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120 ITALIA ARTISTICA

loro archi penduli sul cielo e coperti di erbe e di fiori selvatici, come una sfida suprema degli uomini al tempo e alla rovina.

E poco dissimile da quelle di Caracalla dovevano essere le terme di Diocleziano, della cui estensione possiamo farci un’idea, pensando che la chiesa di San Bernardo e il corrispondente edificio rotondo di Via Viminale, erano due dei quattro calidaria che segnavano gli angoli estremi del recinto. Anch’esse ebbero le loro aule — la chiesa di Santa Maria degli Angeli con le 4 colonne di granito ancora al loro posto primitivo è una di quelle — i loro porticati, i loro edifici accessorii. Quasi per indicare il supremo sforzo della grandezza di Roma, l’imperatore Massimino che le costruì l’anno 302 in onore di Diocleziano suo predecessore, volle che fossero le più vaste di quante ne erano state fatte fino allora. E come per significare anche maggiormente la potenzialità di Roma, esse furono aperte solo tre anni più tardi, tanto fu l’impiego di schiavi e la profusione di denaro nell’opera magnifica che doveva misurare un circuito di 2000 metri e poteva contenere oltre 3000 bagnanti! Oramai la grandezza e il fasto erano l’unica visione e l’unico sogno degli imperatori romani, si direbbe quasi che nella suprema espansione alla loro potenza, sul limite ultimo della grandezza umana, essi volessero lasciare ai futuri abitanti della città, come la testimonianza indistruttibile di quello che era stato l’impero di Roma.

Questi furono gli ultimi bagliori dell’arte romana, prima che Costantino la raccogliesse magnificamente nella sua tomba barbarica. A poco a poco la stanchezza si era trasformata in paralisi: gli artisti non seppero nè meno più imitare. Troviamo qua e là sparsi avanzi e pietose reliquie di quelli anni di balbettìo: l’arco di Galieno e quello detto di Druso1 ci mostrano a quale gradino fosse discesa l’arte. Si tratta di costruzioni massicce, senza nessuna decorazione e senza nessuna scultura, semplici abbozzi architettonici i cui costruttori non avevano nè meno più la possibilità o il gusto di nobilitare con qualche forma d’arte. E pure l’imperatore Galieno aveva avuto cara la grandezza romana, e nei suoi giardini dell’Esquilino aveva restaurato quel tempietto di Minerva Medica, che ammirato durante tutto il rinascimento per la sua buona conservazione doveva suggerire a Raffaello uno dei suoi più graziosi medaglioni nella stanza della Segnatura.

Ma in mezzo a quel periodo di decadenza e di trascuratezza noi troviamo un ultimo edificio che, per le sue memorie e per le sue tradizioni, sembra riallacciare l’estrema decadenza di Roma, con la sua prima e più pura origine. Intendo parlare del tempio di Vesta nel Foro.

Nessuna divinità aveva avuto a Roma un culto più divoto e più religioso di questa Dea italica, custoditrice della fiamma e dell’acqua, che i primi abitanti del Palatino dovevano aver adorato in una capanna circolare, con riti pieni di mistero e di poesia. Già nella leggenda di Romolo, troviamo stabilite le regole rigidissime cui dovevano sottostare le sacerdotesse. Queste vestali avevano voto di castità, perchè pure mantenessero le cose pure a loro affidate. Vestivano una stola sopra una corta tunica di lino (carbasus) con l’aggiunta durante le funzioni di uno scialle di panno bianco orlato tutto intorno e chiamato suffibulum perchè chiuso da una fibbia

  1. Non si è potuto identificare in onore di qual personaggio sia stato eretto l’arco detto di Druso alla porta di S. Sebastiano. È evidente però che appartiene ai bassi tempi dell’impero.