamento, complimenti galanti e spiritosi: stato di contentezza interiore, che dallo scherzo e dalla galanteria s’eleva talora ad una effusione di gioja, ad un esaltamento d’immaginazione che tocca quasi l’entusiasmo. Ama Laura, perché tutti dicono che l’ama, ed egli lo dice a sé stesso; ma in veritá è distratto, lontano da lei, vagabondo in Europa, con ben altre cose in capo e altre impressioni, e la povera Laura è un semplice tema sul quale platonizza: allora è galante e alla moda. Altra volta, onorato, applaudito, e contento di sé e del mondo, vede tutto riso intorno, l’amore di Laura gli fa bene, lo rialza, gli dá coscienza della sua forza, ed ei ne sente orgoglio, lo glorifica, intuona un inno all’amata: ci è qui il platonismo, non piú astratto e galante, ma sincero e personale. Succedono le agitazioni: — M’ama ella? — ed almanacca sopra i suoi gesti piú insignificanti:
Qui tutta umile e qui la vidi altera; Or aspra or piana, or dispietata or pia; Or vestirsi onestate or leggiadria; Or mansueta or disdegnosa e fera. Qui cantò dolcemente, e qui s’assise; Qui si rivolse, e qui rattenne il passo; Qui co’ begli occhi mi trafisse il core; Qui disse una parola, e qui sorrise; Qui cangiò ’l viso. In questi pensier lasso, Notte e di tienmi il signor nostro, Amore. |
Allora perde la pace dell’animo, diviene preoccupato, dissipato, svogliato, si sdegna contro sé e contro Laura; e la chiama dispettosa, e le ricorda che «amor regge suo imperio senza spada»; fa il bizzarro e par stia li li per strappare il freno e prender la mano: sfoghi da innamorato, troppo rari. Poi assume un tono carezzevole e insinuante; mesce preghiere, lodi e dolci minacce e dolci rimproveri; un semplice saluto basta a rilevarlo, anzi l’empie di una gioja fanciullesca, e bisogna vedere con che tripudio e con che gravitá ti narra il fatto (son. LXXIV):
Come col balenar tuona in un punto, Cosí fu’ io da’ begli occhi lucenti E d’un dolce saluto insieme aggiunto. |
Promesse, assicurazioni, proteste, dubbii, timori, speranze, una grande varietá di sentimenti si succede con tanta rapiditá, che ciascuno fa una breve apparizione in un sonetto, e sparisce prima che abbi potuto fissarlo. Sono punture di spilla, impressioni momentanee, di cui spesso non trovi piú traccia in nessun altro sonetto. Eccone un esempio. Rimprovera carezzevolmente Laura che dubiti dopo tante prove del suo amore, in un sonetto affettuoso e verso la fine eloquente, quando nel lontano orizzonte dell’avvenire vede la sua immortalitá e quella di Laura:
Lasso, ch’i’ ardo, ed altri non mel crede; Si crede ogni uom, se non sola colei Che sovr’ogni altra e ch’i’ sola vorrei: Ella non par che ’l creda, e si sei vede. Infinita bellezza e poca fede, Non vedete voi ’l cor negli occhi miei? Se non fosse mia stella, i’ pur devrei Al fonte di pietá trovar mercede. Quest’arder mio, di che vi cal si poco, E i vostri onori in mie rime diffusi Ne porian infiammar fors’ancor mille: Ch’i’ veggio nel pensier, dolce mio foco. Fredda una lingua, e duo begli occhi chiusi Rimaner dopo noi pien di faville. |
Il Petrarca è stato rimproverato di monotonia; gli si può rimproverare piuttosto di passare con troppa incostanza, e quasi di sonetto in sonetto, di una situazione in un’altra. Non ci è altro sonetto, nel quale trovi cenno di una situazione espressa qui con tanta magnificenza. Alfine è stanco, viene l’impazienza, il fastidio, un: — Bisogna farla finita — : sono i momenti d’abbandono e d’umor nero. Vuole e disvuole, dice e disdice, s’allontana e s’avvicina, parte, ritorna, riparte, fugge gli uomini, erra pei campi, cade in malinconia, in vuoto e molle fantasticare, il palliativo della noja è corrosivo non meno di lei. Allora si domanda con un certo sbigottimento: — Cosa è dunque quell’amicizia platonica che lo turba, gli rende impossibile il lavoro? — . Laura non è piú la divina creatura che lo invoglia a gloria e a virtú, ma la fonte de’ suoi mali, il principio della sua perdizione. E pure non può dimenticarla, trascinato contro sua volontá dalla consuetudine, dal primo passo (son. LXV):
ne’ primi empi martiri Pur son contra mia voglia risospinto. Allor errai quando l’antica strada Di libertá mi fu precisa e tolta: Che mal si segue ciò ch’agli occhi aggrada. Allor corse al suo mal libera e sciolta; Ora a posta d’altrui convien che vada L’anima, che peccò sol una volta. |
L’un pensiero giostra con l’altro: la ragione gli dice: «sta su, misero: che fai?» (son. XLIV):
E la via di salir al Ciel mi mostra. Ma con questo pensier un altro giostra, E dice a me: perché fuggendo vai? Se ti rimembra, il tempo passa ornai Di tornar a veder la Donna nostra. |
Una volta era Laura che gli mostrava la via del cielo:
E al Ciel mi guida per destro sent’ero. |
Padre del Ciel, dopo i perduti giorni, Dopo le notti vanamente spese Per quel fero desio ch’ai cor s’accese Mirando gli atti per mio mal sf adorni, Piacciati ornai, col tuo lume, ch’io torni Ad altra vita ed a piú belle imprese... |
Ma questa è tutta una storia artificiale, costruita da me, che ho innanzi un contenuto fatto immobile, come un dizionario, capace d’essere analizzato ed ordinato. Tutto questo c’è, ma senza genesi e senza connessione. Le impressioni esterne, l’umore, gli accidenti, circostanze casuali, svegliano sentimenti, che, prima d’esser maturi e produrre i loro frutti, sono giá sostituiti da altri sentimenti. Quello che nell’ordine logico è il poi, ha potuto ben nella vita essere il prima; sentimenti anteriori rinascono, spariscono, ripullulano sempre. Questa indocile varietá di sentimenti è però nel tutto insieme come una cittá, dove le vie entrano a modo di laberinto le une nelle altre, ed il prima ed il poi si alternano secondo che tu la percorri da un punto o da un altro, ma di cui possiamo assegnare i confini. O il poeta è in uno stato di riposo, che non esclude l’immaginazione, ma dove domina la riflessione; o è compreso d’un entusiasmo platonico; o è agitato da un sentimento che chiameresti quasi una passione: sono i tre contorni, in mezzo a’ quali errano tutti i suoi sentimenti. Ma nemmeno si può dire, che imo di questi tre indirizzi abbia una certa durata, di maniera che possa chiamarlo il suo stato fisso in un’epoca della sua vita: di sbalzo va d’uno in un altro. E perché?
Perché l’anima non si divide, come noi colla riflessione facciamo; perché il Petrarca non è una natura decisa, che segua risolutamente una via; perché ciascuno di quest’indirizzi porta nel suo fianco gli altri due. In una parola, non solo nell’anima del Petrarca ci è un flutto di sentimenti, ma ce n’è ancora la coscienza; egli sa che quel che vuole oggi, non lo vorrá domani, non vuol mai una cosa veramente e compiutamente. Se adora Laura, come una santa, ci è qualche cosa nel tempo stesso in lui, che gli dice che questa Laura egli l’ama come una donna. E se si abbandona all’amore, ci è sempre quel tale qualche cosa, che gli dice, che quest’amore dee rimanere in certi termini, e che guai a lui! se gli oltrepassi. Perciò nessun sentimento si trova nella sua forma ultima e terminativa; niente è gittato alla ricisa e in contorni crudi; trovi nella poesia i se, i ma, i forse, che erano nel suo animo. Adunque disconoscono il Petrarca coloro che voglion farne un platonico o un appassionato; erra tra l’uno e l’altro, e lo sapea, e ci si era cosí avvezzo, che non di rado nella stessa poesia trovi fusi insieme tutti questi indirizzi.
Di che possiamo tirare per prima conseguenza che il Petrarca è sincero: ce lo dimostrano le sue inconseguenze, il suo va e vieni. E poi, che nel Petrarca nessun indirizzo è condotto alle sue estreme determinazioni. La gioja non ha lo slancio lirico di un’anima forte e piena; ed il dolore ha qualche cosa di idillico, non sale mai sino ad una tragica sublimitá. Onde si può considerare come il piú grande de’ trovatori, ed il precursore della lirica moderna. Ha dato un corpo al platonismo, vi ha spirato per entro il calore di un sentimento vero, lo ha purificato di quell’astratto filosofismo, da cui non si è potuto scioglier Dante; ma, d’altra parte, quel sentimento vi sta timido, irresoluto, quasi involontario, lontano ancora da quella possanza, da quella ricchezza e profonditá di gradazioni, da quell’amara voluttá, che trovi ne’ tempi moderni. Resta un sentimento a due facce, che ti balenano ora l’una, ora l’altra, di modo però che nessuna è assolutamente sé stessa, ma ti fa intravedere la compagna, e tutt’e due senti che appartengono allo stesso uomo. Di che nasce quel misto di luce e d’ombra, quel non so che fluttuante e misterioso, che impaccia i critici alla san Tommaso, ma che è cosí vero e cosí attraente.
Questi sentimenti sono tutti reali e sinceri, ma non di tal forza, che rintuzzino le abitudini e i difetti del poeta e lo rapiscano in uno stato d’animo affatto conforme ad essi. Certe frasi convenzionali, certi difetti abituali penetrano qua e lá nelle migliori poesie. Il Petrarca è un po’ come un uomo che per lunga usanza sta con la pipa in bocca anche nel punto che per vera commozione versa lagrime; o, per trovare un paragone meno indegno di lui, è come un critico disposto dal mestiere ad analizzare le sue impressioni quasi nel punto stesso che le riceve. Quei sentimenti egli è disposto a trasportarli nel regno dell’immaginazione, di attore trasformatosi facilmente in poeta. Ed ha la forza di porseli a distanza, di osservarli con una curiositá di artista, di ammirarli e di descriverli. Il che gli vien fatto con piú o meno di successo, secondo che quelli operano piú o meno sopra di lui. Ce ne ha alcuni generati da circostanze esteriori, a’ quali la sua anima rimane quasi che in tutto estranea: e ci si spassa intorno. Ce ne ha che sono affini alla sua natura, e che producono una commozione, quantunque mutabile e superficiale. Questi veduti a distanza sono occasioni e pretesti a edificarvi sopra riflessioni e fantasie; sono reminiscenze, le quali dell’antica impressione non hanno conservato che appena una debole oscillazione. Ma ce ne ha che sono lui stesso, che durano un certo tempo, che spariscono e ritornano piú vivaci, che si vanno ognora piú fortificando, e che finiranno per signoreggiare gli altri e per rivelarsi come la sua vera natura, ciò che di piú proprio e di piú profondo era in lui. Queste non sono mai reminiscenze, perché, anche quando il fatto è descritto come giá avvenuto, l’impressione la sente ancora il poeta in tutta la sua freschezza.
Per mettere dunque un po’ d’ordine nelle nostre investigazioni, noi vogliamo innanzi tutto stabilire, qual sia la forma caratteristica della poesia petrarchesca, indi seguire il poeta ne’ diversi indirizzi pe’ quali va errando, ed abbracciando tutta la serie di sentimenti che ci corre di mezzo, osservare con quanto piú o meno di felicitá ha saputo trasfigurarli e idealizzare.
- ↑ Dico di rado. Altri credono che ciò sia spesso. É una quistione di misura.
- ↑ La natura ne’ quadri amorosi del Petrarca sta come paesaggio o scena accomodata all’azione, e ch’egli anima e rende partecipe delle sue emozioni e delle sue ispirazioni. Ha per la natura quella inclinazione che sentono le anime innamorate e solitarie; e la evoca spesso accanto a Laura, e ne tira suoni giojosi, teneri, malinconici. Questo sentimento vivace, ma poco intimo e poco profondo, riceve qualitá dal suo spirito impressionabile, immaginoso, acuto. E chi vuole determinare quale fu in lui il sentimento della natura, dee innanzi tutto investigare qual era il suo modo di sentire.