Saggi poetici (Kulmann)/Parte prima/L'anemone
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L’ANEMONE
L’irremovibil Fato,
Non che all’uomo, agli Dei
Negò, che liete sempre
L’ore e i giorni scorressero.
5E se la vita tua
Al colmo fosse giunta
Del bello e della gloria,
Non già statti securo
In preda ad alta speme!
10Chè tua fiorente vita
Forse languir vedrai
Pria che fugga la state.
E così avvien talora,
Che de’ fior la reina,
15Nata all’aurora, turbo
A mezzo ’l dì repente
La svelga, e lunge slanci
Dal cespuglio nativo.
— «Perchè negli occhi tuoi,
20Diletto Adone, io scorgo
Una stilla di pianto,
A stento e mal repressa?» –
O fra le Dive prima!
Del mio dolor cagione
25È d’esserti vicino
La non mertata sorte.
E come mai non piangere,
Allor che quest’oscuro
Inglorïoso braccio
30Avvolge le divine
Avvenenti tue forme,
A cui vien men pur anco
La favella de Numi!
Quanto t’invidio, o Alcide!
35Tu al gran Tonante appresso
E pugnasti e vincesti
I rubelli Titani.
E a te gli Dei concordi
Dieder gloriosa palma
40D’aver tornato il regno
Al figliuol di Saturno.
E se fra Dei, mortale,
Siedevi ad Ebe sposo,
In te vider gli Dei
45Dell’uman seme il primo.
– «E che? vorresti forse
Ch’abbandonato fosse
Da noi l’Olimpo ancora?»
Sorridendo rispose
50D’amor la Dea: «La guerra
Arda di nuovo il cielo,
Adon, per certo, l’armi
Tu prode impugnerai,
E in alta fama uscito,
55Il difensor sarai
Di tua tenera amante.
E io con questa mano
A tutti i Numi innante
Intreccerò del mio
60Amato Adon la chioma.
Ma poi che ’l Fato immobile
(Che anco i Numi governa
Imperïosamente)
Propizia o noi comparte
65Giorni di lieta pace;
Godi solo in amarmi,
Ed a fruir le gioje,
Che a te preparo, pensa;
Ogni cura, deh! lascia
70Dell’avvenire incerto.
Già troppe volte è forza
Che rigido dovere
Crudelmente ne tolga
I desiati amplessi.
75Ah! rinunziar potessi
Alla solenne pompa
Di questo dì festivo,
Ed alle preci e ai voti
Delle turbe che stanno
80Prostrate nella polve
Del vasto tempio mio!
Ecco già il fumo s’alza
Dell’odorante incenso,
I pronti sacrifizi
85A te mi tolgon, caro!
Mentre io starò nel tempio
Della lontana Pafo
Ad ascoltar i voti
Delle adunate genti,
90Inseguendo le fere
Nelle selve t’allegra;
Ma non espor tuoi giorni:
Tu a me li devi. Pensa,
Che non le turbe immense,
95Non il solenne canto,
Non le preziose offerte
Potran che un solo istante
Io dimentichi il dolce
Amante riamato.»
100Così diss’ella e l’arco,
Che per piacergli tratta
Con inesperta mano,
Gli rende e poi l’abbraccia.
Si cinge il biondo capo
105Del ricamato velo;
Tarda e ritrosa ascende
L’aurata conca, e lascia
Ai baldanzosi cigni,
Esperti del cammino,
110Le redini, e rivolta
A risguardare Adone,
Sen va fendendo l’aura.
Egli, coi lumi fissi
Sulla partente Dea,
115Sta pallido ed immoto,
Quale candido marmo,
Immagine del duolo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rallenta, o Diva, il volo
De’ rapidi tuoi cigni!
120Pasci, sazia ’l tuo sguardo
Nel rimirar l’amante!
Che tal, misera Dea,
Qual tu lo lasci adesso,
Più non lo rivedrai.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
125Allora che Ciprigna
Era già in Pafo giunta,
E che la dolce speme
Nel magico suo speglio
Al mesto Adon mostrava
130Il rieder della Diva,
Ei, di gloria bramoso,
Così fra sè pensava:
«E sia mai ver, che possa
Tanto amarmi una Dea?
135Venere, amar me, figlio
Della terra e che spento
Sarà forse dimane?
Tu vuoi, Diva, ch’io goda
La pace che ne accorda
140Il placido destino.
Ma al voler tuo, mia Diva,
Sottopormi io non posso.
Forza è ch’io m’esponga
A un periglio che valga
145Ad illustrar mio nome,
Ond’ancor io mia sede
Infra gli eroi ritrovi,
Infra gli eroi che ’l volgo
Simili ai Numi estima.
150Qual è il mortal che attenti
All’amor d’una Dea?
Ed ancor fra le Dive
Di Venere all’amore?
Ed io, cui riserbata
155Fu dal Destin tal sorte,
Consentirei ch’ell’abbia
Ad arrossir, se in cielo
Un rifiutato Nume
Le rammentasse un giorno
160Il debole, codardo
(Che tal mi chiameria),
Inglorioso amante?
Non mai. D’Adone il nome
Per Venere non fia
165Cagion d’onta o di duolo.
Orridi mostri e fieri
Combatterò: fia meglio
Ch’a lor soggiaccia impria
Anzi che Vener deggia
170Arrossendo pentirsi
D’aver Adone amato.
Chè un alto cor, può solo
L’uomo uguagliare ai Numi.»
E in così dir l’aurato
175Bell’arco della Dea
Baciò: quindi nel vago
Di lei giardin l’appese.
Tra le ondeggianti piante
Da zeffiri agitate,
180Quel fiorito ricinto
Un’isola parea,
Che tutta gigli e rose
De’ Numi eletta stanza
Era, qualor scendeano
185Dal cielo in sulla terra.
Poi che di Citerea
Ebbe l’armi sospese,
All’arco avito corse
Ed alle freccie usate,
190Certo di lor vittoria;
La scimitarra indossa,
Del cacciatore audace
O l’ultima speranza
O l’estrema difesa.
195Alfin brandì la lancia,
Che Meleagro istesso
Usò per valli e boschi
In seguendo le belve
Ne’ caledonj monti.
200«Lancia,» ei dicea, «tu credi
Ch’io di te indegno fia:
Ma ben vedrai se al pari
Di Meleagro io sappia
Omai trattarti anch’io.»
205Disse ed ardimentoso
Entrò della foresta
Nel più folto ricinto.
E fra gli innumerevoli
Abitator del bosco
210I deboli sprezzando,
Pugnava contro i forti,
Di sangue ingordi sempre.
Frattanto i sacri cori
In note armonïose
215Dipingono, qual nacque
La vaga Citerea
Dalla spontanea spuma
Dell’attonito mare,
E salì sulle sponde
220D’un’isola che porta
Il di lei sacro nome;
Dipingono, qual prima
Uscì dal sen del mare
Quell’isola, figliuola
225De’ sotterranei fuochi,
Ignudo e nero scoglio
Ai vicini spavento.
Ma il guardo creatore,
Della nascente Dea
230L’involve d’un ammanto
Di variopinti fiori
E d’un ombroso bosco
Carco di frutti d’oro.
Ma Venere quei canti
235Non udiva, gli incensi
E le preziose offerte
Delle divote turbe
Sdegnava, e solitaria
ln mezzo a tanto popolo,
240Adon solo vedeva
«Chi sa dov’ei s’aggira
In grata libertade,
Mentre di mia grandezza
Vittima miseranda,
245Qui prigioniera io seggio,
Cinta d’aurati ceppi?
E questi innumerevoli
Adorator prostrati
Possono forse rendermi
250Gli istanti dilettosi,
Che, con lui sola stando,
Mi goderei felice?
Ed amerammi ei sempre
Con un istesso ardore?
255Chi sa ch’egli nel seno
Di queste mute selve
A caso non rincontri
La cacciatrice Diana,
E sua beltà severa
260Anche per un istante
A me lo tolga? e allora
La casta Diva, accorta
Del suo poter, non tenti
D’accattivar con lodi
265Un generoso core?
O fra le sue seguaci
Una scaltrita e rea
Non lo alletti scherzando,
Gioje e piacer mostrandogli
270Più liberi e più pronti?
Ahi! che mai penso! io misera,
Trasportata da crudo
E sospettoso duolo!
Diemmi egli forse mai
275Un segno d’incostanza?
D’amor, non m’ama ei forse,
Inestinguibil, saldo?
Oh! mio Adon, perdona
Gl’ingiuriosi sospetti!...
280Che veggio mai? caduta
È la purpurea rosa,
Che con industre mano
Egli intrecciommi al crine:
E solo i fior rimasero,
285Di che m’ornàr la testa
Le mie figliuole. Certo
Sventura a me sovrasta!...
Finisci, odiosa festa!
Cessate, eterni canti,
290Interminabil rito!
Le mie angoscie mirate
E pietade de’ miei
Orribili tormenti
Abbiate!... Ah! che fors’egli
295Difende in questo istante
La vita sua, pugnando
Mostro feroce e orrendo,
In queste selve ascoso,
E mi chiama in aiuto!...»
300Gl’ignivomi cavalli
Dell’almo Sol frattanto,
Accelerando il passo,
S’avvicinaro al mare.
E Adon gioía mirando
305Tre lupi, a cui diè morte
Con valorosa mano:
E volto il passo avea
Al florido ricinto
Della divina amante,
310Quand’ecco si presenta
Un giovine cinghiale,
Ch’esce dal folto bosco.
Tosto che il vede, corre
Lo raggiunge e l’uccide.
315Stava lì presso ascosa
La madre, che feroce,
Al grugnir della prole,
Accorre, e furibonda
Si slancia al cacciatore,
320Che trucidava il figlio.
Stupisce e trema Adone
Nel rimirar tal mostro,
Orrendo al par di quello
Con qual pugnò felice
325L’audace Meleagro.
Il giovinetto eroe
A tal pensier si sente
Rinascere nell’alma
Il solito valore,
330E acuto dardo scaglia
Al mostro, che pel duolo
Urlando e dalle fauci
Sangue spargendo e tabe,
Assale il feritore.
335Questi sagace schiva
I colpi delle zanne,
E colla cruda lancia
Nel collo lo ferisce.
Ed ecco il mostro orribile
340Starsi giacente in terra.
Ma innanzi tempo gode
Di non piena vittoria
Il cacciator superbo:
Chè il mostro, raccogliendo
345Sua forza estrema, fiede
Con furibondo dente
Del vincitore il fianco.
Adon, furente e cieco
Il suo dolor non cura
350E a replicati colpi
Il suo nemico uccide.
Ma breve fu la gioia
Di sì bella vittoria,
Chè Adon pervenne appena
355Al placido ricinto
Di Citerea, che privo
D’ogni forza cadeo.
E Venere frattanto,
Accelerando il volo
360De’ suoi candidi cigni,
Giunge e in un punto istesso
Scorge l’ucciso mostro,
E Adon che steso giace
Nel proprio sangue intriso.
365La Diva a tale aspetto
Precipita dal carro,
E sbigottita corre
Al giovine diletto.
Con alta voce grida:
370Adone! Adone! e cupa
L’alta romita selva
Adon, ripete, Adone.
Il giovinetto a stento
I mezzo estinti lumi
375Volge cercando donde
Mesta venía tal voce.
Presso l’amante giunge
La Diva e, inginocchiata
Tenta col velo chiudere
380L’ampia ferita, e il sangue,
Che quasi fonte sgorga,
Pronto arrestar, ma invano,
Chè tanto il vel non puote.
Allor la Dea sollecita
385La folta chioma snoda,
Coll’alito la scalda,
Sulla piaga la preme,
Ma invano. Ed allora
Piangendo esclama: «Il Fato
390Vuole, o Adon, che tu muoja:
Ma tu m’ascolta, o amico,
In questo istante estremo:
No, tutto non morrai!
Gloria acquistar cercasti,
395E d’ora in poi tu chiara
E eterna te l’avrai.
Di Venere le feste
In avvenir il nome
D’Adonide s’avranno.
400Te vedrassi ne’ tempj,
In su gli altari miei
Presso a Ciprigna sempre.
Lo sappiano gli Dei,
Lo sappia il mondo intero
405Che da me fosti amato.
Chiunque a me sue preci,
Nume o mortal che sia,
Rivolgerà, non fia
Pago se me non preghi
410Di te, mio Adone, in nome.»
Qui tacque, ed inclinata
Sul giovinetto esangue,
In lungo bacio e caldo
Accolse la fuggente
415Anima dell’amante.
Dal bel purpureo sangue,
Ch’è misto di Ciprigna
Alla divina lena,
Nacque leggiadro un fiore,
420Anemone chiamato.
Come la rosa breve
È il viver suo, e al pari
Della purpurea rosa
È il più bell’ornamento
425Dell’alma primavera.