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ROMA 127


dissepolta di quelle vestali. Le immagini delle loro sacerdotesse maggiori stanno ancora nell’attitudine convenzionale intorno ai pilastri del peristilio. Gli artisti che scolpirono quelle statue trovarono un mezzo ingenuamente puerile por indicarci la verginità di quelle vestales maximae già anziane e ci dettero un corpo giovanile e delizioso nella linea eretta del seno e ferma delle anche, su cui il volto già sfiorito e rugoso acquistava un’austera serenità. statua di vestale massima — museo nazionale.
(Fot. Alinari).

Le basi dei piedistalli ci fanno sapere anche i nomi di quelle sacerdotesse insigni: Numisia Maximilla, Terentia Flaviola, Flavia Publicia, Cœlia Claudiana, Terentia Rufilla, e appartengono quasi tutte a quel III secolo già così rozzo oramai nell’arte della scultura.

Un’ultima data si legge sopra un ultimo piedistallo: 362. Ma l’iscrizione è abrasa e i nostri occhi non possono leggere il nome di colei che fu ritenuta indegna di quell’onore supremo. Chi fu mai? E quale il suo delitto? Fu, come vogliono alcuni, una vittima d’amore, punita per il suo dolce peccato e cacciata anche dopo morta dalla comunità dove era vissuta e che aveva contaminato travolta dalla passione? O pure fu quella vestale che vinta dalle dottrine di Cristo abbandonò il carbaso e il suffibulo del suo sacerdozio per nascondere nelle tenebre delle catacombe la nuova speranza? Le rose crescono intorno al piedistallo muto, e un eguale oblio avvolge il suo nome e i luoghi che seppero il suo dolore.

Ma quello era veramente l’ultimo crepuscolo e l’oscuro fato di Costantino già minacciava l’integrità dell’impero: il giorno in cui le milizie dell’imperatore battevano quelle del suo rivale Massenzio nella vallata tiberina di Ponte Milvio, una nuova Era stava per cominciare al mondo. E quando in riconoscenza di quella vittoria fu riconosciuto il cristianesimo religione dello stato, era tutta l’antica società che crollava, e con essa tutta un’arte, tutta una letteratura, tutta una scienza. Monumento di questo fatto è l’arco che il Senato e il popolo romano eressero di contro alla Meta Sudante in onore dell’imperatore vittorioso. Ma l’edificio è anche il supremo anelito dell’arte romana, lo sforzo ultimo che ella fa per l’orgoglio di morire in piedi. E in fatti l’arco è grosso senza riuscire ad esser grande; le sue maggiori sculture sono tolte da un consimile edificio eretto in onore di Traiano, completate qua e là da rozzi bassorilievi che a pena sembrano appartenere ad un popolo civile. La scultura oramai ha perduto ogni forma. I busti