Saggi critici/Settembrini e i suoi critici
Questo testo è completo. |
◄ | Francesca da Rimini | Il Farinata di Dante | ► |
[ 37 ]
SETTEMBRINI E I SUOI CRITICI
Carissimo l’argomento, autorevole il nome dell’autore, io mi misi a leggere queste Lezioni1 con desiderio ardente e con grande aspettazione. Ma questa bella disposizione non... durò oltre le prime pagine; ché il libro a piú a piú mi dispiacque, sí che, come alcuni che visitano Roma, ci entrai ascetico, e ne uscii miscredente.
Queste parole non son mie. Le ha scritte
, che cosi comincia un suo lavoro critico sulle Lezioni del Settembrini.Pochi giorni innanzi mi era capitato uno scritto sullo stesso argomento del signor Francesco Montefredini, irto di osservazioni severe, e parte giá pubblicato per istampa.
Io non aveva ancor letto il libro del Settembrini. Lo aveva sentito molto lodare, e mi ero promesso di usare i primi giorni di vacanza parlamentare per raccogliermi e studiarlo. Intanto pensavo:
— Caspita! La nuova generazione entra in iscena senza molti complimenti. L’«ipse dixit» non ha senso per questi signori, e il principio di autoritá avrà molto a fare per mantenersi salvo. Come vanno diritti a dar la botta! Che aria da giudici prendono! E con che sicurezza buttan fuori la loro opinione! Cautele oratorie, giri ipocriti di frasi che inzuccherino gli orli amari del vaso, convenienze sociali, tutto quest’arsenale di simulazioni e dissimulazioni imposto dalla moda, o, come si dice, dalla buona educazione, è qui gittato via come roba inutile. —
Trovo in questi scritti una perfetta indipendenza di giudizio, ma pure accompagnata con tutte le forme del rispetto. Lo Montefredini mi hanno aria di un duellante che, accingendosi inesorabilmente a tirare un colpo di spada, faccia gl’inchini d’uso all’illustre e autorevole avversario. E poiché il Settembrini è uomo di spirito, cosa altro gli rimane che risponder: — Grazie — ?
e ilDi questi modi franchi, austeri, e insieme civili e inappuntabili non saprei mover lamento; anzi, a dir proprio quello che penso, sarei tentato di rallegrarmene, se avessero a prevalere nella nuova generazione. La sinceritá non è la qualitá predominante della presente generazione, trovatasi in condizioni difficilissime, e costretta ad imparare la difficil arte del simulare e del dissimulare. Settaria quando cospirava, ora che regna non ha potuto in tutto smettere l’antico costume, né la libertá ha potuto indurre negli scritti e nella parola l’onesta e leale franchezza. Finché stai su’ generali, ti si lascia dire; ma se scendi al particolare e tocchi la persona, ti viene il sudor freddo e ti arresti e non ti senti più libero. L’atmosfera in mezzo a cui vivi è tale che, senza saper come o perché, ti vedi tirato a usare le più ingegnose cautele, i più scaltri avvolgimenti ne’ biasimi: arte recata a perfezione nel Parlamento e nella stampa detta seria. Ci è una parola caratteristica, venuta oggi molto in voga, ed è «insinuazione»: cioè a dire un’accusa lanciata con tante scappatoje e sotto cosí mutevoli apparenze, che non vi è parola o frase dove tu possa coglierla, arrestarla e riconoscerla: senti la trafittura e non vedi la spada. Né reca maraviglia che quelli i quali per manco di cultura o d’ingegno si sentono inetti a questi giochi di scherma, a queste finezze e ipocrisie che si chiamano abilitá, corrano all’altro punto, e riescano cosí grossolani e plateali, come gli altri sono scaltri e falsi. Tutto questo non mi par bello: anzi mi sembrano qualitá di popoli in decadenza; in Italia mi pajono avanzi per lunga consuetudine di costumi servili; e se la libertá dee fruttificare, desidero che gl’italiani possano cancellare quell’opinione di falsitá che di essi è sparsa nell’Europa civile, e acquistare i modi schietti e virili che son proprii delle nazioni forti e libere.
Sieno dunque i ben venuti i signori Montefredini e ; e vogliano essi perseverare in questa via, di dire e di operare con perfetta sinceritá, accompagnata con quella urbanitá di gentiluomo, che è la grazia e il condimento del vero. Per noi è troppo tardi: siamo quello che siamo; spetta alla nuova generazione trarre buoni frutti dalla libertá che noi le abbiamo conquistata, la piú preziosa ereditá che si possa lasciare a’ figliuoli.
E c’è un’altra cosa che in questi scritti mi ha fatto impressione: ed è lo stile. La nostra generazione, salvo pochissimi, è piú o meno nello stile arcadica, rettorica, e talora nebbiosa, come gente vissuta fuori della pratica delle cose, e nutrita in mezzo alle astrazioni ed a vaghe aspirazioni. Nel fòro, ne’ teatri, nel parlamento, ne’ diarii, nelle poesie, nelle prose, fino nelle trattazioni scientifiche regna spesso la rettorica, una certa esagerazione de’ sentimenti, un certo lirismo d’immagini, uno scaldarsi a freddo nelle cose piú semplici, e certe consuetudini e maniere di espressione, che sono testimonianza flagrante della nostra poca sinceritá nel pensiero e nella parola e soprattutto ne’ lavori letterarii. Di questa lebbra nessun vestigio ne’ due scritti che avevo innanzi: nel Montefredini la severitá dello stile è tale che rasenta l’aritmetica, con quelle osservazioni addossate senza tregua le une sulle altre come fossero cifre; nello Zumbini lo stile è quieto, uguale, come acqua che vada per la china senza intoppo e senza rumore, e niente vi trovi soperchio e artificiato. Dissi fra me; — Il Settembrini scrive cosí vivo e spigliato: in veritá mi pare che il Settembrini sia il giovine, e i vecchi siano loro — .
Ma è vecchiezza che mi piace, perché nasce non dallo scarno e dall’arido d’immaginazioni povere, ma da un radicale mutamento nel punto di vista. È la nuova generazione che piglia il suo posto con criterii proprii. Prendo ad esempio lo scritto del , non essendo quello del Montefredini pubblicato tutto intero.
Bonaventura Zumbini io l’ho conosciuto giovanissimo in Cosenza, sua patria. Mostrava fin d’allora ingegno pronto e molta serietá di vita. Dopo il 1860 l’ho trovato negli ufficii dell’insegnamento pubblico, e me ne dispiacque. Il professore ufficiale, soprattutto nelle basse regioni, costretto ad insegnare parecchie ore il giorno, e a ripetere la stessa canzone, perde ogni freschezza d’ingegno, non può continuare i suoi studii, e, se la pazienza gli dura, diviene a poco andare quell’eccellente macchina che si chiama «l’impiegato». Peggio ancora se il professore è chiamato ad ufficii amministrativi: dove la scienza è messa in fuga dagl’infiniti pettegolezzi e contrasti in mezzo a cui si trova quel poveruomo che dicesi preside o direttore. Sembra che lo Zumbini siasi presto stancato di questa vita, e chiesta piú volte la sua dimissione, ed avutala, si è oggi affatto ritirato dalle pubbliche faccende e vive solitario co’ suoi cari libri. Frutto di questi ultimi studii è il suo Saggio sulle «Lezioni» del Settembrini e la critica italiana.
Per far meglio comprendere qual sia il suo punto di vista, mi si permetta che entri con lui in dialogo.
— Ecco un nuovo «saggio critico». Mi piace che questo titolo abbia fatto fortuna. Dopo i miei Saggi critici ho veduto comparire saggi politici, filosofici, critici in gran copia. E poiché in quel titolo io volli celare un’intenzione di modestia, sii anche tu il ben venuto col tuo «saggio critico», modesto Bonaventura.
Zumbini. Non molto modesto, signor De Sanctis; anzi metto pegno che, dopo avermi letto, mi troverete presuntuoso.
— Ti ho letto, né fo punto di te un giudizio cosí eccessivo. Anzi, se ti debbo fare una confessione, ho provato un vero gusto a trovare nel tuo libro parecchie idee ed anche un certo metodo di giudicare, dal quale io argomento che tu debba essere della mia scuola.
Zumbini. Se si tratta di farvi piacere, non voglio dirvi di no. Ma, se debbo dire il vero, io mi son messo a un punto di vista superiore a tutte le vostre scuole. Voi dite la veritá, ma non tutta la veritá.
— Sia pure. Ma una scuola non è che un complesso d’idee, intorno a cui si aggruppano parecchi. Questo non impedisce che i discepoli possano modificare, sviluppare, compiere, chiarire. Ma fin che la base riman quella, riman la scuola.
. Chiedo scusa; ma io ho una piú nobile ambizione; voglio divenire un caposcuola io.
Dimenticavo che sei un meridionale. Presso di noi ciascuno è un caposcuola, e gli uomini piú illustri non hanno potuto mai raccogliere intorno a sé tre o quattro seguaci che si gloriassero di esser detti discepoli e li accettassero come loro capi.
Zumbini. Segno che a questi illustri è mancata quella forza di attrazione che è atta a fondare una scuola. Del resto, voi siete giá la vecchia generazione, una storia passata. Noi cominciamo pur ora: lasciateci libero il sole, lasciateci la libertá e l’indipendenza del giudizio.
— In somma, cosa pretendete voi altri, voi, la nuova generazione? Siete giá in istato di ribellione? Ci dichiarate guerra? Badate. Siete ancora troppo giovani, e ci vogliono altri omeri, altri studii. Il tuo saggio chi lo legge? Del libro del Settembrini abbiamo giá la seconda edizione.
Zumbini. Storia vecchia codesta. Monti era celebre quando Leopardi era ignoto. Ma voi precorrete troppo a’ tempi. Per ora non vogliamo mover guerra a nessuno. Vogliamo la libertá di verificare le vostre idee, di non lasciar passare il vostro sistema se non dopo il debito esame. Questa verifica voi non l’avete fatta. La vostra generazione è figlia dell’ontologia, procede «a priori». Sono famosi i vostri castelli in aria, le vostre costruzioni artificiose battezzate filosofia della storia o dell’arte, i vostri sistemi bene architettati e tutti di un pezzo, e l’Ente e l’Esistente e l’Idea e il Bello e il Vero tirati in mezzo alle vostre lotte come gli Dei di Olimpo, e costretti a servire alle vostre passioni. Avete compiute di grandi e belle cose; ma appunto per questo vi è mancato il tempo di far tutto con maturitá e diligenza; e le vostre idee e le vostre opere portano l’impronta della fretta e del provvisorio. Prima di lasciar entrare roba tanto sospetta, permetteteci che noi l’arrestiamo al passaggio e domandiamo di verificarla. Prendiamo ad esempio la letteratura italiana. Gioberti ci assicura che quello che è ivi eccellente è tutto opera del Cristianesimo. Ora eccoti il Settembrini che dice per l’appunto il contrario. A chi credere? E tutti e due sono dommatici ed eccessivi, e quantunque citino spesso la storia, non è difficile a vedere che hanno giá una opinione bella e fatta, e la storia ci sta a pigione. Oltreché, anche i piú inesperti fiutano subito qualche cosa di non filosofico e di non perfettamente sincero in queste opinioni improvvisate per il bisogno della battaglia, e insinuate piú da fini e passioni politiche, che da tranquille meditazioni. La scienza mal si riconosce in queste vostre lotte di classici e romantici, di neocattolici e razionalisti, di empirici ed ontologi, dalle quali non è potuta uscire la veritá che mutilata e difformata. Innanzi a tante contraddizioni la nuova generazione e non si ribella e non nega, ma, entrata in sospetto de’ vostri metodi e delle vostre costruzioni ideali, è ben risoluta a non lasciar passare nessuna opinione senza verificare la sua origine, la sua natura e la sua conformitá co’ fatti. Domandiamo troppo?
— La domanda è onesta. Non negate, ma dubitate. Volete rifare Cartesio e Bacone. Gli è un tornare indietro, mi pare.
. Anche su questa faccenda dell’andare avanti o del tornare indietro non siamo d’accordo, forse. Talora ciò che si dice regresso è un progresso bello e buono. Ma lasciamo star questo, che è corda oggi fuori di luogo, e di politica non mi voglio brigare.
— Bene. Verificate pure. Ma pensate che la via del verificare è lunga e malagevole. Troppi studii ci vogliono e troppo tempo. Cartesio se ne stancò, e, cominciato col voler tutto verificare, finí anche lui con l’improvvisare. Se la nuova generazione attiene questa promessa, se mette nelle industrie, ne’ commercii, negli studii positivi e di fatto quell’energia che noi abbiamo posta nelle cospirazioni e nella speculazione, ci rinneghi pure e passi sopra il nostro corpo..... Sia benedetta! perché lá è la salute.
. Del resto, sta’ tranquillo. Fatta la verifica, avremo anche noi la nostra filosofia, la nostra fede e le nostre lotte.
— Oimè! come corri con la fantasia! Giá questa verifica non mi par piú cosa salda. Per una buona e seria verifica non basta una vita d’uomo, e tutta l’opera di una generazione non è soperchia.
Zumbini. Vorreste dunque condannarci a stare tutta una vita fra date e cifre? Una filosofia bisogna averla. Senza fede non ci si può vivere.
— Allora, transigiamo. Accettate le nostre idee provvisoriamente, ché, finché l’umanitá cammina, niente è definitivo e tutto è provvisorio; e intanto studiate, studiate, verificate. È il meglio che avete a fare. La realtá ha ancora molti suoi recessi inesplorati, e serba inviolati gran parte de’ suoi misteri. Iside si svela all’audace che le si avvicina. Quelli che speculano di lontano, non veggono che ombre.
Zumbini. Dunque?
— Dunque, lasciateci in pace. E in luogo di pensare a noi, studiate e verificate.
Zumbini. E se io vi dicessi che studiando e verificando, ci sentiamo intanto, naturalmente e solo perché venuti dopo, in un punto piú alto che non è quello in cui vi siete collocati voi, ci sentiamo perciò vostri giudici e vostri maestri? Voi siete vissuti in lotte perpetue, in un inevitabile dualismo: chi di voi dice bianco, l’altro risponde nero: siete due campi opposti, vittoriosi or l’uno or l’altro, sempre vivi e sempre a fronte. Noi, venuti dopo, estranei alle vostre lotte, puri delle vostre passioni, abbiamo sulle labbra, con vostra venia, un certo sorriso, che significa: — Avete tutti torto e ragione; la veritá è un po’ dappertutto, ma dappertutto esagerata ed offuscata — . Questo possiamo dirvelo, mi pare, fin da ora, e non ci è bisogno per questo di studiare e di verificare.
— Hai cominciato col dubbio cartesiano. Ora navighi in pieno eccletismo. Ma è una meschinitá, scusa, fare il processo al passato, tagliando o aggiungendo, e dire: — È la veritá, ma non tutta la veritá, — ovvero: — La veritá è un po’ dappertutto, ma esagerata — . Questa specie di juste milieu, se può esser talora cosa comoda nelle faccende pubbliche o private, è nella scienza indizio d’impotenza e di sterilitá, o almeno di stanchezza. Ammettiamolo pure per la nuova generazione, ma come stato transitorio, come ginnastica intellettuale e serio apparecchio a nuova produzione. Voi potrete seder giudici ed arbitri in mezzo a’ due campi opposti quando avrete saputo trovare un punto di vista piú alto, in cui si riconciliino e si amichino le differenze. E per questo non basta tagliare o aggiungere, bisogna produrre.
. Questo verrá. Per ora non potete toglierci quel tale sorriso, che significa: — Noi guardiamo le vostre idee con occhio piú imparziale e piú sicuro, appunto perché fuori della lotta — .
— Sorridete pure. Badate però ad essere gente seria, e che non ridiamo di voi. Se volete verificare, dovete bene studiare e comprendere le nostre idee. E se volete mettere a posto la nostra generazione, e assegnare a ciascuno il torto e il diritto, vi è mestieri innanzi tutto di assimilarvela e farla vostro sangue. Il dubbio significa studiare. E l’eccletismo, quel dare a ciascuno il suo e togliere le esagerazioni, tagliar di qua, aggiunger di lá, significa ancora studiare. L’eccletismo in Francia fu un’epoca splendida, perché accompagnato con severi studii critici e storici. Si giudicava Platone, ma si traduceva Platone. E quell’epoca di erudizione preparò una nuova produzione. Promettete voi di fare altrettanto? Allora, siate benedetti! La nuova generazione comincia bene. Per me, son tentato di esclamare, come Ettore: — Possa la nuova generazione salire tant’alto, che cancelli ogni memoria di questa! — . E possa il nuovo Leopardi far dimenticare Vincenzo Monti!
E qui, lasciando stare il dialogo, mando un saluto al mio Bonaventura, e gli dico schiettamente che il suo scritto ha avanzata la mia aspettazione, e che scorgo in lui quel veder le cose da alto ed in una vasta sintesi, che è proprio degl’ingegni non volgari.
Ora può esser chiaro con quali intendimenti e con quali criterii i due giovani campioni della nuova generazione assaltano rispettosamente il Settembrini. Il Francesco Montefredini si mette in cattedra e gli fa una vera lezione di storia, e non glie ne mena una buona: è il sistema della verifica, applicato al Settembrini, punto per punto, particolare per particolare. Lo generalizza, e riassume il suo giudizio in questo modo:
Veramente l’intelligenza della storia non importerebbe qui gran fatto; ma il Settembrini c’insiste tanto che ne fa, come dire, il suo cavai di battaglia. Io dirò col massimo rispetto e nondimeno con franchezza intera... Nessuna parte del suo lavoro parmi sbagliata piú di questa. Se io non m’inganno, l’illustre professore non ne ha compreso né quella varietá di elementi che formava la societá del Medio evo, né nessuno in particolare di quegli elementi, ciascuno de’ quali per piú secoli cercò di sormontare gli altri: non il Cristianesimo,... non i Comuni, non l’Impero; egli non ha compreso né la lotta d’allora, né l’armonia posteriore, che è il carattere principale della civiltá moderna.
Ho voluto riferire questo luogo come saggio della forma di scrivere dello Zumbini. La severitá de’ giudizii vi è sempre accompagnata con la piú squisita cortesia, con una calma perfetta di esposizione. Si sente in mezzo alle piú crudeli conclusioni l’uomo ben educato, quella cert’aria d’imparzialitá e di spassionatezza, congiunta col rispetto, che ti concilia anche gli avversarii.
Ma la parte storica è un semplice incidente nel lavoro del nostro Zumbini. Egli assalta il Settembrini nella parte sostanziale della sua opera, chiamando a sindacato il suo principio e il suo criterio critico.
L’idea fissa del Settembrini è che nella lotta del Papato e dell’Impero stia l’anima di tutta la nostra letteratura, e che, essendo stata questa lotta piú importante e piú durevole in Italia, la nostra letteratura ha perciò maggior valore e maggiore importanza che tutte le altre di Europa.
Il principio adunque del Settembrini è questo: che il contenuto sostanziale della nostra letteratura è la lotta contro il Cristianesimo, o piú propriamente contro il Papato in favore della liberta e dell’unitá nazionale; e il suo criterio è questo: che l’importanza e il valore di una letteratura dipende dall’importanza e dal valore del contenuto.
Cosi lo
ha messa la quistione; e l’averla messa cosí, l’aver saputo cogliere il sostanziale in tanta congerie di fatti e d’osservazioni, è prova indubitata di singolare attitudine sintetica.Ora lo Zumbini non contraddice al principio del Settembrini, ma lo trova insufficiente, trova che in questo letto di Procuste non può condannarsi a star tutta la vita italiana e tutta la letteratura, senza che la sia mutilata e guasta.
Queste mutilazioni ispirano allo Zumbini le seguenti considerazioni:
Che si ha a intendere per vita? Certo, i pensieri, i fatti, le passioni e fin gli errori onde un popolo è e si muove. E nondimeno non pochi, storici o critici, mi somigliano il diavolo di Malebolge che rimette i dannati al taglio della spada: cosí trattan quell’organismo che è la vita di un popolo. Ne disgiungono i diversi elementi, ne pigliano alcuni o il solo che piú loro garbi, e dicono: — Ecco la vita — . Ma no: questa non è la vita, per la ragione stessa onde un solo raggio non è la luce. E poi, quell’elemento, divulso come un ramuscello dal suo albero, neppure è conservato nella sua genuina natura: vi si mette quanto piú si può dell’oggi, e si dimentica che l’umana gente cammina perché l’idea d’oggi non è piú l’idea di ieri. Vedete: nel secolo XIV ci è, tra tante altre cose, la guerra che i piú alti di mente e di cuore faceano alla corruzione del sacerdozio. Ebbene, questa guerra è tutta la vita. Non basta; questa guerra, compresa a modo, non è che guerra al Cristianesimo stesso. Non importa che la facessero anche alcuni fra gli stessi uomini della Chiesa, che santa Caterina gridasse piú alto di tutti contro le colpe de’ papi, non importa: si combatteva proprio il Cristianesimo. Cosí della cosa si esagera un lato, e si trascurano gli altri. Cosí della vita vi si presenta tale un’immagine, che mi ricorda certi ritratti sotto cui bisognerebbe scrivere: questi è tal di tale. Io non intendo dire che cosí sempre e cosí appunto faccia il Settembrini; ma mi sembra ch’egli appartenga a questa scuola, e con le intenzioni piú generose non riesce a cose migliori.
Or questa mutilazione della vita è il fenomeno di tutti i secoli battaglieri, in cui gli avversari veggono ciascuno le cose da un lato solo; è il carattere del nostro secolo militante, è il frutto della Rivoluzione francese che dura ancora. Ma il pacifico
, vissuto fuori delle nostre battaglie, è stanco della rivoluzione, e invoca la fine, invoca tempi tranquilli in cui un onesto uomo possa dire non solo la veritá, ma tutta la veritá. Indi quel suo sorriso scevro di malizia e di amarezza, con che contempla la miseria delle nostre lotte, e quel dire al Settembrini: — Le vostre intenzioni sono generose, ma voi siete fuori della storia e fuori della vita; voi rassomigliate a’ diavoli di Male bolge, e i vostri ritratti son tali, che sotto bisognerebbe scrivervi: questi è tal di tale — .Fuori della storia! e fuori della vita! Fosse anche il Settembrini fuori della critica? Sissignore. Anzi è questo, secondo lo Zumbini, il suo fallo principale. Fuori della critica.
Il criterio critico del Settembrini è che una letteratura ha piú o meno valore e importanza secondo che il contenuto è piú o meno importante. Cosi a parer suo il valore della Divina Commedia è non nella lettera, ma nell’allegoria, ovvero nel contenuto espresso in forma allegorica.
A questo criterio, che, secondo lo Zumbini, guida nei giudizi non pure il Settembrini, ma il Gioberti, il Tommaseo, il Giudici e quasi tutt’i critici italiani, egli oppone l’altra teoria che è l’arte per l’arte. L’una teoria dice: — Il contenuto è tutto; l’arte è nulla — . L’altra dice: — Il contenuto è nulla; l’arte è tutto — . Lo Zumbini si ficca in mezzo a’ combattenti, e con quel suo sorrisetto li arringa cosí: — Fate la pace, ché tutti avete torto e ragione; le vostre teorie sono assolute; la veritá è nel giusto mezzo; l’arte è gran cosa, ma il contenuto è esso pure qualcosa, e non si può trascurarlo, e reputarlo quasi indifferente. E ve lo mostro io — . E prendendo ad esame la Divina Commedia, piglia arte e contenuto, e, come fossero i colori della tavolozza, li distribuisce e li mescola in giusta misura.
Qui lo Settembrini e prende a discorrere dello stato della critica in Italia, e vi trova due scuole: la vecchia critica al modo del Settembrini, sorta «in un periodo di rivoluzione», che giudica l’arte dal suo contenuto; ed una critica nuova, che giudica l’arte co’ criterii dell’arte, e trascura quasi del tutto il contenuto2.
lascia ilLo
appartiene a questa nuova critica, e spera il suo trionfo dalla libertá. Il suo scritto finisce con queste notevoli parole:
A’ bisogni della nostra critica provvederá ora la libertá. Per essa rifioriranno gli studii filosofici; e la critica che si fonda sull’indipendenza dell’arte, non sará, come oggi pare a molti, una critica sentimentale, ma fondata anch’essa sopra base razionale. Per la libertá eziandio, ed anche piú prontamente, comincerá a parere se non piú necessario, certo non piú bello e generoso, e, debbo dirlo? non piú liberale il costringere l’arte a parlare un linguaggio non suo, il sommetterla a leggi diverse dalle proprie. Finirá in somma anche per la critica il periodo di rivoluzione, il quale, secondo alcuni, fra cui sommo il Settembrini, par che debba continuare con maggior lena, e, secondo me, ha durato giá troppo.
Dunque il Settembrini è fuori della storia, fuori della vita, e soprattutto fuori della critica. Cosa rimane al povero Settembrini, cosí concio? Cosa è il suo libro?
È un libro..., risponde lo Zumbini, assai ben fatto e piacevolissimo a leggere. Per questo rispetto parmi anzi un modello di scrivere schiettamente italiano e insieme non artificiato, ma spontaneo ed efficace, due pregi che non si trovano sempre congiunti ne’ nostri moderni, alcuni de’ quali salvano la puritá della lingua, ma uccidono il lettore. E ci è inoltre uno squisito sentimento dell’arte, il quale, quando non è fuorviato dall’idea preconcetta, esce in giudizii delicati ed osservazioni giudiziose. Ma...
Ed eccoti un «ma» formidabile, che è un manrovescio e gitta a terra l’avversario. Tutto il libro dello Zumbini è un «ma» in permanenza.
Ma scritto con tal garbo, con tale un’aria non mentita di riverenza, con una cosí naturale e costante imparzialitá e serenitá di spirito, che sentivo affezionarmegli, e non pensavo punto al Settembrini; pensavo allo , e mi veniva la voglia di adempiere con lui il grato ufficio rimasto oramai a noi altri, vecchia generazione, di prenderlo per mano, e condurlo innanzi al pubblico e farlo conoscere.
Tra queste impressioni e questi desiderii, ecco giungermi il secondo volume del Settembrini, ed ecco da un’altra parte venirmi il primo volume. Il libro condannato eccolo innanzi a me tutto intero. Io leggo.
Leggo, ed ho giá dimenticato Montefredini, Zumbini, e la verifica e il giusto mezzo, e la mutilazione della vita e la storia e la critica. Leggo, e non mi posso piú staccare da questo libro magico, dove non trovo niente di nuovo e tutto mi par nuovo.
— Ma questo non è un lavoro di scienza, è un lavoro di arte — ho gridato io, giunto alla fine; — oh, Zumbini! come hai potuto dissertare di contenuto e di giusto mezzo innanzi a questo libro! —
Mi sono ricordato del giudizio del Gervinus sopra l’Alfieri ed il Foscolo, e della mia risposta.
Vogliamo giudicare del Settembrini? Bisognava non ritirarsi dalla battaglia, ma starci entro, e farsi la sua ombra, e seguirlo in tutti gli eventi della lotta, e studiare il suo carattere, le sue passioni, la sua cultura, le sue inclinazioni, il suo genio. Cosí ti stará innanzi l’uomo vivo, in mezzo a’ vivi, e vedrai la sua opera cosí com’è stata concepita, e non come la ti parea in astratto.
Luigi Settembrini io lo trovo la prima volta in Catanzaro, ch’era ancora assai giovane, e giá maestro di lettere in quel Liceo. Era una buona posizione, come dicono oggi, e, come dicevano allora, era un pane assicurato per la vecchiaja. Ma gli era «un matto»: epiteto che si regalava allora a quanti mettevano in pericolo quel pane della vecchiaja. Fin d’allora si rivelarono in lui due uomini, il letterato e il patriota; cosí immedesimati, cosí l’uno nell’altro, che non si possono scindere, senza mutilarlo o frantenderlo. A Catanzaro insegnava e cospirava, distribuendo le ore della giornata con pari zelo nell’uno e nell’altro ufficio. Uscito di prigione, lo trovo in Napoli, sotto «vigilanza» della polizia, un po’ più cauto, ma sempre matto ed anche un po’ aizzato. Maestro privato di lettere latine e italiane, venne presto in fama di scrittore corretto e pieno di buon gusto; che era a quel tempo la maggior lode che mai si facesse a letterato. Il giorno spiegava gli ablativi in «abus» di Lorenzo Valla e il veltro e la lupa di Dante; la notte viveva in mezzo alle deliziose agitazioni degli occulti ritrovi, da cui sorse la Protesta, un libretto di poche pagine, serrato, rapido, pungente come uno stile, rimaso parte indimenticabile della storia italiana. Scontò il delitto con lunga prigionia, a’ cui ozii sì dee l’elegante volgarizzamento de’ Dialoghi di Luciano. — Carlo Poerio e Luigi Settembrini rimasero le due più simpatiche figure della rivoluzione napoletana, e più cresceva l’odio al Borbone, più la loro immagine ingrandiva. — Vennero i fatali. Scacciati i Borboni, fatto il plebiscito, acquistata l’unità nazionale e la libertá, finita la lotta. E senza lotta il Settembrini è infelice, il Settembrini è un mezzo uomo: resta in lui solo il letterato. Molto si è dimenato per trovare sfogo a quell’altro uomo che pur vive in lui e strepita e vuol farsi vedere. Ora si accapiglia col Ministero di pubblica istruzione, e scrive il Pallottoliere e la Lettera al Mamiani; ora dà addosso ai consiglieri comunali, che lo lasciano dire e fanno a modo loro; ora minaccia perfino di passare all’opposizione, ma lo tengono per l’abito, e rimette la cosa al dimani.
Il Settembrini si è sentito di nuovo felice il giorno che il papa ha lanciato nel mondo il Sillabo ed ha scomunicato il progresso, e che il Governo italiano ha fatto cenno di entrare in accordi col papa. Non che il Settembrini voglia Roma capitale d’Italia. Roma gli sembra città cosí appestata, cosi scomunicata, che per lungo tempo la vorrebbe rilegata tra’ musei, come Pompei o Ercolano. Ma egli non vuol sentire a parlare di papa e di prete. E quando vede il prete rizzarsi di rincontro a lui con in mano il Sillabo, ritrova la sua gioventù, ritrova quell’altro suo uomo che stava a spasso, ritrova sé stesso tutto intero, e rientra nella lotta.
— Settembrini, perché non scrivi più nel giornale? — Settembrini, vuoi essere centro destro o centro sinistro? — Settembrini, devi pur fare un programma a’ tuoi elettori. — E Settembrini risponde: — Lasciatemi stare: scrivo la Storia della letteratura italiana — .
Che cosa è questa Storia? È un grido di guerra. È la seconda Protesta. Ed è insieme l’espressione più alta della sua coltura letteraria. È tutto il Settembrini, il riassunto, l’epilogo della sua vita: il patriota e il letterato.
Il Settembrini è l’immagine, se non compiuta, certo schietta del radicale italiano. Tutte le idee politiche, religiose, morali, critiche messe in circolazione da’ nostri radicali in mezzo secolo sono per lui articoli di fede, sono state il suo latte, il suo nutrimento. In tutto ciò che ha pensato e voluto e fatto, egli si è sentito accanto tutti i grandi italiani, che hanno fatto e voluto e pensato il medesimo. Unitá nazionale, libertá, emancipazione della ragione dalla fede, sono l’anima di tutta la nostra storia, la sostanza della nostra civiltá: tutto che riman fuori, è barbarie. Il gran nemico è il prete, e con lui non vuol pace né tregua. Rimangono ancora nella memoria le tre parole nelle quali scolpí il regno di Ferdinando: il birro, la spia e il prete.
Ma dico male: idee. Queste non sono per lui dottrine studiate, cercate, formulate: sono idee trovate giá belle e pronte, raccolte e divenute sentimenti efficaci e operosi. Natura appassionata e di una viva immaginazione, ciò ch’egli pensa non è un pensiero, ma un’immagine, ch’egli odia o ama. Portate a questo segno, le idee non sono più una dottrina di cui sia lecito dubitare, ma sono una religione superiore alla discussione, che ha anch’essa il suo vangelo e i suoi apostoli e i suoi mártiri. Indi quella forma di esprimerle cosí poco discorsiva e dubitativa, a modo di dogma e di sentenza, che tanto ti colpisce nel Settembrini. Mai non lo vedi arrestarsi, o dubitare o esitare: mai non lo cogli che stia raccolto e pensoso innanzi a qualcuno de’ piú importanti problemi della storia, e che investighi o fantastichi o si profondi tanto che la realtà gli vacilli come ombra, mai; questo stadio è oltrepassato: altri hanno pensato per lui; il pensatore non ci è piú: ci è il discepolo che ha raccolta la dottrina, e sta li non ad esaminarla, ma a propagarla e difenderla. Ciò che si move dentro nel suo animo, non è l’inquietudine o la profonditá del pensiero, ma la contraddizione, l’amore de’ seguaci, l’odio degli avversarii. Oggi Ferdinando non é piú: quel fervore di libertá che accendeva il petto del patriota, si è calmato, perché si è appagato: quella corda si è spezzata. Ma resta il papa, il prete, il gesuita, il paolotto, il neo-cattolico, il neo-guelfo; e nel petto del patriota vibra ancora una corda, che suona furiosamente e vuol farsi intendere.
E col patriota si accorda mirabilmente il letterato. Nella mente del Settembrini non può entrare ciò che è vago, o impalpabile, o vacillante, o nebbioso; ciò che il patriota chiama il cattolicismo o il monachismo, e il letterato chiama il romanticismo. Egli è classico, anzi è un pagano puro sangue. La sua frase è netta, lucida, plastica, perfettamente determinata; va diritto e rapido e non si distrae e non guarda obliquo: gl’incresce abitare nelle pure regioni del pensiero, e, come Giove, se ne sta più volentieri in terra, amando, odiando, e non cura l’Olimpo, e guarda Europa e Danae. Queste invasioni germaniche di estetiche e di filosofie, questo gran fracasso d’«Ideali» e di «Celesti», tanta onda di spiritualismo è passata sul capo del Settembrini come una cascata, e non se n’è accorto. Se gliene parli, ti guarderá con quel suo risolino cosi bonario, che pare scemo, ed è pieno di senso, e significa: gli è stata una nuova invasione di barbari. Egli ha paura di questo mondo dell’astrazione o del puro pensiero, perché teme incontrarvi il cattolicismo, il papismo, il monachismo, il gesuitismo e il paolottismo, come gli americani avevano paura del Paradiso, perché temevano d’incontrarvi gli spagnuoli. È rimasto perciò abbracciato con Danae, ben inteso, allegorica, o, per parlare più corretto, con Giunone, e ciò che non è Giunone, reputa ombra e nube, una falsa apparenza entro cui sta appiattato un gesuita o un paolotto. Giunone è la realtá, il concreto, il palpabile, tutto ciò che un galantuomo può abbracciare con l’occhio, e può odiare o amare. Il pensiero è per lui un avvenuto, un presupposto, entrato nel suo animo non si sa come o quando, e ammesso senza esame di ammissione, senza il titolo della sua esistenza. Un pensiero cosí fatto non è pensiero, ma è immagine e sentimento; non è scienza, ma è arte; è buon senso illuminato dall’impressione e guidato dal gusto. In questa regione il Settembrini è sovrano, e pochi gli possono contendere il primato. Il suo orizzonte non è ampio, ma è a contorni perfettamente disegnati; la sua concezione non è profonda, ma è piana e lucida come una superficie ben levigata; il suo intelletto ha una certa naturale dirittura, che lo tien lontano da ogni sottigliezza e gli fa sentire quasi istintivamente il vero, quale apparisce al buon senso; la sua impressione è quasi sempre giusta e netta; il suo gusto per finezza e delicatezza rivela un’anima artistica ed educata da buoni studii. Aggiungi, qualitá rarissima oggi, una perfetta sinceritá, che io chiamerei quasi l’onestá dello scrittore: in quello che gli esce dalla penna ci è subito lui e tutto lui, com’è in quel momento, e mai non vi sorprendi un secondo fine, un riguardo, un desiderio di fare effetto, un chiaroscuro, un’ombra, una forma equivoca: tutto è luce, tutto è lui; la sua anima è tutta fuori, in vista di tutti, e naturalmente, senza che egli lo voglia o lo sappia, fino nelle sue più minute inclinazioni: senti qua dentro, in questo libro non solo l’italiano, ma il napoletano, e ti par talora di stare a Posilipo, fra tanta voluttà di cielo e di marina, e sentir Pontano cantare:
Amabo, mea chara Fanniella, Ocellus Veneris decusque Amoris, Iube, istaec tibi basiem labella, Succiplena, tenella, mollicella. |
«Questa è poesia tutta greca di bellezza e tutta nostra per vita», conchiude il Settembrini.
Chi vuole avere un esempio dove giunge il Settembrini, in quale regione rimane, e come giudichi, e come si esprima, legga quello ch’egli dice del Boccaccio. La forma del Boccaccio è voluttuosa. Questa forma è cosi descritta da Paolo Emiliani Giudici:
Il maggiore, e forse il solo vizio che l’offende, sta in quelle contorsioni di periodi, in quelle giravolte sdolcinate, in quel voluttuoso disseminare di particelle significanti nulla, che ora legano ora slegano i membretti, sia per solo amore di armonia, sia per presentare il pensiero in tutti i lati, e non solo esprimere l’idea, ma le ideette che vi rampollano intorno; ed è tal vezzo leggiadro, tal vezzo artificiato, che solo che avanzi di un capello, come lo provò il folto e belante gregge de’ suoi imitatori, diventa smorfia insoffribile.
Il Settembrini trova che questo non è un vizio, ma una virtù, e dice a questo modo:
La rettorica c’è, ma piace; le trasposizioni ci sono, ma c’è ancora nel periodo un’onda sonora, un’armonia, una commettitura nelle parole, certi troncamenti, certi suoni, certi balzi, e strisciare e saltare e dondolarsi, e come il camminare di una donnetta che tutta si spezza nella vita. Questo nel Decamerone mi piace, e fuori il Decamerone no. Perché dunque mi piace? Se ne trovo una cagione razionale, questi difetti saranno bellezze.
Il Boccaccio è il pittore della voluttá! Il voluttuoso cerca la quintessenza del piacere in ogni cosa, la trova dove altri non crede, nelle vesti, dipinte a varii colori, ne’ cibi, negli odori, in tutto; e come la trova, ei la sugge a poco a poco perché ella duri: quello che per altri è niente, per lui è prezioso, ed ei vagheggia quel niente, e vorrebbe averne diletto con tutti i sensi: quello che per altri è prezioso, perché nutre l’intelletto, per lui è niente; ne spreme un po’ d’essenza piacevole, se ve n’è, poi lo getta via. La espressione della voluttà deve essere anch’ella voluttuosa, vezzosa, senza quella semplicitá che, se è bellezza per l’intelligenza, è rozzezza pel senso; dev’essere abbagliante, manierata, abbigliata ed azzimata come persona voluttuosa. E cosí è stata necessariamente, ed è. Gli erotici greci che dipingono l’amore voluttuoso, sono tutti ammanierati nello stile e nella lingua. Gli Amori di Luciano è la piú manifatturata delle sue opere; gli Amori di Dafni e Cloe furono scritti da Longo Sofista con molte svenevolezze, e tradotti da Caro con molta ciarpa. Quanti vezzi di concetti e di parole sono in Giulietta e Romeo dello Shakespeare! Mentre il Galileo e il Tassoni scrivevano con tanta gravitá e forza di cose gravissime, il napoletano e voluttuoso Marini scriveva in uno stile tutto frasche e fiori e antitesi e giochetti di parole. A me pare adunque che lo stile vezzoso e imbellettato sia la forma naturale della voluttá; come un certo vestire ed abbigliarsi è naturale alle cortigiane. E però credo che la rettorica e le trasposizioni usate dal Boccaccio, quella tanta cura ch’ei mette nella collocazione delle parole, quelle congiunzioni vezzose, quelle leggiadrie e finitezze nelle minime parti dello stile e de’ periodi e delle sentenze, sieno convenienti al suo concetto, sieno la bellezza della voluttá ch’egli sente e fa sentire a chi legge. Ma perché ha imitato i latini? perché non i provenzali? Perché la voluttá è dea pe’ pagani, non pe’ cristiani; perché ne’ latini la trovò dipinta vaghissima; perché fra’ provenzali erano esempi di oscenità rozza, non di quella voluttà fina che si trova solamente tra genti civilissime e corrottissime... Il Boccaccio tanto mirabilmente ha saputo vestirsi di quella veste latina, che spesso l’armonia de’ suoi periodi, come puro ritmo e suono che solletichi l’orecchio, a me pare piú vaga che quella di qualunque scrittore latino, e la trovo eguale soltanto a quella de’ greci. Dunque, direte voi, la bellezza del Decamerone è la bellezza di una cortigiana? sí, ma è la bellezza d’Aspasia che ragionava della sapienza, e Pericle e Socrate l’ascoltavano maravigliando.
Il Settembrini ha avuta innanzi questa idea luminosa: «il Boccaccio è il pittore della voluttá». Ed ha tirato giú di un fiato una magnifica rappresentazione, dove fino i piú aridi concetti grammaticali acquistano senso e spirano voluttá; tanto è vivace l’impressione che ne riceve, e cosí è sicuro il suo gusto. E non si domanda se quella è una idea esatta, se è sufficiente a spiegare il fenomeno, se altri elementi vi concorrono, né se ci sia una forma piú alta che quella grammaticale, e non ha virtú di ricreare questo mondo meraviglioso del Boccaccio nella varietà de’ suoi elementi, nello sviluppo de’ caratteri e degli affetti, nelle gradazioni e ne’ chiaroscuri, nel lusso e nella pompa de’ colori. A tutto questo Settembrini non ha pensato. Gli è balenata una idea, e gli è sembrata la chiave che apre tutte le porte. E quella idea si è fatta innanzi alla sua immaginazione, palpabile, corpulenta, riccamente abbigliata. Onde nasce un giudizio di poco valore come scienza, monco per rispetto all’arte, ma che è esso medesimo un vera rappresentazione, un lavoro d’arte. Chi oserà notare innanzi a tanta magnificenza di esposizione la superficialitá del giudizio, gli errori nei particolari, e certe contraddizioni e certe confusioni e certe audaci asserzioni? Chi oserá dirgli: — Tu hai profanato Giulietta e Romeo — ? Chi oserá ridere veggendolo affermare gravemente che il Boccaccio ha imitato i latini, perché la voluttá è una idea pagana? Le osservazioni più giuste sembrano una pedanteria quando leggi di queste pagine: ti senti innanzi non lo scienziato, non il critico, ma un artista.
La sua personalitá cosí schietta, cosí sincera, cosí appassionata, cosí plastica ha qui il suo libero sfogo, e si effonde in descrizioni, epigrammi, subiti ravvicinamenti, motti a punta di coltello, tutto con un fare disinvolto e con un’aria d’ingenuitá e di serietá, che è una grazia: e ti solletica e ti attira e ti lega al libro e vi ti tien fisso e immemore come fosse un diario, o, come oggi dicesi, un album, dove il colto viaggiatore, correndo di cittá in cittá, espanda la ricca anima impressionata e commossa da tanta novitá di viste e di costumi. Né mai viaggio alcuno è stato fatto cosí allegro come questo attraverso le epoche della nostra letteratura in compagnia del Settembrini.
Gli è vero che il Settembrini si mette in viaggio con certe idee in capo, con tutto un sistema prestabilito, e con ricca provvisione di carte, documenti e libri di scienza. Ha sentito tanto a dire che oggi è il tempo della scienza, che tutto si vuol fare seriamente, e che non si può parlar d’arte senza ficcarci dentro un po’ di filosofia e di estetica, che il Settembrini arrossirebbe di dire anche a sé medesimo che ha voluto fare ed ha fatto un semplice viaggio artistico. La moda oggi richiede sistemi, metafisiche, teorie, il razionale, come direbbe lo
, e non il sentimentale; e il Settembrini ci è capitato, e ha voluto sacrificare alla moda, e ha porto cosí il fianco agli strali della nuova generazione.Ah, Zumbini! ma queste non sono le virtù, sono le debolezze del Settembrini! Di filosofico e di razionale ce n’è qui dentro un pochino, perché cosi vuole la moda; e se tu prendi come cosa seria questa roba, guarda il Settembrini che ti fa il risolino. Lascia dunque il sistema, e le tante contraddizioni e l’idea fissa e il difetto di coesione e la dissertazione sul contenuto, e vieni con me a ringraziare il Settembrini in nome della vecchia e della nuova generazione che abbia regalato all’Italia un cosí bel libro, dove tutto ciò che una parte degl’italiani ha pensato e sentito per lungo tratto di tempo si trova rappresentato con l’anima dell’artista, col cuore del patriota.
I morituri vi salutano, o giovani, e si tirano indietro; ma voi, se de’ vostri padri vi sentite degni, avanzatevi sulla scena a capo scoperto, e studiateli, comprendeteli, ammirateli prima: li giudicherete poi.
Io mi spavento quando penso che grave mole di studii e di lavori resta tutta intera sul capo della nuova generazione.
Per non parlare che solo della storia della nostra letteratura, se la non dee essere un viaggio artistico, sentimentale, estetico, se dee essere un serio lavoro scientifico, in tutte le sue parti esatto e finito, non potea farla il Settembrini, e non può farla nessuno oggi.
Un lavoro è un problema che non si può risolvere senza i suoi dati, o presupposti. Una storia della letteratura è come l’epilogo, l’ultima sintesi di un immenso lavoro di tutta intera una generazione sulle singole parti.
Tiraboschi, Andres, Ginguené sono sintesi del passato.
Oggi tutto è rinnovato, da tutto sbuccia un nuovo mondo: filosofia, critica, arte, storia, filologia.
Non ci è più alcuna pagina della nostra storia che resti intatta. Dovunque penetra con le sue ricerche lo storico e il filologo, e con le sue speculazioni il filosofo e il critico.
L’antica sintesi è sciolta. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi, parte per parte.
Quando una storia della letteratura sarà possibile? Quando questo lavoro paziente avrá portata la sua luce in tutte le parti; quando su ciascuna epoca, su ciascuno scrittore importante ci sará tale monografia o studio o saggio, che dica l’ultima parola e sciolga tutte le quistioni.
Il lavoro di oggi non è la storia, ma è la monografia: ciò che i francesi chiamano uno studio.
Gl’impazienti ci regalano ancora delle sintesi e de’ sistemi: sono stanche ripetizioni, che non hanno più eco. La vita non è più lá. Ciò che oggi può essere utile, sono lavori serii e terminativi sulle singole parti, e se la nuova generazione vuole dubitare e verificare, ottimamente! si mette sulla buona via; ripigli tutto lo scibile parte a parte e riempia le lacune, che ce n’è moltissime, ed apparecchi una condegna materia di storia.
Vedete quanta è la nostra povertá.
Una storia della letteratura presuppone una filosofia dell’arte, generalmente ammessa, una storia esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, passioni, costumi, caratteri, tendenze; una storia della lingua e delle forme; una storia della critica, e lavori parziali sulle diverse epoche e su’ diversi scrittori.
E che ci è di tutto questo? Nulla, o, se v’è alcuna cosa importante, è per nostra vergogna lavoro straniero.
Noi abbiamo una filosofia dell’arte tutta d’accatto o senz’applicazione, e le cose sono a tale, che non sappiamo ancora cosa è la letteratura e cosa è la forma, come appare dal libro del Settembrini. Su nessuna arte è stato scritto niente di serio, non sulla pittura, non sulla musica, e neppure sulla poesia. Abbiamo vuote generalitá, niente che sia frutto di alta speculazione filosofica o di serie investigazioni storiche.
Una storia nazionale, che comprenda tutta la vita italiana nelle sue varie manifestazioni, è ancora un desiderio. Quello che abbiamo rimane a infinita distanza da questo ideale.
Chi pensi gl’importanti lavori fatti da parecchie nazioni sulle lingue e i dialetti, maraviglierá come in Italia, dove questi studii ebbero origine, stiamo ancora disputando se la lingua dee prendersi da’ vivi o da’ morti, e quale sia una forma di scrivere italiana; e niente ancora abbiamo che rassomigli ad una storia della nostra lingua e de’ dialetti, dove siano rappresentate le varie forme, che la lingua e il periodo ha prese nelle diverse epoche.
Anche de’ criterii critici che hanno guidato i nostri scrittori e artisti manca una storia. Ogni scrittore ha la sua estetica in capo, un certo suo modo di concepire l’arte, e le sue predilezioni nel metodo e nell’esecuzione. E ne nasce una interessantissima storia della critica italiana da Dante sino al Leopardi.
E mi dolgo soprattutto che presso noi sieno cosí scarse le monografie o gli studii speciali sulle epoche e sugli scrittori. I nostri concetti sono vasti, inadeguati alle nostre forze; e piú volentieri mettiamo mano a lavori di gran mole, da cui non possiamo uscir con onore, che a lavori ben circoscritti e ben proporzionati a’ nostri studii, Cosí niente abbiamo ancora d’importante su nessuno de’ nostri scrittori, e abbiamo già molte storie della letteratura. Presso gli stranieri non ci è quasi epoca o scrittore che non abbia la sua monografia, e questo genere di lavoro vi è tenuto in grandissima stima. Cosa abbiamo noi sopra Machiavelli, o Guicciardini, o Sarpi, o Ariosto, o Folengo, o Tasso? Dello stesso Dante cosa abbiamo che sia conforme al progresso della scienza? Sono campi ancora inesplorati, dove tutto è a fare. Peggio ancora se ci volgiamo a’ tempi moderni, dove viviamo di giudizii e di criterii tradizionali e mal concordi, e non sappiamo ancora chi è Foscolo, o Niccolini, o Giusti, o Berchet, o Balbo, o Gioberti, o simili. Fino de’ sommi, del Manzoni e del Leopardi non si è scritto ancora uno studio di qualche valore. Quanta e quale materia per la nuova generazione!
Una storia della letteratura è il risultato di tutti questi lavori; essa non è alla base, ma alla cima; non è il principio, ma la corona dell’opera.
In tanta povertá, cosa può essere una storia della letteratura? Una informe compilazione piena di lacune e d’imprestiti e di giudizii superficiali e frettolosi e partigiani.
Il men peggio è quando un artista, come il Settembrini, faccia almeno una esposizione animata e popolare, la quale sia ella medesima una bella pagina aggiunta alla storia della nostra letteratura.
[Nella «Nuova Antologia», marzo i869.]
- ↑ Lezioni di letteratura di Luigi Settembrini
- ↑ Questa è la parte fiacca del suo lavoro. Non mi ci stendo sopra perché mi distrarrebbe troppo dall’argomento principale, ed anche perché dovrei pur parlare di me: cosa che mi ripugna. Lo Zumbini non ha bene studiato la teoria che ha per fondamento l’indipendenza dell’arte, o l’ha studiata solo nelle esagerazioni di Victor Hugo e di tutti i romantici che ne hanno cavata la formola eccessiva: l’arte per l’arte.
L’indipendenza dell’arte è il primo canone di tutte le estetiche e il primo articolo del Credo, né un’estetica è possibile, che non abbia questo fondamento; sicché non solo questa non è una critica sentimentale, anzi è la sola critica razionale, la sola che si possa chiamare scienza. E la scienza è nata il giorno che il contenuto è stato non messo da parte o dichiarato indifferente, come crede lo Zumbini, ma collocato al suo posto, considerato come un antecedente, o un dato del problema artistico. Ogni scienza ha i suoi supposti, i suoi antecedenti. Il supposto della estetica è fra l’altro il contenuto astratto. E la scienza comincia quando il contenuto vive e si move nel cervello dell’artista e diventa forma, la quale è perciò il contenuto esso medesimo in quanto è arte. La forma non è «a priori», non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza, o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma. Ed il contenuto è attivo, appunto perché ha la sua poesia, il suo bello naturale, come la natura ha il suo bello reale, ha qualcosa di proprio che fa impressione e mette in movimento il cervello dell’artista, ed apparisce nella forma. Ivi, nella forma, il critico ritrova il contenuto, «da lui giá esaminato come un antecedente»: lo ritrova non piú natura, ma arte; non piú qual era, ma quale è divenuto, e sempre tutto esso, col suo valore, con la sua importanza, col suo bello naturale, arricchito e non spogliato in quel divenire. Il contenuto non è dunque indifferente, non è trascurato. Apparisce due volte nella nuova critica: la prima, come naturale o astratto, qual era; la seconda, come forma, qual è divenuto.
Ma, se il contenuto, bello, importante, è rimasto inoperoso o fiacco o guasto nella mente dell’artista, se non ha avuto sufficiente virtú generativa, e si rivela debole o falso o viziato nella forma, a che vale cantarmi le sue lodi? In questo caso, il contenuto può essere importante in sé stesso; ma come letteratura o come arte non ha valore.
E per contrario il contenuto può essere immorale, o assurdo, o falso, o frivolo; ma, se in certi tempi e in certe circostanze ha operato potentemente nel cervello dell’artista ed è diventato una forma, quel contenuto è immortale. Gli Dei d’Omero son morti: l’Iliade è rimasta. Può morire l’Italia, ed ogni memoria di guelfi e ghibellini: rimarrá la Divina Commedia. Il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia; nasce e muore: la forma è immortale.
Questi sono canoni elementari della nuova critica, che, spero, avrá nello Zumbini una delle sue piú salde colonne.