Di Venere all’amore?
Ed io, cui riserbata 155Fu dal Destin tal sorte,
Consentirei ch’ell’abbia
Ad arrossir, se in cielo
Un rifiutato Nume
Le rammentasse un giorno 160Il debole, codardo
(Che tal mi chiameria),
Inglorioso amante?
Non mai. D’Adone il nome
Per Venere non fia 165Cagion d’onta o di duolo.
Orridi mostri e fieri
Combatterò: fia meglio
Ch’a lor soggiaccia impria
Anzi che Vener deggia 170Arrossendo pentirsi
D’aver Adone amato.
Chè un alto cor, può solo
L’uomo uguagliare ai Numi.»
E in così dir l’aurato 175Bell’arco della Dea
Baciò: quindi nel vago
Di lei giardin l’appese.
Tra le ondeggianti piante
Da zeffiri agitate, 180Quel fiorito ricinto
Un’isola parea,
Che tutta gigli e rose
De’ Numi eletta stanza
Era, qualor scendeano 185Dal cielo in sulla terra.
Poi che di Citerea
Ebbe l’armi sospese,
All’arco avito corse
Ed alle freccie usate, 190Certo di lor vittoria;
La scimitarra indossa,
Del cacciatore audace
O l’ultima speranza
O l’estrema difesa. 195Alfin brandì la lancia,
Che Meleagro istesso
Usò per valli e boschi
In seguendo le belve
Ne’ caledonj monti. 200«Lancia,» ei dicea, «tu credi
Ch’io di te indegno fia:
Ma ben vedrai se al pari
Di Meleagro io sappia
Omai trattarti anch’io.» 205Disse ed ardimentoso
Entrò della foresta
Nel più folto ricinto.
E fra gli innumerevoli
Abitator del bosco 210I deboli sprezzando,
Pugnava contro i forti,
Di sangue ingordi sempre.
Frattanto i sacri cori
In note armonïose 215Dipingono, qual nacque
La vaga Citerea
Dalla spontanea spuma
Dell’attonito mare,
E salì sulle sponde 220D’un’isola che porta
Il di lei sacro nome;
Dipingono, qual prima
Uscì dal sen del mare
Quell’isola, figliuola 225De’ sotterranei fuochi,
Ignudo e nero scoglio
Ai vicini spavento.
Ma il guardo creatore,
Della nascente Dea 230L’involve d’un ammanto
Di variopinti fiori
E d’un ombroso bosco
Carco di frutti d’oro.
Ma Venere quei canti 235Non udiva, gli incensi
E le preziose offerte