Roma italiana, 1870-1895/Il 1884
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Il 1884.
Roma, nei primi giorni dell’anno era piena del nome del Gran Re. La discussione si era aperta sul nuovo concorso dei bozzetti per il monumento, esposti nel palazzo delle Belle Arti; le ceneri di Vittorio Emanuele dovevano esser traslate dalla tomba provvisoria in quella definitiva, dove sono adesso; il grande pellegrinaggio nazionale incominciava a giungere. Il primo, il più importante giunse per il 9 gennaio, giorno della solenne commemorazione, ed era formato dai pellegrini delle provincie di Roma, Napoli, Macerata, Chieti, Padova, Rovigo, Sassari, Benevento, Milano, Como, Siracusa, Lodi, Pavia, di tutte le parti d’Italia insomma, e anche delle lontane colonie, ove il culto del Gran Re era vivo come da noi. E tutti quei pellegrini recavano corone di fiori, di bronzo, d’argento e d’oro. La più ricca fu quella degli ufficiali della territoriale disegnata da uno dei donatari, il Rosa, ed eseguita dal Pocaterra.
Centinaia e centinaia di stendardi sventolavano su tutto il percorso del corteo e le musiche delle diverse provincie empivano l’aria delle meste note delle marce funebri. Ogni comune importante aveva recato i propri valletti e i propri gonfaloni. Il Corteo durò a sfilare per sei ore e mezzo fra una folla compatta, eppure non accadde nulla. Solo un pazzo, un certo Covola, parrucchiere, il quale salito sulla fontana di fronte al Pantheon si mise a declamare tenendo in mano un ritratto di Vittorio Emanuele, destò un certo scompiglio. Le guardie dovettero entrare nell’acqua per afferrarlo, ed egli, prima di farsi prendere, si dette tre forbiciate al petto, che esponeva nudo alla brezza invernale.
Gli altri due pellegrinaggi si fecero il 15 e il 22 gennaio e riuscirono imponenti quanto il primo.
Il Re ricevè al Quirinale la presidenza del Comitato Centrale del pellegrinaggio, delle colonie estere e dei comitati delle provincie. Le colonie che avevano partecipato al pellegrinaggio erano Trieste, Shaghai, Smirne, Cipro, Bucarest, Vienna, Cairo, Pietroburgo, Costantinopoli, Salonicco, Atene, Tunisi, Montevideo, Lugano, Marsiglia, Valparaiso, Rio Janeiro, Alessandria d’Egitto, San Francisco di California, e Parigi, che aveva mandato molti membri della Lira Italiana.
Al secondo pellegrinaggio parteciparono le provincie di Mantova, Bari, Campobasso, Brescia, Alessandria, Vicenza, Catania, Novara, Porto Maurizio, Cremona, Reggio Calabria, Palermo, Reggio Emilia, Bergamo, Genova, Teramo, Messina, Firenze, Forlì, Verona e Massa. I pellegrini di Forlì erano stati fischiati al partire da quella città; quando si videro sfilare per le vie di Roma, da Termini al Pantheon, non ebbero altro che un’ovazione caldissima al grido di «Viva la Romagna forte, generosa! Viva la Romagna monarchica!» Il Re pure, sempre concorde col suo popolo, nel ricevere questo secondo pellegrinaggio, fece ai rappresentanti di Forlì un’accoglienza speciale.
Al terzo pellegrinaggio del 22 gennaio parteciparono le provincie di Pesaro, Bologna, Salerno, Caserta, Avellino, Grosseto, Pisa, Girgenti, Catanzaro, Modena, Caltanisetta, Perugia, Potenza, Siena, Foggia, Sondrio, Trapani, Lecce, Lucca, Ascoli Piceno, Piacenza, Treviso. I veterani di Perugia recavano una grande stella nel cui centro si leggeva: «Al vendicatore delle stragi di Perugia il comitato Perugino dei Veterani». Fra le bandiere di Trapani si vedeva quella storica del Lombarda. Siena aveva portato i gonfaloni delle sue 17 contrade, recati da uomini vestiti del costume di ciascuna di esse. Insomma ogni pellegrinaggio ebbe la sua impronta speciale, e tutti uniti dimostrarono quanto affetto avesse l’Italia per il Grande, che riposava sotto la volta maestosa del Pantheon, che dopo essere stato il tempio di tutti gli Dei, e poi di tutti i Martiri, era divenuto il monumento più caro agli italiani.
Fra un pellegrinaggio e l’altro, la città si era occupata dei progetti del monumento a Vittorio Emanuele, ma il responso della Commissione non si conobbe altro che alcuni mesi dopo.
I tre migliori bozzetti, benche i giornali ne vantassero altri, erano quelli del Sacconi, del Manfredi e dello Schmitz; migliore di tutti il primo per la maestà delle linee e l’armonia generale, ma molti opinavano che fosse errore erigerlo al Campidoglio. Lassù vi era già la chiesa, vi erano le costruzioni michelangiolesche e le memorie della Roma antica, e bastava. Oltre queste considerazioni di ordine generale, ve ne erano altre tecniche e finanziarie, che si opponevano alla indicazione di quel luogo per farvi sorgere il monumento. Prima fra tutte la difficoltà per le fondamenta, i danni che si potevano arrecare alla chiesa, e le numerose espropriazioni che occorreva fare affinchè monumento fosse veduto dal Corso. Ma nulla tratteneva quelli che, come il Depretis, volevano il monumento al Campidoglio, affermazione della grandezza della nuova Italia con Roma capitale. Essi vinsero, ed il Sacconi ebbe la commissione.
Al Campidoglio vi era stata lotta e vi erano stati attriti. Don Leopoldo Torlonia, rieletto deputato di Roma, non poteva esser sindaco, e i romani si diceva fossero stanchi dell’effe effe, e volessero un sindaco per davvero, che ne esercitasse le funzioni e ne avesse il titolo. L’on. Torlonia lo capì e dette le dimissioni, perchè pareva che l’assessore Trocchi volesse essere sindaco. Ma appena il Consiglio si riunì il principe Borghese per i conservatori, l’on. Tittoni per i moderati e l’on. Ferri per i progressisti fecero ognuno un discorso per invitare il Torlonia e la Giunta, che frattanto erasi dimessa, a desistere dal loro proponimento. Per il Torlonia ci fu unanimità d’intendimenti, per la Giunta no; anzi i consiglieri Amadei, Carancini, Doda, Cruciani-Aliprandi e Ferrari vollero far sapere che non approvavano la linea di condotta di alcuni fra gli assessori.
La sera stessa in cui l’onorevole Torlonia e la Giunta ritirarono le dimissioni, l’on. Amadei fece una interpellanza sulla nomina del canonico Biffani a insegnante di religione nelle scuole, interpellanza diretta specialmente contro Biagio Placidi, che aveva fatto la nomina. Si venne al voto: 15 consiglieri furono per l’Amadei; 26 per il Placidi; ma di questi 26, 17 erano stati eletti dalla Unione Romana, e si disse che il Torlonia, appoggiandosi su quella maggioranza clericale, non poteva governare.
In mezzo a queste noiose e sterili lotte, fecesi udire la parola del Re, che ringraziava Roma per il tributo di affetto al padre. «Roma» scriveva il Re a Depretis, «con la sua cordiale ospitalità e col nobile contegno seppe mostrare ancora una volta quanto sia degna di essere la capitale del Regno, e di custodire la tomba del Padre della Patria».
Per altro le gare capitoline non terminavano in forza dei ringraziamenti reali. Il Torlonia aveva sostenuto l’operato dell’assessore Placidi in Consiglio, tanto per la nomina del canonico Biffani, quanto per una circolare ai maestri circa l’insegnamento religioso, ma si affrettò a ordinare che nessuno assessore diramasse circolari senza udire il parere della Giunta. Il Placidi capì e dette le dimissioni, che il Consiglio non volle accettare; così ogni seduta era spesa nell’esaurire incidenti e il lavoro restava a dormire.
I lettori rammenteranno il duello Lovito-Nicotera avvenuto sullo scorcio dell’anno precedente. Alla Camera, mentre in febbraio, nelle sedute antimeridiane si discuteva la legge per Ischia, e in quelle pomeridiane la legge Baccelli sulla autonomia delle Università, fu presentata domanda dal Procuratore dal Re per procedere contro i duellanti. Si votò su una proposta Crispi di rifiuto, e questo concetto trionfò. Ma il voto della Camera fu accolto male a Roma, perchè, volere o non volere, Nicotera aveva aggredito Lovito appunto, e soltanto perchè era segretario generale, lo aveva ferito gravemente e costretto a uscir di carica, eppure non era punito, nè poteva essere per volere dei suoi colleghi. Invece dispiacque che la Camera approvasse, anche con soli 8 voti di maggioranza, la legge Baccelli sull’autonomia delle Università, così combattuta da tutte le parti. L’on. Baccelli volle dare le dimissioni, ma il presidente del Consiglio, che già vedeva la sua barca ministeriale far acqua, lo scongiurò di rimanere.
Un’altra dimissione turbò la Camera nello stesso tempo: un voto contrario all’on. Farini lo fece venire nella risoluzione di cedere la presidenza, risoluzione così energica che neppure le preghiere dei colleghi, neppure il desiderio di commemorare il Sella e il Massari, morti in quei giorni, poterono indurlo a tornare alla Camera. Come candidati alla presidenza si facevano i nomi del Coppino e del Biancheri. Il Coppino fu scelto dal Depretis come candidato del Governo, nonostante la fiera opposizione fatta pochi giorni prima alla legge Baccelli. Il deputato di Alba raccolse 228 voti e 145 ne ebbe il Cairoli, e nell’urna si trovarono 54 schede bianche. Nel seno dell’opposizione vi erano vivi dissapori e palesi, non occulti, perchè nella discussione per il monumento a Quintino Sella si era veduto il Baccarini combattere la proposta del Governo, e il Crispi difenderla caldamente.
La morte di Massari e del Sella era una vera sventura, e Roma aveva sinceramente rimpianto quei due uomini, il cui nome aveva visto sempre associato alle vicende del paese. Il Massari era spirato a Roma, e tutta la cittadinanza si associò ai funerali di lui; il Sella era morto a Biella, e di qua, nei primi giorni, partirono a centinaia i telegrammi di condoglianza alla famiglia. Si sapeva che la malattia che avevalo ucciso, era stata da lui contratta qui per il desiderio di visitare la campagna romana. Soleva Quintino Sella, anche quando era ministro, anche nei mesi in cui i dintorni di Roma sono più insalubri, uscire prima del levar del sole e fare lunghe trottate su un cavallino sauro. Quando non voleva andar lontano, recavasi a villa Borghese, che per lui era sempre aperta, per deferenza del principe, che lo stimava molto. In quelle passeggiate contrasse le febbri, dalle quali non potè più liberarsi. Si manifestavano di tanto in tanto, e ogni attacco minava maggiormente la salute di lui. Il pensiero adunque che era stato ucciso dal clima della città, per la quale aveva tanto combattuto, prima perchè fosse capitale d’Italia, e poi perchè ne divenisse il cervello, accresceva il dolore della perdita.
Quintino Sella non potè veder neppure i Lincei nella loro nuova dimora, perchè il palazzo Corsini si riattava appunto per accogliervi la dotta accademia della quale era presidente.
L’elezione del presidente della Camera, non soddisfacente per il Depretis, lo indusse a dar le dimissioni. Dopo pochi giorni il ministero, superata la crisi, potè ricostituirsi. Ne era uscito il ministro di Grazia e Giustizia, on. Giannuzzi-Savelli, e lo aveva sostituito il Ferracciù; al Berti era succeduto il Grimaldi, al del Santo il Brin, al Baccelli il Coppino. L’on. Baccelli, prima di lasciar la Minerva, aveva con decreto reale pareggiato il Collegio del Nazzareno ai Ginnasi-Licei governativi. Il Nazzareno era ed è diretto dagli Scolopi e questo fatto fece scagliare nuovo biasimo contro il ministro romano.
Si procedè di nuovo alla elezione del presidente della Camera. Quella volta il candidato ministeriale era il Biancheri, che aveva di fronte il Cairoli. Ma il Biancheri raccolse molti più voti del suo predecessore.
Come segretario generate al ministero dell’Istruzione Pubblica, andò l’on. Ferdinando Martini, che aveva vasta cultura e voce autorevole alla Camera. Però egli accettò soltanto a patto che fosse fissato subito quel tanto che dovevasi fare per migliorare le condizioni dei maestri elementari.
Il nuovo gabinetto presentò subito alla Camera il progetto di legge per l’istituzione del ministero della Presidenza e del Tesoro.
Roma ebbe in quell’anno per la prima volta il suo Derby-Day, grazie alla regal munificenza di Umberto, che aveva stanziato 24,000 lire per la grande corsa, e 6000 per l’altra degli ostacoli. La Società Romana delle Corse aveva preparato sulla via Appia, fra l’antica e la nuova, uno fra i più bei campi di corse che sia dato immaginare. La grande pista era destinata tanto alle corse piane che agli steeple-chases. Torno torno correva una steccato; presso i due cancelli erano le tribune di materiale; due grandi per il pubblico e per i soci, e nel centro il padiglione Reale. Il campo era prossimo, come è adesso, alla linea ferroviaria Roma-Napoli, e al Tram di Marino. I lavori erano stati diretti dal cav. Alessandro Piacentini, sotto l’alta sorveglianza del duca di Marino, uno dei più intelligenti sportmen d’Italia.
Naturalmente i Sovrani vollero assistere alla grande festa ippica. Il Derby Reale fu vinto da Andreina di Sir Rook, cioè dalla scuderia del conte Gastone di Larderel, montata da Rook Junior, e alla vittoria della bella cavalla di tre anni, assisteva tutta la Roma elegante, non assuefatta a corse così importanti. Gli equipaggi a quattro e a due cavalli che conducevano sul prato di Centocelle le più belle signore di Roma, non si potevano contare, e fino al terzo miglio, vi era folla lungo la via, una folla gaia, attratta soprattutto dal desiderio di vedere le ricche ed eleganti patrizie più belle del solito nei gai abiti primaverili.
Senza tema di smentite si può dire che quella festa del Derby fosse la più bella dell’anno, anno di lutti incominciato fra le commemorazioni funebri, svoltosi fra i funerali (erano morti il duca Grazioli, l’on. Varė, il generale Colli di Felizzano e il maggior Corazzi) e che doveva terminare fra i ricordi di un vero flagello.
I Sovrani, subito dopo le corse, andarono a inaugurare l’esposizione di Torino. I ministri partirono anche essi, e l’on. Genala in fretta e in furia firmò le convenzioni ferroviarie con le due società assuntrici, l’Adriatica e la Mediterranea, e portato alla firma del Re il decreto che lo autorizzava a ritirare dal Parlamento il disegno di legge presentato dall’ex-ministro Baccarini e in parte modificato, partì anche egli per la grande festa del lavoro.
La Camera, che aveva così poco lavorato durante l’inverno, si era aggiornata; il duca Torlonia, e molti assessori, erano a Torino per far gli onori ai Sovrani del Tempio di Vesta, costruito dall’ing. Ferdinando Mazzanti, sui piani di quello rintracciato nel Foro Romano; treni carichi di gente avevano emigrato sulle sponde del Po; la vita a Roma taceva.
Un atto del nuovo ministro della marina era molto discusso e approvato: quello della creazione di una specie di consiglio dell’ammiragliato a capo del quale doveva esser posto un ammiraglio che aveva facoltà di proporre al ministro la mobilitazione dell’armata in caso di guerra, e indicargli i provvedimenti che credeva necessari alla difesa marittima dello Stato. Non tanto il provvedimento fu lodato quanto la scelta del capo. Quella scelta era stata fatta dal Brin con molta accortezza, perchè ponendo alla direzione del consiglio dell’ammiragliato il Saint-Bon era sicuro di aver con sè la Camera e il paese, che aveva in lui piena fiducia.
La Camera si riunì il primo maggio, ma in quel giorno se furono numerose le domande d’interpellanza, fra le quali una dell’on. Orsini sulla condizione politica ed economica di Roma in relazione con la progettata esposizione mondiale, scarsi furono i deputati presenti, cosicchè si dovette terminare la seduta alle 3. E tanto per non smentire il detto che dal buon mattino si vede il buon giorno, le discussioni andavano avanti sfiaccolate, ravvivandosi soltanto quando si trattava d’interpellanze, ma anche queste non portavano a nessun voto. La più importante fu quella che spinse l’on. Mancini a far dichiarazioni sugli intendimenti della Francia rispetto al Marocco, ma il male si fu che le parole del ministro peggiorarono, anzichè migliorare, la situazione del gabinetto, perchè parvero troppo vaghe.
Quando discutevasi il bilancio dell’Interno furono presentate all’on. Depretis numerose domande d’interrogazione, alle quali egli rispose. Chiusa la discussione, fu proposto dall’on. Mordini un ordine del giorno di fiducia al ministero. Prese allora la parola uno dei Pentarchi, l’on. Zanardelli, dicendo che la questione ministeriale non era proposta da loro, che loro non volevano accettare la battaglia in condizioni anormali, sotto la influenza dei bilanci, e per questo non volevano partecipare al voto. Difatti, quando furono portate le urne si ritirarono, e fatta la chiama si vide che la Camera non era in numero. Il giorno seguente l’opposizione ripetè lo stesso giochetto.
Ai primi di luglio la Camera sospese le sedute, senza occuparsi di nessuna legge importante. Il colera scoppiato con straordinaria violenza in Francia distoglieva le menti da qualsiasi lavoro serio, e siccome già si manifestava in Piemonte, portatovi dagli operai che rimpatriavano, era giustificato il timore dei deputati di trovarsi chiusi a Roma dalle quarantene, e il loro desiderio di andarsene prima.
Nella notte dal 16 al 17 marzo sulla linea Maremmana doveva passare il treno reale. In prossimità di Corneto era in perlustrazione un carabiniere, certo Varicchio, al quale era stato specialmente raccomandato di badare a un ponticello. Egli aveva più volte perlustrato il tratto di terreno assegnatogli, e si era un momento allontanato quando udendo il rumore della macchina-staffetta ritornò sul ponticello, sotto il quale scorse due persone e più lungi altre due. Il carabiniere dette il «Chi va là» e gli fu risposto a bassa voce: «Siamo amici». Intanto egli sentiva il rumore del treno reale e già vedeva la macchina, e si avanzò per far fuoco. In quel tempo partirono quattro colpi, ai quali il carabiniere rispose. I quattro appostati si diedero alla fuga profittando delle tenebre. Il Varicchio sparò due colpi di revolver in quella direzione, e gli fu risposto. Uno dei colpi gli fece cadere il cappello e la vampa della polvere gli bruciò la faccia. Nonostante sparò gli ultimi colpi del revolver. Accorsero al rumore un carabiniere e un soldato, che erano al chilometro vicino. Il treno reale passò incolume, e fu sequestrata sulla linea una bottiglia piena di polvere. I malfattori si erano dati alla macchia e forse poi al mare, ove è probabile che fossero raccolti da una barca, e nessuno ne ebbe più notizia.
Il bravo carabiniere fu premiato, ebbe la promozione, la medaglia al valor militare, e anche ricompense da società; l’Alleanza Reduci e Patrioti di Livorno gli decretava una medaglia e una pensione vitalizia.
Dal Vaticano forse non mai come in quel tempo era mossa una guerra sorda, celata contro lo Stato italiano. Dal 1874 in poi durava la controversia fra il Governo e l’Istituto di Propaganda Fide. Questo oppugnava la legge e le successive sentenze del tribunale e della Corte di Appello, e non intendeva convertire in rendita o in titoli dei cinque istituti nostri di emissione i suoi beni stabili. Fu chiamata la Corte di Cassazione a risolver la controversia, e questa adunatasi a sezioni riunite si pronunziò in favore delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose. Il Vaticano si risentì, non direttamente, ma indirettamente per mezzo dei suoi giornali e dei Nunzi. Si credè, e si volle far credere che l’Istituto di Propaganda Fide avrebbe portato altrove la sua sede, ma dopo lungo schiamazzare la questione si acquetò e Propaganda Fide risiede ancora nella via di quel nome.
Il Papa si era vivamente appassionato per quel fatto e poco dopo essendo venuti a Roma il principe Leopoldo di Baviera e la principessa Gisella, figlia dell’Imperator d’Austria, non volle riceverli, perchè erano andati al Quirinale, forse con lo scopo d’impedire la restituzione della visita di Francesco Giuseppe al Re. La manovra abilissima riuscì perfettamente. Ma la guerra non si calmò dopo quello sfregio inflitto alla figlia di un alleato dell’Italia e al principe bavarese; il Papa credendo di vendicarsi pronunziò anche una violenta enciclica contro la massoneria, poichè nel concetto dei clericali massoneria è sinonimo di libertà e d’Italia costituita in governo monarchico.
In quella primavera tre cardinali erano venuti a mancare: il Bilio, l’Hassun, patrono del Collegio Armeno, e il di Pietro. I funerali del primo furono fatti a San Carlo a Catinari; del secondo a Sant’Andrea delle Fratte, modestamente perchè dopo il 1870 i cardinali eran portati senza alcuna pompa al Camposanto. Per il di Pietro, decano del Sacro Collegio, si fece uno strappo alla consuetudine, forse per le larghe aderenze che aveva nel patriziato Romano, essendo parente dei Caetani, dei Doria, dei Torlonia, e amico di tutti i signori, e dietro al feretro dell’intelligente e affabile porporato si videro moltissimi amici e un lungo stuolo di carrozze signorili.
Quando appunto il di Pietro veniva a mancare, il Papa creava cardinali monsignor Neto, patriarca di Lisbona, e monsignor Sanfelice, arcivescovo di Napoli, il conciliante e buon prelato che si è fatto venerare dai suoi diocesani per la sua abnegazione e le sue virtù. Al de Neto fu mandato lo zucchetto a Lisbona, e glielo portò il conte Antonelli; il Cardinale Sanfelice ricevè dopo il concistoro in casa del cardinal Randi, al palazzo Gabrielli, ed ebbe le felicitazioni di tutti i Napoletani residenti qui. Al ritorno nella sua diocesi fu accolto da una calda e affettuosa ovazione.
I lavori progredivano su larga scala, ma non come i cittadini avrebbero desiderato, perchè le continue proposte nuove fatte al Consiglio li intralciavano, e soprattutto eran resi difficili dalla terribile speculazione sui terreni, che fu la piaga di quel tempo. Appena il municipio aveva bisogno di espropriare, era richiesto di somme favolose, e a tali salirono pure le immonde case del Ghetto e del quartiere dei Monti. Trecento lire al metro per terreni situati in località non centrali, era prezzo corrente; se poi il municipio voleva disfarsi di qualche area, vedeva andar deserte due o tre aste, e non ne ricavava quasi nulla. Per esempio era stata acquistata la villa Casali per costruirvi l’Ospedale Militare, al prezzo di 10 lire al metro; il terreno non bastava e si volle acquistare qualche appezzamento limitrofo, ma non si potè per l’esorbitanza delle domande.
All’Esquilino il Comune non potè vendere neppure un metro di terreno. Si chiamava speculazione, ma era camorra bella e buona e si vide dopo, quando avvenne la crisi edilizia.
Il municipio acquistò in primavera il ponte di Ripetta, dalla Società anonima Belga, per 150,000 lire, e così i Romani non dovettero più pagare il pedaggio.
Si voleva indurre il municipio a fare un altro acquisto, non strettamente necessario, ma non vi si riuscì per il parere contrario che dette in Consiglio Giovan Battista de Rossi. Si trattava della bella collezione di Alessandro Castellani, che gli eredi, non potendo vendere in blocco, misero all’asta. Essa era esposta nel cortile del palazzo Castellani, in piazza Poli, in quel palazzo tutto rosso con l’androne ornato di basso rilievi antichi ora scomparso. Le vendite erano fatte dalla ditta Mannheim e Hoffmann e richiamarono a Roma gran numero di amatori di cose antiche e di signori stranieri. Vi assisteva tutta Roma e ogni oggetto era disputato da più persone per modo che saliva a prezzi favolosi.
Era stato aperto il concorso per il Policlinico. La commissione giudicatrice componevasi di molte illustrazioni dell’arte medica e di alcuni artisti. Il secondo premio fu aggiudicato all’ing. Podesti da Roma, non il primo, perchè l’artista erasi un poco scostato dal programma.
In maggio sparì un’altra figura cara a Roma e a tutta l’Italia. Mori Giovanni Prati, il cantore di Ermengarda, delle Grazie e di Armando. Dopo il 1870, il Prati era stato sempre a Roma, e chi voleva vederlo era sicuro incontrarlo da mezzogiorno alle due innanzi al Caffè del Parlamento, col virginia spento fra le labbra, il lungo soprabito abbottonato fino al mento, e la rosetta della Legion d’Onore all’occhiello. Non era mai solo, e gli amici che lo accompagnavano erano sicuri di udir sempre uscire da quella bocca parole sdegnose e acerbe critiche.
La sera andava sempre dal Morteo, ove trovava gli stessi ascoltatori. Da poco tempo il piccone demolitore aveva fatto sparire il caffè e la birreria ove il Prati passava tanta parte del suo tempo, ed egli ne era stato afflitto. Non si vedeva più, e si sapeva che era ammalato, e dopo molto patire spirò fra le braccia della moglie e della figlia.
Il senatore Moleschott, che lo aveva curato, ne fece la commemorazione al Senato. I funerali riuscirono solenni per il largo concorso dell’autorità e dei colleghi, e commoventi per la presenza di tutte le alunne dell’Istituto Superiore Femminile, che il Prati dirigeva.
Era appena morto Giovanni Prati, che venne a mancare il cardinal de Falloux, l’elegante e intransigente porporato francese, e di li a poco seguivalo nella tomba il marchese Ranieri de’ Cinque, già guardia nobile del Papa, patrizio molto noto, che morendo fece parlar di sè, perchè non volle preti, e lasciò tutti i suoi beni all’Ospizio dei Ciechi «Margherita di Savoia».
Per le solite divisioni nel campo dei liberali la vittoria potè arridere ai candidati della Unione Romana nelle elezioni amministrative parziali del giugno. In quel tempo si faceva alla Minerva un triduo di riparazione alla Madonna per le offese della stampa. Il risultato delle elezioni si conobbe appunto l’ultima sera del triduo. Dopo la benedizione del cardinal Parrocchi, il quale aveva sostituito il Monaco La Valletta nella carica di Vicario di Roma, i fedeli si misero a batter le mani e a gridare: «Viva Maria!» Questo provocò la solita controdimostrazione dei liberali con accompagnamento di fischi, ai quali i fedeli risposero col grido di «Viva il Papa Re!».
Fuori della chiesa avveniva pure lo stesso, e il delegato Neri, per impedir disordini, cinse la sciarpa e chiamò a raccolta un numero grandissimo di guardie per protegger l’uscita della gente. Ma vedendo che non riusciva nell’intento, perchè chiunque si presentava era accolto da urli e fischi, fece avanzare i carabinieri e una compagnia di fanteria, ed entrato in chiesa indusse i fedeli a uscire dalla porta posteriore.
In piazza Colonna più tardi ci vollero gli squilli e gli arresti per calmare un altro tumulto anti-clericale. Gli arrestati furono giudicati il giorno dopo; soltanto un certo Lopas si buscò un mese di carcere, tre ebbero cinque giorni; tutti gli altri furono assolti.
Lo Sbarbaro accaparrato dal Sommaruga, che sperava far quattrini con gli scandali che il professore così leggermente suscitava, e con le accuse che lanciava a piene mani su tante persone, aveva fondato le Forche Caudine, strano giornale settimanale di ricatti, scritto da cima a fondo da Sbarbaro. Gli articoli portavano tutti la firma di lui e riuscivano monotoni, perchè Sbarbaro li componeva tutti con una specie di ricettario a base di lodi smaccate per alcune persone, e d’improperii per altre, che erano poi sempre le stesse. Il professore trionfava avendo trovato un editore che lo secondava, che non aveva scrupoli, e davagli denari, così tutto tronfio passeggiava per Roma, forse inconscio del male che faceva e degli odii che suscitava contro di sé. Un giorno era appunto sul Corso con la moglie sotto il braccio, quando Alfredo Baccelli passava in carrozza con sua madre, che il professore aveva così atrocemente offesa. Alfredo Baccelli balzò di legno, andò incontro al professore, gli domando se era Sbarbaro, e avutane risposta affermativa, gli dette due pugni sul cilindro. Sbarbaro si mise a gridare, e la moglie a menar pugni all’assalitore, intanto che il professore ordinava alle guardie di arrestarlo. In questura, dove Sbarbaro era andato, giunse Augusto Baccelli, che aveva saputo il fatto, e anche l’ex-ministro, al quale era stato detto erroneamente che suo figlio era arrestato. Nel vedere i due fratelli, Sbarbaro si affacciò alla finestra ed arringò la folla, la quale al solito era divisa in due campi, così che il professore ebbe fischi e applausi, e ci vollero le guardie per ottenere lo sgombro della via. Tramontato Coccapieller, sorgeva sull’orizzonte romano un altro tribuno.
Sbarbaro aveva preso di mira le mogli dei ministri, che accusava di turpitudini di ogni genere, gli uomini politici, i giornalisti, l’on. Martini specialmente, e il senatore Pierantoni, il quale gli dette una prima querela per diffamazione, e si buscò una condanna. Il Pierantoni, di nuovo offeso, ne sporse un’altra; furono riconosciute la diffamazione e l’ingiuria, ma come conseguenza della prima, cosicchè il professore e il gerente vennero condannati soltanto a una multa. Sbarbaro gongolava e i suoi ammiratori ne seguirono la carrozza applaudendolo fino a piazza Colonna, ov’egli tenne loro un discorsino.
La Forche Caudine continuavano a pubblicarsi e il professore le riempiva tuttavia della sua prosa monotona, ma la diffusione diminuiva ogni settimana, perché il pubblico fra il quale reclutava i suoi lettori, non era quello rozzo del Carro di Checco, ed erasi presto stancato di tante contumelie. Peraltro lo Sbarbaro non si curava di nulla e scriveva al solito. Egli chiese alla facoltà giuridica dell’Università di Roma la libera docenza di Filosofia del Diritto e di Economia Politica, e gli fu accordata; ma il Consiglio superiore della pubblica istruzione cassò la deliberazione
Sbarbaro aveva fatto ricorso alla Corte d’Appello contro la sentenza del tribunale, nella causa promossa dal Pierantoni, e il giorno prima scrisse al conte Serra, che doveva presiedere il mento, per chiedergli un colloquio. Nella lettera diceva di volere alcuni particolari sulla vita dello zio, conte Serra, morto recentemente. Il morto era non zio, ma padre del magistrato, e il conte rispose al professore una lettera sdegnosa, con la quale assicuravalo che non aveva bisogno di dare schiarimenti sulla vita intemerata del proprio padre. Il Serra presiedè la Corte; Sbarbaro fece uno scandalo leggendo durante il dibattimento una lettera del ministro di grazia e giustizia, on. Ferracciù, che lo chiamava: «Carissimo Amico», e diceva far voti affinchè le vicissitudini della lotta cessassero ed egli potesse riportare «quella vittoria che spettava al suo ingegno, alla sua dottrina e alla sua bontà d’animo.»
La lettera fu vivacemente commentata e Sbarbaro, al quale il tribunale aveva affibbiato otto mesi di prigione, vide esclusa dalla Corte d’Appello la diffamazione e ridotta a un mese la sua pena. Il ministro Ferracciù lasciò il ministero, perché i suoi colleghi, cominciando dal presidente del Consiglio, non vollero più saperne di un ministro che aveva tante tenerezze per colui che diffamavali e scagliava atroci accuse contro le loro mogli. Fu pubblicata la lettera al Serra, e i giornali dissero, e con ragione, che la magistratura si lasciava intimorire dallo Sbarbaro. Ma dopo tutti questi fatti lo scandalo era tanto ingrossato, che l’autorità giudiziaria dovette occuparsene. Essa ebbe nelle mani le lettere minatorie al Re, al Coppino, al Serra, al Martini, al Morana, al Baccelli, al Magliani e al Brioschi, ed allora spiccò mandato d’arresto contro lo Sbarbaro. Egli abitava un quartiere alle Quattro Fontane, che guardava anche la via dei Giardini. Era in casa quando bussarono le guardie, ma per non farlo prendere, la moglie, che si sarebbe gettata nel fuoco per lui, lo fece scendere da una finestra, e quando fu in salvo si affacciò gridando agli assassini. Accorsero i carabinieri e si trovarono faccia a faccia col maresciallo Bernardi e con le guardie. Il Questore Restelli fu messo in riposo per aver così mal diretto l’operazione, e Sbarbaro continuò tranquillamente a stare a Roma in barba alla giustizia.
A tanti scandali una grave preoccupazione aggiungevasi: quasi tutta l’Italia era infetta dal colera, portato di Francia. Appena il morbo incominciò a manifestarsi a Napoli, il municipio creò un lazzeretto nel convento di Santa Sabina sull’Aventino, alcune sale d’isolamento in ogni ospedale, e un lazzeretto militare annesso all’ospedale di Sant’Antonio. Tutte le precauzioni che suggerisce la scienza furono prese: ripulitura delle case e dei cortili, chiusura dei pozzi, disinfezione e visite mediche ai viaggiatori alla stazione, vigilanza sui commestibili.
Fortunatamente tutte queste precauzioni giovarono e si riconobbe che non erano eccessive, perché ogni giorno, specialmente da Napoli, giungevano numerosi viaggiatori. Alcuni si ammalarono, e allora furono portati al lazzeretto o negli ospedali, e vennero rinchiuse tutte le persone che con loro erano state in contatto. Qua e là si vedeva una casa piantonata, si parlava di un nuovo caso, e la popolazione se ne impensieriva più del dovere, vedendo giungere sempre nuovi fuggiaschi da Napoli, dove il colera uccideva migliaia e migliaia di persone.
Si sapeva che a Napoli la miseria era grande, e si aprirono sottoscrizioni per i colerosi e nessuno negava l’obolo proprio. I ministri Grimaldi e Brin vanno a Napoli, e visitano gli ospedali ed i tuguri, sfidando il morbo; il ministro Magliani rifiuta il dono nazionale che gli volevano fare molti cittadini e prega il Pianciani che la somma raccolta sia inviata agli operai poveri napoletani; uno scienziato Svedese, che voleva serbare l’incognito, ma che si seppe essere il professore Landesberg, offri prima al Delogu, del ministero dell’Istruzione Pubblica, e quindi al Morana, segretario generale dell’Interno, 70,000 lire per i colerosi. Squadre di volontari partivano da tutta Italia per assistere gl’infermi, la carità napoletana faceva prodigi, ma il morbo rendeva vano ogni sforzo. Il Re era già stato a Busca e doveva andare a Pordenone alle corse. Egli telegrafa a Depretis: «A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore; vado a Napoli», e parte.
Il 7 settembre, il giorno funesto per Napoli, il Re giunse a Roma, e trovò alla stazione ad attenderlo il Duca d’Aosta, che aveva lasciato Torino all’improvviso, senza neppure una valigia, volendo dividere col fratello i pericoli. Alla stazione vi erano i ministri, i segretari generali e il Sindaco. Il Re volle essere informato dal Grimaldi e dal Brin della visita a Napoli, ed era così commosso da ciò che udiva che non riesciva a parlar d’altro.
Gli onorevoli Depretis e Magliani salirono nel treno reale; il Depretis, vecchio e malato, non esito un momento a fare il suo dovere. Mentre il treno partiva, il duca Torlonia, preso da una viva commozione, esclamò: «Tutte le benedizioni del cielo accompagnino vostra Maestà».
Il duca aveva parlato veramente col cuore, interpretando il voto di tutti i Romani. Qui non si pensava più alle minaccie dell’invasione colerica, che aumentavano ogni giorno; il pensiero di tutti era rivolto al Re, e si leggevano avidamente le descrizioni delle sue pietose visite agli infermi, si trepidava e si soffriva con lui.
La Camera e il Senato avevano spedito a Sua Maestà indirizzi d’ammirazione, da ogni parte d’Italia giungevano alla Reggia di Napoli proteste di devozione e di gratitudine, e telegrammi da tutti i sovrani del mondo. Si vuole che il Papa stesso ordinasse al cardinal Sanfelice di andare dal Re per encomiarlo della sua nobile carità. Leone XIII, spronato forse dall’esempio, ordinò ai parroci di essere caritatevoli, e destinò un milione alla costruzione di un lazzeretto a Santa Marta. Egli inviò anche il cardinal Vicario Parrocchi a visitare i ricoverati a Santa Sabina. Il cardinale, per un malinteso, non fu ricevuto dal dott. Placidi, che aveva preso troppo alla lettera l’ordine di non introdurre nessuno nel lazzeretto; fu però ammesso a quello militare.
Le notizie che giungevano da Napoli sull’opera benefica del Re, destarono nei romani il desiderio di fargli, al suo passaggio da Roma, una grande dimostrazione. Il Re lo seppe e fece telegrafare dal Depretis al prefetto che desiderava che ciò non avvenisse, perché aveva l’animo troppo commosso ancora, ma quando giunse e vide la folla che lo aspettava, quando sentì gli applausi della numerosa moltitudine, che invadeva tutte le adiacenze della stazione, quando il duca Torlonia gli disse: «Maestà, Roma orgogliosa del suo Re, vi saluta riverente. La popolazione vi chiede per significarvi da se stessa la sua ammirazione e il suo affetto per il più generoso dei Re», allora cedè, e si mostrò al popolo dalla terrazza che guarda le Terme.
Appena il Re comparve col duca d’Aosta accanto, migliaia e migliaia di voci invocarono sul capo di lui e su quello del fratello le più calde benedizioni e fecero udire gli evviva i più frenetici.
Il Depretis non ebbe applausi, ma tutte le persone che erano nella stazione vollero stringergli la mano.
L’atto spontaneo, generoso del Re, il coraggio dimostrato, l’efficacia della visita, il desiderio espresso che Napoli avesse acqua buona e fosse risanata, avevano dimostrato con fatti evidenti che Umberto amava come padre il suo popolo.
Non v’era, fra tanta unanimità di lodi per il Re, una voce sola discorde in tutta Italia.
Al banchetto dato a Mantova in occasione delle feste Virgiliane, il Carducci fino allora repubblicano e avaro di lodi ai sovrani, pronunziò un brindisi che mi piace notare. Egli disse:
«Non vorrei avere il rimorso che i brindisi portati alla Maestà del Re e della Regina fossero riusciti meno caldi per un riguardo alle opinioni politiche di qualche intervenuto. Io dunque porgo un brindisi alla felicità di Umberto di Savoia, che con la civiltà e l’umanità sua consola anche il repubblicano di averlo per Re».
Il municipio di Roma in memoria della visita a Napoli, pose questa lapide in Campidoglio, la cui epigrafe fu dettata dal professore Gnoli:
S. P. Q. R.
a ricordare ai posteri
che re umberto i
nel settembre 1884
accorreva a napoli
afflitta dall’epidemia colerica
recando negli ospedali e ne’ tuguri
coraggio, consolazione, soccorso
e vi restava finchè il morbo non declinava
fra le benedizioni di tutta italia
per lui trepidante
roma
lieta di risalutarlo incolume
superba del suo re
interprete della riconoscenza universale
pose
La deputazione provinciale, della quale facevano parte diversi consiglieri clericali, volle anch’essa presentare al Re un indirizzo, che fu redatto dal marchese Ferraioli. Fra i consiglieri che lo presentarono, dopo il ritorno dei Sovrani a Roma, mancavano soltanto il Tittoni, ammalato, e il conte Paolo di Campello, assente, il quale telegrafò scusandosi e dicendo di esser dolente di non poter fare in persona omaggio al Re.
Il ritorno dei Sovrani a Roma provocò una grande dimostrazione popolare, alla quale partecipo anche la provincia. Il Depretis era ammalato in quel tempo, e non lievemente, perchè gli attacchi di gotta non gli davano quasi più tregua, e il Re andò subito da lui e si trattenne lungamente, domandandogli in special modo se i ministri avevano preparata la legge per Napoli, che voleva veder discussa subito. Fu creata una medaglia d’oro speciale per il colera, e il Re ne insigni il duca d’Aosta, il cardinal Sanfelice, il prefetto di Napoli, conte Sanseverino-Vimercati, il sindaco Amore, i vicesindaci marchese di Campodisola e marchese di San Marco, gli on. Bonomo, de Zerbi e Capo, il cav. de Nobili, funzionante da sindaco di Spezia, che era morto di colera, e per questo la medaglia venne consegnata alla famiglia, l’assessore municipale de Bonis, e il signor Matteo Schilizzi.
La legge per Napoli fu votata dalla Camera prima delle vacanze, e le convenzioni ferroviarie, discusse in parte, e avendo acquistato maggior probabilità di essere approvate, rimasero in sospeso. Il generale Ricotti, al ritorno del Re, era stato nominato ministro della guerra invece del Ferrero, quella nomina aveva molto rafforzato il gabinetto.
Il Principe di Napoli, che in primavera si era meritata la cifra reale, come alunno del Collegio militare, sostenne sul finire dell’anno un esame al quale assisterono il Re, la Regina e il ministro della guerra. Il giovine principe fu interrogato dal colonnello Osio, dal capitano Morelli di Popolo, dai professori Morandi, Zambaldi e Perotti e dal canonico Anzino. Dopo quell’esame il ministro gli consegnò il brevetto di alunno della Scuola di Guerra.
I lavori così pubblici come privati erano spinti alacremente. Un battaglione operaio romagnolo era giunto per la bonifica di Ostia e Fiumicino. Erano un migliaio circa di uomini forti, costituiti in società, che venivano a sfidare la malaria, con la speranza di un buon guadagno; molti in dieci anni sono periti, ma il battaglione sussiste sempre e lavora sempre.
Il vasto quadrato del palazzo Poli era stato venduto dal principe di Piombino ai signori Basevi Belluni, i quali avendo demolito quella parte che occorreva per il nuovo tratto della via del Tritone, vi ricostruivano i molti palazzi che portano ancora il nome di Poli; la Società per il Teatro Stabile, dopo avere speso male molti denari per l’acquisto di commedie, come l’Humanitas del Pandolfi, che fece ridere tutta Roma, ne spendeva altri e non pochi per costruire in via Nazionale l’elegante teatro, che ha avuto per alcuni anni una certa voga. Era stata firmata con la società della Mediterranea una convenzione per la stazione di Trastevere, le demolizioni e le ricostruzioni continuavano su larga scala, al Tevere si lavorava e il ponte Rotto era stato chiuso, e s’incominciava a costruire quello Margherita.
Roma era piena di operai, piena per modo che essi formavano una casta a sè. Lavoro ce n’era per tutti e ce ne sarebbe stato più in seguito, cosicchè l’immigrazione continuava sempre e se si andava in un cantiere di costruzioni, si sentivano parlare tutti i dialetti d’Italia.
Nel concorso per il monumento a Cavour era riuscito vincitore Stefano Galletti; per quello al Sella il Parlamento aveva nominato una commissione.
Il Papa sul finire di quell’anno tenne un concistoro nel quale dette la porpora ai monsignori Massaia, Celesia, Verga, Laurenzi, Masetti, Gori-Merosi, Monescillo, Gangelbauer e Gonzales. Il Celesia era arcivescovo di Palermo, il Gangelbauer di Vienna, il Monescillo di Valenza, il Gonzales di Siviglia. Il cardinal Massaia era così malato che dovette andare al concistoro in portantina. Il lungo soggiorno in Africa avea minato la salute del coraggioso missionario. Il Celesia venendo a Roma a prendere il cappello, aveva partecipato al Governo la sua esaltazione al cardinalato.
Alla Corte si celebrarono le nozze della marchesina Melania Montereno di Villamarina col principe d’Abro, giovane armeno, che aveva stabilito a Napoli la sua dimora.
Una perdita dolorosa colpì il duca Torlonia; sua madre, donna Teresa di casa Chigi, giovane ancora e amatissima dalla famiglia, morì nel dicembre.
L’anno, che era stato funesto a tante provincie italiane, terminava con un fatto consolante: la nostra rendita per la prima volta si negoziava alla pari.
Quel 31 dicembre fu molto funesto pel professore Sbarbaro. Egli fu arrestato in casa di un certo Volpi, in via della Luce in Trastevere; la moglie era stata pedinata e le guardie avevano potuto scoprire il nascondiglio di lui. Sbarbaro aveva scommesso 100,000 lire col questore Serrao che non sarebbe riuscito ad arrestarlo, e la sfida era comparsa sulle Forche Caudine, che continuava a scrivere dal suo nascondiglio. Naturalmente la scommessa non fu pagata, ma il Serrao fu più contento di quell’arresto che se avesse intascata la somma, e per lo Sbarbaro incominciò da quel momento l’espiazione, che non fu lunga.