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Il Re era già stato a Busca e doveva andare a Pordenone alle corse. Egli telegrafa a Depretis: «A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore; vado a Napoli», e parte.
Il 7 settembre, il giorno funesto per Napoli, il Re giunse a Roma, e trovò alla stazione ad attenderlo il Duca d’Aosta, che aveva lasciato Torino all’improvviso, senza neppure una valigia, volendo dividere col fratello i pericoli. Alla stazione vi erano i ministri, i segretari generali e il Sindaco. Il Re volle essere informato dal Grimaldi e dal Brin della visita a Napoli, ed era così commosso da ciò che udiva che non riesciva a parlar d’altro.
Gli onorevoli Depretis e Magliani salirono nel treno reale; il Depretis, vecchio e malato, non esito un momento a fare il suo dovere. Mentre il treno partiva, il duca Torlonia, preso da una viva commozione, esclamò: «Tutte le benedizioni del cielo accompagnino vostra Maestà».
Il duca aveva parlato veramente col cuore, interpretando il voto di tutti i Romani. Qui non si pensava più alle minaccie dell’invasione colerica, che aumentavano ogni giorno; il pensiero di tutti era rivolto al Re, e si leggevano avidamente le descrizioni delle sue pietose visite agli infermi, si trepidava e si soffriva con lui.
La Camera e il Senato avevano spedito a Sua Maestà indirizzi d’ammirazione, da ogni parte d’Italia giungevano alla Reggia di Napoli proteste di devozione e di gratitudine, e telegrammi da tutti i sovrani del mondo. Si vuole che il Papa stesso ordinasse al cardinal Sanfelice di andare dal Re per encomiarlo della sua nobile carità. Leone XIII, spronato forse dall’esempio, ordinò ai parroci di essere caritatevoli, e destinò un milione alla costruzione di un lazzeretto a Santa Marta. Egli inviò anche il cardinal Vicario Parrocchi a visitare i ricoverati a Santa Sabina. Il cardinale, per un malinteso, non fu ricevuto dal dott. Placidi, che aveva preso troppo alla lettera l’ordine di non introdurre nessuno nel lazzeretto; fu però ammesso a quello militare.
Le notizie che giungevano da Napoli sull’opera benefica del Re, destarono nei romani il desiderio di fargli, al suo passaggio da Roma, una grande dimostrazione. Il Re lo seppe e fece telegrafare dal Depretis al prefetto che desiderava che ciò non avvenisse, perché aveva l’animo troppo commosso ancora, ma quando giunse e vide la folla che lo aspettava, quando sentì gli applausi della numerosa moltitudine, che invadeva tutte le adiacenze della stazione, quando il duca Torlonia gli disse: «Maestà, Roma orgogliosa del suo Re, vi saluta riverente. La popolazione vi chiede per significarvi da se stessa la sua ammirazione e il suo affetto per il più generoso dei Re», allora cedè, e si mostrò al popolo dalla terrazza che guarda le Terme.
Appena il Re comparve col duca d’Aosta accanto, migliaia e migliaia di voci invocarono sul capo di lui e su quello del fratello le più calde benedizioni e fecero udire gli evviva i più frenetici.
Il Depretis non ebbe applausi, ma tutte le persone che erano nella stazione vollero stringergli la mano.
L’atto spontaneo, generoso del Re, il coraggio dimostrato, l’efficacia della visita, il desiderio espresso che Napoli avesse acqua buona e fosse risanata, avevano dimostrato con fatti evidenti che Umberto amava come padre il suo popolo.
Non v’era, fra tanta unanimità di lodi per il Re, una voce sola discorde in tutta Italia.
Al banchetto dato a Mantova in occasione delle feste Virgiliane, il Carducci fino allora repubblicano e avaro di lodi ai sovrani, pronunziò un brindisi che mi piace notare. Egli disse:
«Non vorrei avere il rimorso che i brindisi portati alla Maestà del Re e della Regina fossero riusciti meno caldi per un riguardo alle opinioni politiche di qualche intervenuto. Io dunque porgo