Roma, parte I/VI
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VI.
La decadenza comincia subito con Antonino Pio e si accentua sotto i suoi successori. Di questo imperatore — che è giunto a noi con una fama di così perfetto filosofo da farci un po’ sospettare della verità se si pensa la protezione che egli marco aurelio accorda grazia ai nemici vinti - museo nuovo nel palazzo dei conservatori. offrì ai cristiani — rimangono ancora alcuni monumenti i quali ci permettono di seguire la lenta discesa dell’arte romana. Più robusta e più organicamente nazionale, l’architettura si trasformò meno rapidamente: ma oramai anche negli edifici la grandezza tende a sopraffare l’eleganza, e una grande sproporzione fra le diverse linee ci fa rimpianger l’armonia così perfetta delle costruzioni adrianee. Il tempio che Antonino Pio innalzò nel Foro Romano in onore di sua moglie Faustina l’anno 141 — che la storia ci ammaestra non esser stata veramente degna di questo onore — marco aurelio entra trionfalmente in roma. marco aurelio che sacrifica. museo nuovo del palazzo dei conservatori.(Fot. Alinari). è un buon esempio delle nuove tendenze architettoniche. Il pronao è formato da colonne di marmo caristio troppo grosso in relazione con lo spazio che intercede fra il limite esterno e la cella, e l’attico è decorato da un fregio di grifoni, troppo esiguo nella sua finezza per coronare un monumento così massiccio. Con tutto ciò il tempio conserva ancora una certa nobiltà di linee e un certo insieme nella composizione. La scultura invece, più rapida nel decadere, dimostra già le rughe e la canizie della sua vecchiaia.
Esistono a Roma molti sarcofagi che risalgono al governo di Antonino Pio: avanzi del «septizonium» di settimio severo, come era al sec. xvi (da una stampa antica). esiste anche il basamento di una colonna funebre innalzata nel Campo Marzio sul luogo stesso dove fu cremato il corpo dell’imperatore. Questa colonna — che molte guide confondono con quella di Marco Aurelio nella piazza vicina — fu scoperta nel 1704 all’angolo di Piazza Montecitorio e di via delle Missioni.
Consisteva in un fusto di granito rosa senza alcuna decorazione e sorgeva sopra quel colossale basamento che oggi si trova nel cortile della Pigna, in Vaticano. I bassorilievi di questo basamento rappresentano oramai l’ultimo sforzo di un artista che vuole esprimere un’idea di grandezza e l’apoteosi dell’imperatore, col grande genio alato distributore di corone, riesce in certo modo a riallacciarsi alla tradizione elleno-romana. Dove invece il sentimento barbarico principia a manifestarsi è nella scena di battaglia, i cui cavalli disposti in fila serrata e galoppanti per aria in più schiere sovrapposte, ritroveremo più tardi nei mausolei porfiretici del periodo costantiniano. L’arte oramai non sapeva più inventare e riproduceva con una abilità ogni giorno minore, i modelli già esistenti.
E i sarcofagi si coprivano di figure aggrovigliolate senza tener più conto degli scomparti architettonici; e le statue si ripetevano in identici atteggiamenti senza nessuno sforzo verso la verità e perfino le colonne non facevano che cambiare i personaggi delle decorazioni, pur mantenendo l’organismo e il concetto di quelle che esistevano. Un esempio di questa imitazione si trova nelle sculture di Marco Aurelio. Paragonato alle statue della buona epoca, il suo monumento equestre ci apparisce più che mai irrigidito in una posa ieratica, con gli occhi sbarrati, i ricciolini della fronte uniformi. Le numerose statue equestri che allora popolavano i monumenti romani debbono avere suggerito all’artista la forma del cavallo e l’atteggiamento del cavaliere; ma è l’ultimo sforzo e — si può anche affermare — l’ultimo bagliore che l’arte romana dà in quel crepuscolo imminente. Tanto è vero che i bassorilievi della colonna eretta in suo onore dopo le guerre dei Sarmati, dimostrano già — in mezzo ad alcuni particolari che per la loro raffinatezza vorrei chiamare di decadenza — la mano stanca e appesantita dell’artefice. — D’altra parte è evidente che il monumento fu una ripetizione della colonna di Traiano, ripetizione non fu fatta nè meno con esattezza e nella quale furono introdotte modificazioni nella palatino — avanzi del palazzo di settimio severo. (Fot. Alinari). proporzione, che le tolsero l’elegante armonia del modello originale.
Bisogna però aggiungere che i regni dei due imperatori filosofi non furono eccessivamente favorevoli all’arte. Il buon governo di Marco Aurelio non preservò l’impero dai flagelli delle guerre civili, delle carestie e delle pestilenze. È noto inoltre come il sovrano, deciso a non aumentare le gravezze dei suoi sudditi, vendesse le suppellettili imperiali, le raccolte di gemme e di vasi preziosi messe insieme da Adriano per poter sollevare i cittadini di Roma decimati dalla peste che gli eserciti d’oriente avevano portato nella metropoli l’anno 170 dell’Era volgare. Il greco Aristide ci ha lasciato scritto che in quel tempo l’universo era regolato come si sarebbe amministrata una casa: e questo dopo i regni fastosi e sontuosi dei suoi predecessori, giovò ad accrescere quella stanchezza che già si era manifestata negli artisti e nell’arte.
Una certa ripresa si ebbe sotto il governo di Settimio Severo, che fu un grande avanzi dello stadio. luogo per gli esercizi ginnici ed atletici. (Fot. Alinari). edificatore e che ha lasciato tracce non dubbie della sua magnificenza sul Palatino dove costruì un nuovo palazzo — e fu l’ultimo degli edifici imperiali — e uno Stadio le cui rovine s’impongono alla nostra ammirazione.
Se Sisto V non avesse distrutto il palazzo severiano, esso sarebbe in parte giunto ai nostri tempi con i suoi ripiani, le sue rivestiture di marmi e le sue colonne come si vede nel disegno tramandatoci dal Du Pérac, che nel secolo XVI ebbe la ventura di vederlo ancora in buono stato.
Ma il terribile papa marchigiano, che fu forse con Ercole d’Este uno dei primi ideatori delle grandi città moderne, solcate da larghe vie in linea retta, passò nella storia per essere uno dei più grandi distruttori di antichi edifici che ricordi Avanzi dello stadio - la tribuna imperiale. (Fot. Alinari). l’umanità. Così come è oggi il palazzo di Settimio Severo apparisce come una costruzione colossale, prospicente sul Circo Massimo e dai cui balconi doveva essere possibile vedere le corse e i giuochi nell’Ippodromo. Esso doveva avere le sue terme, i suoi triclinî, i suoi porticati e i suoi cortili, se bene sia difficile ricostruirne esattamente il piano primitivo. Esso dovette anche comunicare, per mezzo di un edificio grandioso decorato da un’abside immensa, nel grande Stadio privato, dove potevano darsi comodamente spettacoli ippici e giuochi ginnastici. Gli scrittori dell’antichità non parlano di questo stadium palatino che gli scavi giudiziosi del 1893 hanno quasi completamente rimesso alla luce e dove furono trovate pregevolissime opere d’arte. Arco di Settimio Severo nel Foro Boario. (Fot. Alinari). Immaginato, con ogni probabilità, da Adriano e distrutto nel grande incendio del 191, fu ricostruito da Settimio Severo che lo ingrandì e lo decorò con più regale magnificenza. Lo Stadio era formato da una grande palestra ovale, circondata da un portico le cui colonne di mattoni erano rivestite da marmi preziosi. Piccoli camerini arco di settimio severo nel foro romano. riscaldati — le tubature dei caloriferi sono ancora visibili — lo chiudevano nella sua estremità settentrionale; nicchioni adorni di statue, bassorilievi elegantissimi, altari e sedili di marmo ne decoravano i lati. Disgraziatamente è arduo ritrovarne la forma primitiva e varie tegole e mattoni col sigillo di Teodorico ci dimostrano che verso il V secolo nuovi edifici o per lo meno nuovi restauri vennero a modificarne l’aspetto.
terme di caracalla — avanzi del peristilio. (Fot. Alinari).
Ma con il gruppo delle costruzioni severiane, il Palatino acquistava una fisonomia definitiva. Una vera città di marmo e di bronzo si stendeva oramai dalle pendici del Circo Massimo, fino alle alture capitoline. L’estremo lembo coperto da Settimio Severo, con un palazzo la cui magnificenza pomposa risentiva già delle nuove tendenze, era unito — per mezzo dello Stadio — alla casa di Augusto e da questa con un criptoportico che si svolgeva intorno all’estrema area del colle, agli edifici di Caligola e di Tiberio.
Mai gli uomini avevano veduto una più vasta serie di palazzi marmorei, scintillanti d’oro e di pietre preziose e mai gli uomini dovevano vederne una eguale nei secoli avvenire. Tutti quelli edifici, coi loro templi, con le loro terme, coi loro giardini, coi terme di caracalla. busto di caracalla — museo vaticano.
(Fot. Alinari).
loro musei, coi loro portici, coi loro teatri, con le loro basiliche, con le loro biblioteche formavano una rocca meravigliosa lucente di marmi preziosissimi, scrosciante di fontane, scintillante di cupole e di statue d’oro. La smisurata ricchezza dell’impero romano aveva trovato il suo tempio sul Palatino, e il colle roccioso e boschivo su cui i primi pastori erranti del Lazio avevano innalzato le loro capanne rotonde cingendole di un rozzo muro di difesa contro le incursioni e gli assalti delle borgate vicine, risplendeva oramai di tutte le gemme, come un colossale altare innalzato dagli uomini riconoscenti alla bellezza di Roma!
Disgraziatamente però, erano quelli i supremi bagliori di una luce che stava per estinguersi. Oramai l’arte precipitava. Se l’architettura poteva mantenere ancora un certo decoro e una parvenza di nobiltà, grazie alla mole imponente dei suoi edifici, la scultura non sapeva più ritrovare le forme armoniose che l’avevano resa illustre nel mondo. Lo scalpello degli artisti romani diveniva ogni giorno più inetto e cercava di nascondere la sua miseria, sotto una sovrabbondanza di ornati, di fogliami e d’intagli che a mala pena celavano l’insufficienza della tecnica. E quando lo scultore era costretto a ripetere quei bassorilievi storici a cui i Romani erano abituati e che a Roma avevano trovato la loro più alta espressione, si vedevano quei poveri riquadri, lavorati malamente, e vera opera da nani incrostata sopra un edificio immaginato da giganti. Esempio della prima maniera è l’arco che gli argentieri e i mercanti di vaccine eressero in onore dell’imperatore Settimio Severo, di sua moglie e dei suoi figli l’anno 204 dell’Era volgare. Mentre troviamo l’impoverimento dell’arte scultoria nei bassorilievi scolpiti sull’arco del Foro Romano, eretto un anno prima per onorare le guerre imperiali1 Misere sculture intente a magnificare le faticose vittorie riportate a forza di stenti e di sacrifici sopra quei barbari che già tumultuavano ai confini e scendevano minacciosi come una procella, contro la potenza della metropoli.
Ma in tante preoccupazioni e in tante minacce che stringevano l’impero come in un cerchio rovente, la vita di Roma continuava nella magnificenza e nell’ozio. Si direbbe anzi che, presaghi delle prossime rovine, i Romani volessero annegare in un obblìo voluttuoso l’ora presente che urgeva. Gli ultimi edifici, in fatti, veramente degni del nome di Roma sono le terme.
Mai come ai tempi di Caracalla e di Diocleziano questi grandi edifici di lusso e della disoccupazione cittadina avevano trovato un aspetto più seducente e più ricco. Le terme — che cominciate da Settimio Severo, furono condotte a fine da Caracalla, fra il 200 e il 235 di Cristo — apparvero anche alle popolazioni romane come una visione di suprema magnificenza. Esse furono colossali, colossali nelle proporzioni, colossali nelle decorazioni, colossali nel volume d’acqua che gli acquedotti riversavano nelle loro piscine, per le statue che decoravano i loro cortili e le loro aule, per i marmi preziosi che rivestivano le loro pareti. Esse potevano contenere 1600 bagnanti e misuravano 220 metri di lunghezza su 114 di larghezza. Sale per i bagni d’aria tepida (tepidarium), per quelli di acqua calda (calidarium) e d’acqua fredda (frigidarium), piscine colossali per il nuoto, gabinetti di massaggio, palestre ginnastiche per la reazione, cortili e peristili per il passeggio e le conversazioni, si aprivano nel centro del recinto, le cui muraglie si chiudevano ai lati in due esedre colossali.
I pavimenti erano di mosaici bianchi e neri, rappresentanti mostri e divinità fluviali o marine. Le aule decorate con fontane di porfido e d’alabastro e con gruppi colossali, quali il Ratto d’Europa — attualmente nel museo di Napoli —, si aprivano su spaziosi cortili adorni di fiori. Colonne di porfido e di granito, di giallo antico e di caristio sostenevano le architravi e le volte, dove si rincorrevano ghirlande e fregi di stucco, rosoni e riquadri ornamentali. La loro mole era così enorme, che non ostante le devastazioni dei barbari, le rovine degl’incendii, le demolizioni dei papi, esse rimangono ancora, nelle loro muraglie gigantesche, nelle loro volte, nei terme di diocleziano — (da una stampa del sec. xviii). loro archi penduli sul cielo e coperti di erbe e di fiori selvatici, come una sfida suprema degli uomini al tempo e alla rovina.
E poco dissimile da quelle di Caracalla dovevano essere le terme di Diocleziano, della cui estensione possiamo farci un’idea, pensando che la chiesa di San Bernardo e il corrispondente edificio rotondo di Via Viminale, erano due dei quattro calidaria che segnavano gli angoli estremi del recinto. Anch’esse ebbero le loro aule — la chiesa di Santa Maria degli Angeli con le 4 colonne di granito ancora al loro posto primitivo è una di quelle — i loro porticati, i loro edifici accessorii. Quasi per indicare il supremo sforzo della grandezza di Roma, l’imperatore Massimino che le costruì l’anno 302 in onore di Diocleziano suo predecessore, volle che fossero le più vaste di quante ne erano state fatte fino allora. E come per significare anche maggiormente la potenzialità di Roma, esse furono aperte solo tre anni più tardi, tanto fu l’impiego di schiavi e la profusione di denaro nell’opera magnifica che doveva misurare un circuito di 2000 metri e poteva contenere oltre 3000 bagnanti! Oramai la grandezza e il fasto erano l’unica visione e l’unico sogno degli imperatori romani, si direbbe quasi che nella suprema espansione alla loro potenza, sul limite ultimo della grandezza umana, essi volessero lasciare ai futuri abitanti della città, come la testimonianza indistruttibile di quello che era stato l’impero di Roma.
Questi furono gli ultimi bagliori dell’arte romana, prima che Costantino la raccogliesse magnificamente nella sua tomba barbarica. A poco a poco la stanchezza si era trasformata in paralisi: gli artisti non seppero nè meno più imitare. Troviamo qua e là sparsi avanzi e pietose reliquie di quelli anni di balbettìo: l’arco di Galieno e quello detto di Druso2 ci mostrano a quale gradino fosse discesa l’arte. Si tratta di costruzioni massicce, senza nessuna decorazione e senza nessuna scultura, semplici abbozzi architettonici i cui costruttori non avevano nè meno più la possibilità o il gusto di nobilitare con qualche forma d’arte. E pure l’imperatore Galieno aveva avuto cara la grandezza romana, e nei suoi giardini dell’Esquilino aveva restaurato quel tempietto di Minerva Medica, che ammirato durante tutto il rinascimento per la sua buona conservazione doveva suggerire a Raffaello uno dei suoi più graziosi medaglioni nella stanza della Segnatura.
Ma in mezzo a quel periodo di decadenza e di trascuratezza noi troviamo un ultimo edificio che, per le sue memorie e per le sue tradizioni, sembra riallacciare l’estrema decadenza di Roma, con la sua prima e più pura origine. Intendo parlare del tempio di Vesta nel Foro.
Nessuna divinità aveva avuto a Roma un culto più divoto e più religioso di questa Dea italica, custoditrice della fiamma e dell’acqua, che i primi abitanti del Palatino dovevano aver adorato in una capanna circolare, con riti pieni di mistero e di poesia. Già nella leggenda di Romolo, troviamo stabilite le regole rigidissime cui dovevano sottostare le sacerdotesse. Queste vestali avevano voto di castità, perchè pure mantenessero le cose pure a loro affidate. Vestivano una stola sopra una corta tunica di lino (carbasus) con l’aggiunta durante le funzioni di uno scialle di panno bianco orlato tutto intorno e chiamato suffibulum perchè chiuso da una fibbia arco detto di druso sulla via appia.(Fot. Alinari). sotto la gola. I capelli erano stretti intorno alla testa da una benda di lana bianca (infula) tenuta stretta da due nastri (vitta). La rottura del voto di castità era punita con il seppellimento da vive e Valerio Massimo (VIII. I) ci fa sapere che le accusate dovevano portare uno staccio pieno d’acqua del Tevere al Tempio per dimostrare — se l’acqua non cadesse — la loro purezza. Esse vivevano in comunità, sotto l’amministrazione di una vestalis maxima, specie di badessa scelta fra le più meritorie del collegio, nell’edificio sontuoso posto fra le falde del Palatino e la fontana di tempio di minerva medica.(Fot. I. I. d’Arti Grafiche). Giuturna, intorno al piccolo tempio rotondo dove era custodita la fiamma sacra di Roma.
Preservato sempre a traverso le molte vicende della città, l’Atrium vestae fu finalmente distrutto sotto il regno di Commodo dal grande incendio del 191 e il Palladio, salvato a stento dalle fiamme, fu in quella occasione trasportato sul Palatino e veduto per la prima volta dal popolo romano.
Ed ecco che trenta anni dopo uno spirito femminile che rimane per noi il mistero di quel periodo fortunoso, vuole ricostruito il tempio, adornato il palazzo con più grande magnificenza, riorganizzato il culto della dea Vesta e il collegio di quelle Vestali che erano un poco la poesia e la nobiltà stessa della città. Fu Giulia Domna che sotto il governo di Alessandro Severo (222-235) dette nuova forma al tempio di Vesta. Così come ci apparisce oggi, la figura bizzarra e misteriosa di quella imperatrice della decadenza è per noi piena di suggestione. All’improvviso, in mezzo alle donne voluttuose e feroci dei satirici e degli storici romani, ecco che balza fuori questa Giulia Domna, sapiente, energica, dotta, libera di pensiero e di attitudini, in una parola, moderna. Amica dei filosofi cristiani, istruita profondamente delle idee tempio di minerva medica. e delle tendenze che si agitavano intorno a lei, ella è per noi un curioso enimma di cui ancora l’ultima parola non è stata detta.
Certo, la sua figura dimostra sopra tutto una cosa: che le condizioni morali del popolo romano erano profondamente modificate. Come la religione non era più l’antica fede primitiva dei tempi repubblicani, così l’anima si era trasformata, avvicinandosi a quel grado di civiltà che i cristiani si vollero attribuire più tardi. In quel periodo della storia di Roma, Giulia Domna ci dimostra come la femminilità si fosse rialzata e come oramai le donne romane possedessero un’anima libera e foggiata secondo un tipo personale. Il cristianesimo non doveva dunque risollevare la vita l’atrio di vesta.(Fot. I. I. d’Arti Grafiche). cortile delle vestali.(Fot. I. I. d'Arti Grafiche). morale della parte femminile dell’impero, come si è sempre vantato di aver fatto: Giulia Domna ci apparisce su quel limitare del III secolo quasi l’immagine viva della nuova donna romana.
E la ricostruzione sontuosa del tempio di Vesta è ancora una affermazione della
edicola di vesta.
sua anima curiosa ed ardente. Certo, il nuovo edificio dovette essere sontuoso, col cortile adorno di fontane e di fiori, con le stanze incrostate di marmi preziosi, con i bagni e i sacrarii dove i mosaici e le pietre rare formavano disegni di una rara bellezza. Anche oggi, il grande cortile, adorno di statue muliebri che la pietosa genialità di Giacomo Boni ha ricoperto d’oleandri e di rose, ci fa rivivere la vita
dissepolta di quelle vestali. Le immagini delle loro sacerdotesse maggiori stanno ancora nell’attitudine convenzionale intorno ai pilastri del peristilio. Gli artisti che scolpirono quelle statue trovarono un mezzo ingenuamente puerile por indicarci la verginità di quelle vestales maximae già anziane e ci dettero un corpo giovanile e delizioso nella linea eretta del seno e ferma delle anche, su cui il volto già sfiorito e rugoso acquistava un’austera serenità. statua di vestale massima — museo nazionale.
(Fot. Alinari).
Le basi dei piedistalli ci fanno sapere anche i nomi di quelle sacerdotesse insigni: Numisia Maximilla, Terentia Flaviola, Flavia Publicia, Cœlia Claudiana, Terentia Rufilla, e appartengono quasi tutte a quel III secolo già così rozzo oramai nell’arte della scultura.
Un’ultima data si legge sopra un ultimo piedistallo: 362. Ma l’iscrizione è abrasa e i nostri occhi non possono leggere il nome di colei che fu ritenuta indegna di quell’onore supremo. Chi fu mai? E quale il suo delitto? Fu, come vogliono alcuni, una vittima d’amore, punita per il suo dolce peccato e cacciata anche dopo morta dalla comunità dove era vissuta e che aveva contaminato travolta dalla passione? O pure fu quella vestale che vinta dalle dottrine di Cristo abbandonò il carbaso e il suffibulo del suo sacerdozio per nascondere nelle tenebre delle catacombe la nuova speranza? Le rose crescono intorno al piedistallo muto, e un eguale oblio avvolge il suo nome e i luoghi che seppero il suo dolore.
Ma quello era veramente l’ultimo crepuscolo e l’oscuro fato di Costantino già minacciava l’integrità dell’impero: il giorno in cui le milizie dell’imperatore battevano quelle del suo rivale Massenzio nella vallata tiberina di Ponte Milvio, una nuova Era stava per cominciare al mondo. E quando in riconoscenza di quella vittoria fu riconosciuto il cristianesimo religione dello stato, era tutta l’antica società che crollava, e con essa tutta un’arte, tutta una letteratura, tutta una scienza. Monumento di questo fatto è l’arco che il Senato e il popolo romano eressero di contro alla Meta Sudante in onore dell’imperatore vittorioso. Ma l’edificio è anche il supremo anelito dell’arte romana, lo sforzo ultimo che ella fa per l’orgoglio di morire in piedi. E in fatti l’arco è grosso senza riuscire ad esser grande; le sue maggiori sculture sono tolte da un consimile edificio eretto in onore di Traiano, completate qua e là da rozzi bassorilievi che a pena sembrano appartenere ad un popolo civile. La scultura oramai ha perduto ogni forma. I busti tracciano a pena i contorni scalpellati grossolanamente come in quello di Massenzio che si conserva al museo Torlonia di Roma. Le statue o s’irrigidiscono sempre più come in talune immagini consolari del museo Capitolino, o cercano di stupire con la sproporzione e l’immensità come quel simulacro colossale di Costantino che si conserva nel cortile dei Conservatori in Campidoglio. Oramai la materia è più ricercata del lavoro. Si hanno busti di agata e di porfido, di diaspro o di brecciato su cui appariscono le teste di marmo dagli occhi policromi di uno spaventoso tempio di romolo. (Fot. I. I. d’Arti Grafiche). effetto barbarico. Anche i sarcofagi divengono colossali e perdono le eleganti proporzioni dei modelli primitivi.
Santa Elena — madre dell’imperatore — e santa Costanza sua figlia chiudono i loro corpi dentro enormi arche impiallacciate di porfido su cui sono intagliate rozzamente scene di battaglia, cavalieri in corsa, genietti alati intenti a vendemmiare. Chi poteva desiderare una snella urna di marmo greco, su cui a pena qualche decorazione architettonica metteva una nota d’arte, quando le cave di oriente offrivano al lusso dei parenti i loro marmi preziosi?
E così la forza cedeva ad una preziosità esagerata. Già le dame romane avevano preso l’abitudine di farsi ritrattare nei loro busti con parrucche movibili per poter seguire i capricci della moda.
A giudicare quel ritratti si vede lo sfarzo di una bizzarria, più tosto che la ricerca paziente del carattere. Bisognava solleticare prima di tutto la vanità del cliente e dimostrare al pubblico la sua ricchezza. Nè egli avrebbe saputo, nè lo scultore avrebbe potuto, desiderare o tentare una forma d’arte perfetta. Il centro del sarcofago in porfido rappresentante un trionfo dell’imperatore costantino. museo vaticano. (Fot. Alinari). mondo stava per spostarsi e una nuova civiltà — o per essere più esatti — una nuova armonia veniva formandosi lentamente sopra le rovine del pensiero classico. Oramai Roma, come una bella donna oppressa da’ suoi ornati troppo pesanti, stava per cadere esaurita dalla gravezza della sua armatura. Costantino arrivò al momento di questa agonia, e non seppe o non potè far altro che racchiudere il cadavere palpitante ancora dentro il suo mirabile mausoleo.
Del resto anche l’architettura degenerava. Le terme che egli edificò sul Quirinale non ebbero nè la resistenza nè la maestà di quelle che i suoi antecessori arco di costantino. arco di giano quadrifonte. (Fot. Alinari). avevano lasciato al popolo di Roma. Non potendo creare nulla di nuovo, si contentò di arricchirle con le statue e i marmi tolti ad altri edifici e sulla porta, quasi a guardia, pose le statue dei due Dioscuri, ultima riproduzione di immagini greche, che il popolo stupito doveva attribuire nelle sue leggendo allo scalpello di Fidia e di Prassitele che per lui rappresentavano la perfezione dell’ideale scultorio.
Anche la grande basilica, eretta nel lembo meridionale del Foro Romano, ci apparisce troppo grande, con le sue tre absidi sproporzionate e i pesanti foro romano — avanzi del tempio di saturno. (Fot. Alinari). cassettoni che ne decorano la volta, e i tronchi di colonne porfiretiche le quali ci dimostrano come l’ultimo imperatore avesse dovuto cercare, con lo sfarzo dei materiali, di ottenere quella meraviglia che i suoi predecessori avevano ottenuto con la sola potenza dell’arte. D’altra parte anche la tecnica veniva meno. Il piccolo tempio circolare che Massenzio innalzò a suo figlio Romolo sotto il Templum Sacrae Urbis e l’Ippodromo che questo stesso imperatore eresse sulla via Appia, ci dimostrano la deficienza della struttura. I muri si assottigliano e il materiale diviene meno saldo. A canto alle rovine delle terme di Caracalla o degli edifici imperiali del Palatino, quei ruderi sembrano tenui scheletri di esseri umani, contro le ossature colossali di giganti. E d’altra parte, l’impoverimento estetico si andava manifestando sempre tempio dei consenti.(Fot. I. I. d’Arti Grafiche). di più. Già abbiamo veduto a quale indecoroso ripiego erano discesi gli antichi Romani per innalzare l’arco del trionfo cristiano all’imperatore. Più tardi, nel Velabro, non sentiranno nè meno il bisogno di quel prestito forzato a monumenti anteriori, e l’altro arco detto dalla sua forma di Giano Quadrifronte non sarà che un massiccio e informe cubo di muratura, ricoperto di marmi e privo di quei bassorilievi che avevano fatto la gloria e la gioia dei Romani. La mano d’opera cedeva: i nuovi architetti non sapevano costruire più. Ancora qualche anno e coloro che saranno chiamati a erigere la tomba dell’imperatrice non potranno nè meno incurvare la volta e saranno costretti a usare olle di terracotta per alleggerirla in modo che possa sostenersi senza pericolo di strapiombare. Il ricordo dei mausolei imperiali era lungi anche nella memoria dei Romani degenerati.
E per conto suo l’imperatore era stanco di quel mondo che si andava sprofondando sotto i suoi piedi. Già egli aveva abbandonato le dimore troppo sontuose del Palatino per andare a vivere nel palazzo dei Laterani presso la porta Asinaria. Ancora qualche anno ed egli avrebbe gettato come un frutto troppo maturo quella sua metropoli meravigliosa. Oramai Roma era folta di monumenti così grandi e così belli che lo spirito umano non doveva più cimentarsi a crearne dei nuovi. Nel Foro — dopo l’incendio di Commodo — tutti gli edifici erano restaurati e ultimo a sorgere il tempio di Saturno levava sotto il Campidoglio le sue colonne di granito rosa. Si contavano, dentro la cinta delle mura in cui Aureliano aveva chiusa la Metropoli, 11 terme, 10 basiliche, 28 biblioteche, 11 fori, 22 statue equestri colossali, 80 statue d’oro di divinità, 74 statue crisoelefantine, quasi 4000 statue di bronzo e innumerevoli templi, e un popolo intiero di simulacri marmorei, di busti, di bassorilievi, di erme, di colonne votive.
Arrivata a questo punto di magnificenza, Roma non avrebbe più potuto progredire e la paralisi che la minacciava stava per trascinarla sotto il peso della sua propria grandezza. E d’altra parte la gente nuova, quei cristiani avidi di potere e ambiziosi alla loro volta di dominio universale, aspettavano con l’ardore delle loro brame costrinte, l’ora propizia per tutto conquistare e per spingere sotto una minacciosa rovina perfino la memoria di quel paganesimo orgoglioso che li aveva tiranneggiati e contro cui avevano appuntate tutte le loro armi.
L’anno 367 dell’Era volgare — 54 anni dopo, cioè, dal giorno in cui Costantino il grande aveva riconosciuto a Milano la religione cristiana come religione ufficiale — un Vezio Agorio Pretestato, prefetto della città, edificava sotto le falde del Campidoglio un tempio ai dodici Dei protettori di Roma (Dii consentes). L’edificio rimane ancora, fra le rovine del Foro, con le sue magre colonne e la sua struttura meschina, pietosa reliquia di una fede moribonda, ultimo appello disperato di un innamorato di Roma alla negletta religione dei padri. E fra gli edifici sontuosi del Foro Romano, quel piccolo portico tutto bianco parla alla nostra vecchia anima latina come l’eco affievolita di una grandezza che sta per finire. Vezio Pretestato si alza come uno spettro sulle rovine dell’arte antica. Oramai dovremo ricercare nelle basiliche e nelle chiese gli albori di quella vita nuova che doveva recare al mondo una luce di inestinguibile bellezza. moneta dell’imperatore tito.
- ↑ È da notarsi come nelle iscrizioni dedicatorie dell’uno o dell’altro di questi archi, Caracalla abbia fatto togliere e sostituire il nome del fratello Geta da lui assassinato.
- ↑ Non si è potuto identificare in onore di qual personaggio sia stato eretto l’arco detto di Druso alla porta di S. Sebastiano. È evidente però che appartiene ai bassi tempi dell’impero.