Rivista di Scienza - Vol. I/Rassegna di Fisiologia

Filippo Bottazzi

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Rassegna di Fisica II Annalen der Naturphilosophie
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RASSEGNA DI FISIOLOGIA.


Introduzione.


Come le altre due scienze naturali compagne, la Fisiologia è in continuo incremento; e questo presenta un duplice aspetto. Da un lato, la Fisiologia comparata estende il campo delle nostre conoscenze non solo sulle funzioni degli organi e dei tessuti di animali e di piante appartenenti alle specie più diverse, ma anche sulla vita degli organismi unicellulari; e il vantaggio che offre l’analisi comparativa è non solo quello di metterci in grado di stabilire principii sempre più generali fondati sopra osservazioni fatte su un numero sempre maggiore di organismi diversi, ma anche [p. 168 modifica]l’altro di farci scoprire, durante la ricerca laboriosa e non sempre fruttuosa, un organo o un tessuto che si presti meglio di ogni altro a risolvere un determinato problema di fisiologia. Ciò è accaduto, come dirò in una di queste rassegne, del problema della natura miogena o neurogena della funzione cardiaca, il quale avrebbe continuato ancòra chi sa quanto ad affaticare le menti degli sperimentatori, se il caso non avesse posto sotto gli occhi di un fisiologo americano il cuore d’un crostaceo, che vive solo in quelle acque, cuore il quale presenta le condizioni ideali per risolvere quel problema.

Dall’altro lato, l’applicazione, nell’indagine degli organismi viventi, dei principii e dei metodi della Fisica e della Chimica teorica motte la Fisiologia sulla sola via che può condurre a una spiegazione generale dei fenomeni vitali, vale a dire a una spiegazione causale d’ordine affine a quella dei fenomeni fisici.

In verità, non esistono che due scienze naturali fondamentali: la Fisica, che si occupa dei fenomeni che si svolgono nei sistemi non viventi, e la Fisiologia, il cui oggetto di indagine sono quei particolari sistemi stazionarii, che diconsi organismi viventi; e l’esperienza sempre più chiaramente insegna che tutti i tentativi di spiegazione dei fenomeni vitali fatti astraendo dai principii fisici sono vani, e che la Fisiologia non avanza, anzi retrocede e casca dai primi bagliori di luce, che su essa si viene spandendo, nel buio, quando si separa dalla Fisica.

I due aspetti, sotto cui l’incremento della Fisiologia si presenta, sono, del resto, quegli stessi che presenta l’incremento di ogni altra scienza: l’uno riguarda la scoperta di nuovi fatti, ed è connesso con l’estensione dell’indagine a sempre nuovi organismi e col progressivo perfezionarsi dei mezzi e dei metodi di ricerca; l’altro riguarda la spiegazione dei fatti, cioè la tendenza prepotente nell’uomo di condurre i fatti apparentemente diversi sotto principii comuni e sempre più generali, cioè di unificare la nostra conoscenza del mondo sensibile.

In questa rassegna, io mi sforzerò di tenere i lettori al corrente dei progressi che va facendo la Fisiologia sotto l’uno e sotto l’altro aspetto; ma, data la natura della Rivista di Scienza, io utilizzerò il poco spazio che mi sarà concesso per informare i lettori di preferenza sui progressi d’indole generale che vien facendo la Scienza naturale degli organismi viventi.

E trarrò occasione da ogni argomento più importante, non essendo lecito di credere che maggior interesse presenti, per esempio, una teoria generale delle azioni nervose riflesse che quella della funzione cardiaca, la teoria delle azioni biologiche degli ioni più che quella dei fermenti organici, o quella della contrazione muscolare, o quella della conduzione nervea ecc. [p. 169 modifica]

E poichè il progredire della Fisiologia avviene simultaneamente per più vie distinte in più campi differenti per opera di schiere diverse di lavoratori indefessi, io farò come l’ape che si posa or su questo or su quel fiore, per estrarne il nettare soave. E come i nettari diversi servono all’ape per la fabbricazione dello stesso miele, così le informazioni che io fornirò del vario progredire della Fisiologia serviranno a dare a chi legge un’idea del complessivo avanzamento di quella scienza.

E come il miele fabbricato con nettari di fiori diversi è più gustoso e aromatico a sentire, così non dubito che maggior godimento verrà a chi legge da una rassegna variata di fatti e di teorie diverse, che pur abbiano per unico filo ideale di giunzione l’odierno avanzamento della Fisiologia.

Incominciamo, pertanto, dal gustare il frutto di decennali fatiche d’uno dei più geniali fisiologi viventi nel campo della fisiologia del sistema nervoso centrale.


L’azione integrativa del sistema nervoso.


Ch. S. Sherrington - The integrative action of the nervous system. New York, Ch. Scribner’s Sons, 1906.
(Ved. anche dello stesso Autore: Ueber das Zusammenwirken der Rückenmarksreflexe und das Prinzip der gemeinsamen Strecke. Ergebnisse der Physiologie, IV Jahrg., pag. 797, Wiesbaden, 1905).

Il libro contiene dieci letture fatte dal fisiologo di Liverpool alla Yale University, qualche anno fa, nelle quali si trovano riassunti e magistralmente coordinati fra loro e con quelli di altri Autori, i risultati delle ricerche personali da lui fatte in molti anni di attività scientifica profonda e rischiarata da un lume di intelligenza non comune.

«La fisiologia delle reazioni nervose — dice l’A. — può essere studiata da tre principali punti di vista».

L’uno è il metabolismo delle cellule nervose; l’altro la funzione conduttrice degli eccitamenti nelle medesime; e il terzo concerne la loro funzione integrativa. «Nell’animale multicellulare, specialmente per quelle reazioni d’ordine superiore che determinano la sua condotta come unità sociale nell’economia naturale, sono appunto le reazioni nervose che lo integrano per eccellenza, che fanno di lui un’unità dai suoi componenti, e costituiscono un animale individuale da un mero aggregato di organi. L’azione integrativa, per la quale il sistema nervoso unifica e rende solidali gli organi d’uno stesso animale, facendone un individuo», è il problema che l’Autore scruta in tutti i minuti [p. 170 modifica]particolari, riuscendo a dare di quell’azione un concetto così chiaro come finora non si aveva in fisiologia.

Accennato poi agli altri modi inferiori d’integrazione, negli organismi superiori, passa a trattare dell’azione riflessa che è la pietra d’angolo di tutta la fisiologia del sistema nervoso; e mostra come il riflesso abbraccia almeno tre strutture distinte: un organo effettore (ghiandola o muscolo) in cui l’azione riflessa raggiunge il suo effetto; un conduttore, ossia una via nervosa conduttrice per cui passi l’eccitamento che raggiunge l’organo effettore; e un organo ricettore in cui, sotto l’influenza degli stimoli esteriori, s’inizia l’azione riflessa. Il conduttore resulta, nel maggior numero dei casi, almeno di due cellule nervose una connessa col ricettore, e l’altra con l’effettore. L’intera catena: ricettore, conduttore ed effettore — dicesi arco riflesso; e la parte di arco che comprende il ricettore e la metà con questo connessa del conduttore dicesi arco afferente, mentre l’effettore e la metà con lui connessa di conduttore può dirsi arco efferente.

L’arco riflesso è l’unità di meccanismo del sistema nervoso, quando questo è considerato nella sua funzione integrativa. L’unità di reazione nell’integrazione nervosa è il riflesso, perchè ogni riflesso è una reazione integrativa e nessuna azione nervosa al di sotto del riflesso è un atto completo d’integrazione. La sintesi nervosa d’un individuo da ciò che altrimenti sarebbe una mera aggregazione di organi contigui consiste in una coordinazione fatta da azioni riflesse. Ma sebbene l’unità di reazione nell’integrazione nervosa sia il riflesso, non ogni riflesso è un’unità di reazione, perchè alcuni riflessi sono composti di riflessi più semplici. La coordinazione, quindi, è in parte una composizione di riflessi.

E in questa coordinazione si distinguono due gradi.

Il primo grado di coordinazione consiste nel riflesso semplice: è la coordinazione che un’azione riflessa opera quando provoca da un organo effettore la risposta all’eccitamento d’un ricettore, tutte le altri parti dell’organismo supposte indifferenti e non partecipanti a quella reazione. In questo primo grado di coordinazione, dunque, il riflesso è considerato isolatamente, come se fosse separabile da tutte le altre azioni riflesse. Il riflesso semplice, però, è probabilmente una pura astrazione, perchè tutte le parti del sistema nervoso sono connesse fra loro, e nessuna parte è capace di reagire senza modificare altre parti ed esserne modificata, tanto più che il sistema nervoso è un sistema che mai può dirsi in assoluto riposo. Tuttavia il riflesso semplice è una utile, se non probabile, finzione. I riflessi presentano varii gradi di complessità: ora è di giovamento, nell’analizzare riflessi complessi, separare i singoli riflessi componenti, e considerarli a parte, come se essi fossero riflessi semplici. [p. 171 modifica]

Ma è avvio che, se l’integrazione del meccanismo animale è dovuta a coordinazione da azione riflessa, le azioni riflesse debbono esse medesime essere fra loro coordinate: la coordinazione da azione riflessa implica coordinazione di azioni riflesse.

Questa è il secondo grado di coordinazione. L’espressione della normale azione riflessa dell’organismo è una regolare coesistenza e sequenza di reazioni, come può agevolmente constatarsi osservando i movimenti che si fanno per mezzo della muscolatura scheletrica. La coordinazione implica: a) regolare esecuzione simultanea d’un certo numero di riflessi semplici, cioè un modello, una «complicazione» di riflessi; b) regolare esecuzione successiva d’un certo numero di azioni riflesse, vale a dire cominciamento d’un riflesso o d’un gruppo di riflessi semplici al cessare del gruppo precedente, in altre parole sostituzione successiva d’un modello o d’una figura o costellazione di riflessi o di gruppi di riflessi a un altro modello o figura che cessa d’agire. Ed è chiaro che, affinchè la successione avvenga ordinatamente niun componente della prima costellazione può rimanere attivo, se non sia destinato ad armonizzare con la nuova costellazione che entra in azione. Quando dunque ha luogo cambiamento d’un riflesso in un altro, è un cambiamento che si propaga a distanza sopra una serie coordinata di archi riflessi.

Questa composizione di riflessi fatta con ordine, simultaneamente e successivamente, costituisce la coordinazione, e la mancanza di essa costituisce l’incoordinazione.

L’Autore quindi passa all’analisi particolareggiata e profonda d’un numero assai grande di casi riguardanti il primo e il secondo grado di coordinazione, simultanea e successiva; ossia all’esposizione dei resultamenti ottenuti in molti anni di ricerche assidue, fatte con tecnica magistrale, principalmente sul cane (e anche sul gatto e sulla scimmia) spinale, cioè sopra animali nei quali i centri nervosi superiori (encefalo) erano stati separati dal midollo spinale, mediante taglio completo di questo a livello della porzione distale del midollo cervicale; vale a dire sopra animali, nei quali il midollo spinale, sottratto alle azioni inibitrici dei centri encefalici, presenta azioni riflesse grandemente accentuate.

Seguire l’Autore nell’esposizione particolare dei fatti, per un volume di 393 pagine, riccamente illustrato, e nel quale la materia è condensata in una forma breve, incisiva, conclusiva, è assolutamente impossibile. Solo per destare in chi legge queste righe il desiderio di consultare il libro, dirò ch’egli successivamente vi tratta del periodo di latenza dei riflessi, dei fenomeni di addizione nei centri, della irreversibilità di conduzione nei medesimi, del ritmo di risposta, del periodo refrattario, della corrispondenza fra intensità degli stimoli e intensità delle azioni riflesse, della [p. 172 modifica]sopravvivenza e affaticabilità dei centri di confronto con quelle dei nervi periferici, dell’inibizione reciproca, della combinazione e complicazione dei riflessi, dei fenomeni d’irradiazione e d’interferenza, dell’adattamento delle azioni riflesse, della posizione del cervello rispetto agli altri centri nervosi, e di molte altre cose, che solo l’enumerarle sarebbe assai lungo.

Meglio forse sarebbe esaminare qualcuna delle teorie dell’Autore come quella sul modo in cui gli eccitamenti si propagherebbero da un neurone all’altro (l’Autore è un convinto sostenitore della teoria del neurone e quindi della contiguità, e non continuità, fra i conduttori nervosi), che è una teoria chimico-fisica; o l’altra da lui espressa come principio della via comune (the principle of the common path), ecc.; ma della prima tratterò più opportunamente in altra occasione; prendiamo quindi a considerare solamente la seconda che, in verità, è di grande importanza. Non potremmo farlo meglio che servendoci delle stesse parole dell’Autore, (pag. 115 e segg.).

Se riguardiamo il sistema nervoso d’un organismo superiore qualsiasi, un carattere saliente del suo schema di costruzione ci colpisce, ed è il seguente.

Al cominciamento d’ogni arco riflesso trovasi un neurone ricettivo che si estende dalla superficie ricettrice all’organo nervoso centrale. Questo neurone è la sola via che possono battere gli impulsi generatisi nel suo punto ricettivo, qualunque sia la loro destinazione; esso è quindi una via esclusiva per i detti impulsi, ed altri impulsi generatisi in altri punti ricettivi non possono servirsene per andare ai centri. Un unico punto ricettivo però può agire in via riflessa sopra un grande numero di diversi organi effettori, cioè può essere connesso, mediante la sua via riflessa, con molti muscoli e ghiandole in molte e differenti regioni del corpo; e pure tutti i suoi archi riflessi partono da un solo tronco, da quel neurone afferente che conduce dal punto ricettivo periferico all’organo nervoso centrale.

Ma al termine d’ogni arco riflesso noi troviamo un neurone terminale, che è l’ultimo anello conduttore a un organo effettore (muscolo e ghiandola; quest’ultimo anello della catena, il neurone motore, differisce dal primo anello. Esso non trasporta impulsi esclusivamente generati in un’unica sorgente ricettiva, ma ne riceve da molte sorgenti situate in molte e varie regioni del corpo, e li conduce egualmente. Esso è l’unica via che battono gl’impulsi, di qualunque origine essi siano, per giungere o agire sul muscolo col quale quel neurone motore è connesso.

Per ciò, mentre il neurone ricettivo rappresenta una via privata, che serve esclusivamente agl’impulsi partenti da una sola sorgente, il neurone terminale o efferente è per così dire una via [p. 173 modifica]pubblica, comune a impulsi derivanti da molte sorgenti ricettive. Un’area ricettiva, p. e. cutanea, è analizzabile in punti ricettivi. Uno stesso organo effettore invece sta in connessione riflessa non solamente con molti punti ricettivi individuali, ma anche con molte e vario aree ricettive. Riflessi iniziantisi nei più svariati organi di senso possono incanalarsi per uno stesso neurone efferente ed esercitare la loro influenza sullo stesso muscolo. Così che un muscolo d’un arto è il terminus ad quem di molti archi riflessi iniziantisi in molte e svariate parti del corpo. Il suo neurone motore è una via comune a tutti gli archi riflessi che fanno capo a quel muscolo.

Prima di terminare nel neurone comune, però, gli archi convergono alquanto. Le loro vie privato sboccano nello vie internunziali dell’asse cerebro — spinale, che sono già comuni in vario grado a gruppi di vie private. Onde la via terminale, per distinguerla da queste vie comuni internunziali o centrali, può esser detta via comune terminale. Il nervo motore che va a un muscolo è una collezione di siffatte vie comuni terminali.

Da questa disposizione derivano certe importanti conseguenze. Una è l’impossibilità di ammettere essenziali differenze qualitative fra gl’impulsi nervosi derivanti da diversi nervi afferenti. Se due conduttori hanno un tratto in comune, difficilmente può ammettersi essenziale differenza qualitativa fra i loro modi di conduzione; e la via comune terminale deve esser capace di rispondere con ritmi differenti che diversi conduttori gl’imprimono. Se la sua scarica è un processo ritmico, come per molto ragioni sembra essere, la frequenza del suo proprio ritmo deve essere almeno così grande conio la maggiore di uno qualunque degli archi afferenti elio sulla stessa via comune terminale agiscono; mentre questa dev’esser capace di riprodurre i caratteri anche del ritmo più raro.

Una seconda conseguenza è che, ogni ricettore dipendende per la finale comunicazione col suo organo effettore da una via non sua esclusiva ma comune con altri ricettori, questo nesso necessariamente implica un uso successivo e non simultaneo della via comune da parte dei varii ricettori per un effetto differente o opposto.

Questo è il principio stabilito dallo Sherrington, e certamente non è necessario di illustrarlo con esempi per farne apprezzare la grande portata.

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I corpi proteici.


Le Proteine e gli Aminoacidi - Sintesi dei Polipeptidi - Le Protamine

Economia fisiologica dei corpi proteici.


Emil Fischer - Untersuchungen über Aminosäuren, Polypeptide und Proteïne. Berlin, J. Springer, 1906.
A. Kossel - Ueber die einfachsten Eiweisskörper. Biochem. Centralblatt, Bd. V. N. I-II, p. 1-33.
Idem - Nouvelles recherches sur la structure des Protamines et des Protones. Lyon, 1906.
E. Abderhalden - Lehrbuch der physiolog. Chemie. (Vorles. VII-XIII). Berlin und Wien, Urban et Schwarzenberg, 1906.
G. Mann - Chemistry of the Proteids. London, Macmillan and Co., 1906.
Russell H. Chittenden - Physiological Economy in Nutrition. London, W. Heinemann, 1905.

Non v’ha dubbio che, fra i costituenti organici degli organismi, il massimo interesse destano i corpi proteici, che sono da considerarsi come la più alta espressione dell’attività sintetica dei protoplasmi viventi. Gli zuccheri e i grassi, al confronto coi proteici, sono corpi semplicissimi. Di questi corpi proteici noi oggi distinguiamo tre classi: le Proteine, che sono, per così dire, i corpi proteici più genuini e primitivi; i Proteidi, che resultano dall’unione di Proteine con altri corpi di natura svariata (idrati di carbonio, acidi nucleinici, corpi cromogeni ecc.); e gli Albuminoidi, i quali in realtà non sono altro che derivati delle Proteine e sono caratterizzati dalla loro insolubilità e dal fatto che entrano particolarmente nella composizione dei tessuti connettivi e di sostegno.

Si comprende che è il problema delle Proteine quello che trovasi in prima linea, perchè sono esse che dànno un’impronta caratteristica all’intero gruppo dei corpi proteici. E in che consiste il problema accennato? Esso è duplice, e riguarda in primo luogo l’intima costituzione di quei corpi, e in secondo luogo il loro metabolismo nell’organismo animale.

I. — Per le ricerche principalmente di E. Fischer, noi oggi conosciamo bene l’intima struttura degli zuccheri; e per quelle principalmente di E. Fischer e di A. Kossel conosciamo anche la struttura dei corpi detti purinici, ai quali tanta importanza spetta nella composizione delle nucleine; per quanto riguarda le Proteine, invece, fino a pochi anni or sono, eravamo ancòra nel buio più completo.

I fisiologi e i chimici-fisiologi avevan fatto tutto quello che era in loro potere per gettare qualche luce sull’argomento, che tutti riconoscono d’importanza capitale. Essi erano giunti a distinguere, a isolare e a caratterizzare biologicamente parecchie dozzine di proteine naturali, e, secondo i caratteri della loro [p. 175 modifica]solubilità, precipitabilità ecc. ne avean fatto gruppi e sottogruppi. Alcuni rappresentanti della classe erano stati ottenuti anche allo stato cristallino. Per le fatiche dei fisiologi, sapevamo inoltre che i diversi individui chimici esercitano funzioni diverse, e che tutti, sotto l’influenza di speciali fermenti, subiscono profonde, caratteristiche scissioni.

Ciò non ostante, e malgrado i resultati delle analisi elementari e dell’esame particolareggiato dei prodotti dell’idrolisi fatta con acidi o con alcali forti ovvero con fermenti proteolitici, le nostre conoscenze sulla composizione chimica delle Proteine finora erano assai scarse, e si riducevano a questo, che da tutte, durante l’idrolisi, si formano successivamente, oltre ad ammoniaca, proteosi e peptoni, che sono corpi poco meno complessi delle proteine originali, e finalmente aminoacidi.

A questo punto erano le cose, quando, circa sei anni or sono, Emilio Fischer, il celebre chimico di Berlino, dopo avere risoluto gloriosamente il problema degli zuccheri e dei corpi purinici, incominciò a dedicarsi interamente, con ardore, allo studio dei corpi proteici, affrontando coraggiosamente un problema che era stato messo da parte da quasi tutti i chimici puri, con uno sdegno che mal dissimulava la sfiducia e il timore di non venire mai a capo di nulla, magari dopo molte e faticose ricerche sopra una classe di corpi, che per la loro enorme complessità e per le loro veramente incomode proprietà fisiche non presentavano por loro alcuna attrattiva.

Egli incominciò con uno studio minuto degli aminoacidi, come per porsi in grado di padroneggiare questi costituenti elementari d’ogni proteina; poi tentò e riescì a scoprire nuovi metodi per isolarli allo stato di purezza e per trasformarli nelle loro anidridi amidate, ottenendo così corpi risultanti dall’unione di due o più molecole d’uno stesso aminoacido o di aminoacidi diversi, ai quali corpi dette il nome di Polipeptidi, come per ricordare che di essi debbono esser costituiti i peptoni, la cui sintesi, insieme con la sintesi dei proteosi e delle proteine, era ed è il suo scopo supremo. Trovati i metodi opportuni, di questi egli inoltre si vale per isolare, fra i prodotti della idrolisi acida, alcalina o enzimatica, i varii aminoacidi, di cui deve servirsi nei tentativi di sintesi.

È chiaro, infatti, che, se si vuole con questi tentativi raggiungere lo scopo, bisogna conoscere tutti i corpi che nascono dalla scissione idrolitica delle varie proteine, sia essa operata dagli acidi, dalle basi o dai fermenti, per poi utilizzare le conoscenze così acquistate nei processi di sintesi. E in questi tentativi di sintesi, non bisogna procedere a caso, nè partire da corpi già molto complessi, come era stato fatto finora da Henninger (1878), da Fr. Hofmeister, da P. Schützenberger (1891), da U. Schiff (1898-99) [p. 176 modifica]e da altri; ma andare per gradi, ottenendo prima la unione di due, e poi di tre ecc. molecole dei più semplici aminoacidi, e poi quella di aminoacidi più complessi, e prima di una stessa specie e poi di aminoacidi diversi ecc., non curandosi del tempo e dell’immenso lavoro che siffatti tentativi sistematici e metodici esigono, ma sopratutto preoccupandosi dell’importanza dello scopo da raggiungere, che, come ho detto, è nientemeno che la sintesi delle proteine.

Per questa via appunto s’è messo il Fischer, e se i suoi sforzi siano stati coronati da successo lo dimostrano i resultati da lui ottenuti in soli sei anni di lavoro assiduo e indefesso.

All’inizio delle ricerche, erano conosciuti nove monoaminoacidi, dei quali otto erano stati ottenuti anche per sintesi: la glucocolla, l’alanina, l’acido α-aminovalerianico, la leucina, l’acido aspartico, l’acido glutammico, la fenilalanina e la tirosina; tre diaminoacidi, e la cistina, corpo solforato. Fischer ha accresciuto di molto lo lista dei mono- e diaminoacidi; ha trovato gli ossiaminoacidi, corpi assai importanti, perchè formano il ponte di passaggio agli zuccheri, e ha ottenuto la sintesi dei polipeptidi, differenziandoli coi nomi di di-, tri-, tetra- ecc. peptidi, secondo il numero di molecole di aminoacidi che ciascuno contiene, e per analogia coi mono-, di-, tri-, polisaccaridi. Con varii metodi, egli è giunto finora a preparare circa settanta polipeptidi di composizione diversa, come indicano i nomi che io ricorderò di alcuni pochi fra essi: glucil-glucina, glucil-alanina, leucil-alanina, ecc. (dipeptidi); glucil-leucil-alanina ecc. (tripeptidi); triglucil-glucina, dileucil-cistina ecc. (tetrapeptidi); leucil-penta-glucil-glucina (eptapeptide) ecc.).

Ricorderò il modo caratteristico in cui due molecole, per es. di glucina, si uniscono per formare il rispettivo dipeptide: il gruppo acido (carbossilico) di una molecola di glucina può unirsi col gruppo aminico dell’altra molecola, formando la prima anidride, e poi il gruppo acido della seconda molecola saldarsi col gruppo NH2 della prima, formando la seconda anidride, nel seguente modo:

CH NH2 CH NH2
| + | =
COOH COOH
CH2 NH CO
| | + H2O
COOH CH2NH2

(prima anidride)

CH2 NH CO
| | + H2O.
CO NH CH2

(seconda anidride)

[p. 177 modifica]Naturalmente la catena della glugil-glucina:

NH2CH2 . CO . NHCH2 . COOH


può essere prolungata a piacimento; e allo stesso modo può ottenersi l’unione di aminoacidi diversi.

Questi polipeptidi ottenuti dal Fischer sono in gran parte solubili in acqua, ed insolubili in alcool (eccetto qualcuno); formano sali con gli acidi minerali e con gli alcali, avendo essi, come del resto anche le proteine, caratteri basici e acidi; sono cristallizzabili, e fondono quasi tutti sopra i 200°, scomponendosi; contrariamente agli α-aminoacidi, che hanno sapore dolciastro, sono debolmente amari o insipidi, come i peptoni; contrariamente agli aminoacidi, i polipeptidi attivi sulla luce polarizzata hanno di regola un forte potere di rotazione; all’acido fosfowolframico reagiscono i dipeptidi semplici come gli α-aminoacidi, ma col prolungarsi della catena aumenta in loro la capacità d’essere precipitati. Di molto interesse è il fatto che alcuni polipeptidi, specie i più complessi, presentano la così detta reazione del biureto, cioè colorano in violetto il liquido in cui si trovano sciolti, quando vi si fa agire il solfato di rame in soluzione fortemente alcalina, reazione fra le più note dei peptoni e delle sostanze proteiche.

Per quanto riguarda l’idrolisi, i polipeptidi artificiali si comportano come i peptoni e le proteine: cinque ore di cottura in acido cloridrico concentrato sono sufficienti per scinderli completamente in aminoacidi. E finalmente Abderhalden e Fischer hanno dimostrato, indagando ventinove polipeptidi diversi, che alcuni di questi sono digeriti dal succo pancreatico, il cui potere idrolitico sui medesimi dipende in parte dalla natura degli aminoacidi onde sono composti, in parte dal loro ordinamento, inoltre dalla lunghezza della catena e specialmente dalla configurazione della molecola; in quanto che, di regola, vengono scisse solo le combinazioni resultanti di aminoacidi esistenti in natura e otticamente attivi; di guisa che, mediante il succo pancreatico, i polipeptidi possono essere distinti in classi diverse.

Come si vede, dunque, Fischer, è riuscito ad ottenere per sintesi corpi, che non sono ancòra, è vero, nemmeno i più semplici peptoni naturali conosciuti, ma che evidentemente rappresentano lo pietre onde resulta costituito l’edifizio e dei peptoni e delle proteine.

Ma l’interesse delle indagini del Fischer non consiste solamente nell’aver egli trovato la via che probabilmente condurrà alla sintesi delle proteine, bensì anche nell’aver gettato molta luce sulla struttura di questi corpi maravigliosi, nell’avere scoperto in che maniera i gruppi atomici più semplici, gli aminoacidi, [p. 178 modifica]si uniscono insieme nella costruzione dell’edificio più complesso; e soprattutto, poi, nell’avere, insieme col Kossel, messa in evidenza la possibilità dell’esistenza di passaggi chimici fra le tre classi fondamentali dei corpi organici: idrati di carbonio, proteine e grassi. Gli aminoacidi, infatti, onde resultano i polipeptidi artificiali e che si ottengono dalla scissione idrolitica di tutte le proteine, presentano strettissima analogia con gli acidi grassi: e d’altro canto con la leucina e con gli zuccheri presentano strettissima analogia i diaminoacidi, la lisina, l’arginina, che appunto per ciò, come per ricordare gli zuccheri a catena di sei atomi di carbonio, cioè gli exosi, furono dette da Kossel basi exoniche. Si pensi poi all’importanza che ha l’acido lattico negli organismi animali, e alla sua probabile derivazione da quei corpi a sei atomi di carbonio, per rottura in due della catena, e successiva ossidazione. Nè mancano gli anelli intermedii fra aminoacidi e zuccheri: se ne conosce già uno, importantissimo e molto diffuso, che è la serina; ma certamente altri ossiaminoacidi saranno scoperti fra i prodotti dell’idrolisi dei proteici.

Parallelamente alle ricerche di Fischer sulle Proteine e sui loro prodotti di scissione idrolitica hanno progredito quelle di A. Kossel sulle Protamine. Questi sono corpi fortemente basici, che imbluiscono la tintura di tornasole e formano sali combinandosi con gli acidi forti, pur essendo da considararsi, secondo Kossel, come i rappresentanti più semplici della classe dei corpi proteici. Differiscono dalle meno complesse proteine essenzialmente per due ragioni: 1°) perchè finora sono state trovate solo in combinazione con l’acido nucleinico (allo stato libero non si conoscono), negli spermatozoi dei pesci; 2°) perchè, la loro molecola pur essendo molto grande, contrariamente alla molecola delle più semplici proteine, la quale contiene non meno di 17 o 18 gruppi atomici diversi, contiene non più di 4 o 5 gruppi atomici distinti, che sono: a) il gruppo formatore d’urea (gruppo guanidinico); b) il gruppo dell’ornitina (acido α-δ-diaminovalerianico); c) il gruppo della lisina (acido α-ε-diaminocapronico); d) e il gruppo della alanina (acido α-aminopropionico). Di questi gruppi, quello della arginina, di cui fa parte il gruppo guanidinico, è il più abbondante, e può dirsi il costituente principale delle protamine, che per ciò sono, dunque, ricchissime di diaminoacidi e poverissime di monoaminoacidi. È singolare il fatto che non contengono cistina (prive di S!), nè gruppi idrati di carbonio; e in massima parte sono prive anche di tirosina (eccetto la ciclopterina). Kossel ha dato alle diverse protamine da lui studiate nomi che ricordano quelli degli animali cui appartengono i rispettivi spermatozoi: sturina, salmina, clupeina, scombrina, ciprinina ecc. [p. 179 modifica]

Sull’importanza teorica di queste singolari sostanze proteiche, gli Autori non sono però d’accordo. Secondo Kossel, un gruppo protaminico costituirebbe, come a dire, una specie di nucleo centrale d’ogni corpo proteico più complesso, in cui si troverebbe per ciò preformato. Secondo Hofmeister, invece, le protamine sarebbero piuttosto da considerarsi come prodotti di una speciale trasformazione delle ordinarie proteine durante il processo della spermatogenesi. E siccome evidentemente esse hanno composizione più semplice delle proteine, si direbbe che queste, per entrare a formare le teste degli spermatozoi, siansi spogliate del fardello di tutti i gruppi atomici non assolutamente indispensabili alle misteriose funzioni cui lo spermatozoo è destinato.

Che le protamine derivino da altre proteine sembra assai probabile, perchè, come si crede, nei salmoni, l’accrescimento dei testicoli avviene a spese della muscolatura del corpo, in un periodo della vita, durante il quale gli animali, si dice, non si nutriscono affatto. Inoltre, secondo Bang, negli spermatozoi immaturi, invece di protamine si troverebbero istoni, che sono corpi un poco più complessi; durante la maturazione, poi, nei pesci, gl’istoni darebbero origine alle protamine, mentre in altri animali rimarrebbero come tali e si combinerebbero con acidi nucleinici.


Accanto ai nomi di Kossel e di Fischer, però, non bisogna tralasciar di ricordare quello di Fr. Hofmeister, al quale dobbiamo, non tanto ricerche analitiche del genere di quello che formano il vanto di quei due Autori, ma vedute geniali riguardanti la più verosimile costituzione delle molecole proteiche e il modo in cui nelle medesime si troverebbero incatenate le molecole degli aminoacidi. Questo modo sarebbe quello già accennato dell’unione amidica; e le scoperte di Fischer lo hanno confermato; il che però non esclude che altri modi d’accoppiamento anche si diano; anzi Fischer lo crede fermamente, e ad alcuni altri modi già egli accenna nel suo libro. E ciò non può far maraviglia, se per un momento si pensi che «nella costruzione delle proteine e dei loro diversi e complessi derivati la natura, per quanto ne sappiamo, compie il suo più eccelso lavoro chimico, onde contraddirebbe a tutte le esperienze che possediamo nel campo della chimica organica e della biologia, se, nel produrre le proteine essa si fosse limitata a soli pochi tipi. Come dimostra il grande numero degli aminoacidi — prosegue il Fischer (pag. 81) — e il loro continuamente variabile rapporto quantitativo, esiste nella composizione delle proteine una variabilità incomparabilmente maggiore che in quella degl’idrati di carbonio e dei grassi. Se vi s’aggiungano le diverse possibilità di forme di combinazione, sopra accennate, veramente acquistano le proteine un’impronta chimica adeguata [p. 180 modifica]agli scopi per i quali natura le utilizza nelle formazioni e nelle funzioni dei diversi organi». Infatti tutte le differenze fra cellule e cellule, fra tessuti e tessuti, e probabilmente fra individui d’una stessa specie, e fra le varie specie ecc., differenze morfologiche e funzionali, sono certamente dovute in massima parte a differenze nella composizione chimica delle proteine costituenti la parte essenziale dei diversi protoplasmi viventi, ancorchè i nostri metodi analitici non siano per ora in grado di metterle tutte in evidenza.

II. La questione riguardante la minima quantità di sostanze albuminose necessaria e sufficiente a coprire i bisogni giornalieri della nutrizione dell’uomo ha sempre occupato la mente non solo dei fisiologi e degl’igienisti, ma anche degli economisti, perchè le sostanze albuminose si trovano in quella classe di alimenti che per l’appunto sono meno a buon mercato, pur essendo le sole assolutamente non sostituibili, nella dieta ordinaria, da altre sostanze. Noi possiamo infatti sostituire a piacimento nella nostra dieta una certa quantità di idrati di carbonio (amido, zuccheri) con una certa quantità di grassi, e magari sopprimere a dirittura i primi aumentando la quantità ingerita dei secondi, o viceversa, senza che l’organismo ne risenta danno; possiamo anche diminuire di molto la quantità di carne, che abitualmente introduciamo sempre in eccesso (s’intende, noi delle così dette classi medie e superiori), a patto di aumentare corrispondentemente la razione dell’amido o zucchero ovvero del grasso (burro, olio ecc.); ma non possiamo assolatamente diminuire, al di sotto d’un certo limite, la quantità delle sostanze albuminose, per quanto si tenti di sostituirle con quantità isodiname (cioè che, bruciate in un calorimetro, forniscano la stessa quantità di calore) di zucchero o di grassi, senza esporre l’organismo a gravi disturbi, che a lungo andare obbligherebbero ad abbandonare il regime scelto. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che le cellule dei nostri tessuti sono costituite in massima parte (l’acqua esclusa) di corpi proteici, corpi le cui molecole contengono, oltre all’idrogeno, al carbonio e all’ossigeno, che si trovano anche nei grassi e negl’idrati di carbonio, anche l’azoto e il solfo, alcuni anche il fosforo, ed altri finalmente anche il ferro. Ora noi non siamo in grado di sintetizzare questi elementi chimici, anche se fanno parte di corpi anorganici, in molecole di corpi proteici, operazioni che sono capaci di fare gli organismi unicellulari e le piante; e però dobbiamo introdurre nel nostro tubo gastro-enterico corpi proteici già bell’e formati. Chè se i nostri succhi digerenti li scindono, e dall’intestino vengono assorbiti principalmente i prodotti di questa scissione, ciò non contraddice a quel che dianzi è affermato, perchè questi prodotti di scissione sono già per sè stessi molto complessi e di natura [p. 181 modifica]assai diversa dai composti minerali azotati solforati e fosforati, ed è appunto quei prodotti di scissione che le nostre cellule viventi non sono capaci di formare per sintesi dai composti minerali, ragione per cui ci sono indispensabili. S’intende che la quantità di corpi proteici, calcolata per chilogramma di peso corporeo, di cui abbisogna un organismo in via di sviluppo e d’accrescimento, deve esser superiore a quella sufficiente a un individuo adulto, perchè quello deve aumentare la sua massa protoplasmica; ma numerose ricerche, specie di Voit, di Rubner, di Pflüger ecc. hanno ormai dimostrato in modo indiscutibile che di una certa quantità minima di corpi proteici nemmeno l’organismo adulto può fare a meno; verosimilmente perchè anche quando questo si trova nella pienezza del suo stato stazionario, sebbene non accresca più la massa costitutiva dei suoi protoplasmi, tuttavia in questi si svolgono azioni chimiche nelle quali una parte, piccola quanto si voglia, di proteici protoplasmatici va incontro a processi irreversibili, cioè deve considerarsi come perduta per l’organismo, che non può riacquistarla se non sotto forma di corpi proteici derivati da altri animali o dalle piante.

Teoricamente, quindi, la razione proteica d’un uomo adulto potrebbe essere ridotta a quella minima quantità stabilita come indispensabile, fornendogli poi tutto quel che gli occorre a coprire giornalmente la quantità di energia che libera sotto forma di lavoro muscolare, di calore ecc. in altrettanta quantità debitamente calcolata di idrati di carbonio e di grasso. Non bisogna però credere che per l’organismo sia del tutto indifferente ricevere l’energia potenziale da trasformare in lavoro e calore sotto l’una o l’altra specie di alimenti; essendo anche dimostrato che esso metabolizza con maggior facilità i corpi proteici che non i grassi e gl’idrati di carbonio, per cui, quando dei primi riceve in eccesso, esso sempre li brucia senza alcuna parsimonia, inconsapevole del loro valore e di quanto è costata la loro sintesi. Voi potete somministrare a un uomo o a un cane il doppio, il triplo di quanto gli sarebbe sufficiente di corpi proteici: invariabilmente nelle ventiquattr’ore tutto, o quasi tutto l’azoto in essi contenuto ricomparisce nell’orina in forma di urea, mentre l’organismo risparmia e immagazzina il grasso e lo zucchero.

Ciò non toglie però che sia dovere dell’uomo ragionevole d’infrenare questo sperpero di proteici, e compito del fisiologo e dell’igienista di stabilire la quantità minima di proteici necessaria e sufficiente con la quale un uomo adulto normale può conservarsi in buono stato di salute, pur lavorando e senza scemare di peso corporeo.

È questo il problema che s’è posto il Chittenden, valente chimico fisiologo americano; e per assolverlo s’è procacciata la [p. 182 modifica]collaborazione intelligente di una schiera di giovani volonterosi, alcuni dei quali lo aiutavano nelle indagini sperimentali, mentre altri (studenti, soldati ecc.) prestavano il loro corpo come oggetto di esperimento.

Naturalmente la più grave difficoltà che dovè superare fu, in parte il pregiudizio, scientificamente sanzionato dai fisiologi i quali prima di lui avevano studiato il problema della nutrizione dell’uomo, che a mantenere il bilancio giornaliero dell’azoto (eguaglianza fra l’azoto introdotto con gli alimenti e quello eliminato nell’urina e nelle fecce) fossero necessarii non meno di 100 a 134 e più grammi di proteici puri (e quindi una quantità tre volte e mezzo più grande di carne) al giorno, e in parte l’abitudine in tutti noi inveterata d’un’alimentazione eccessivamente e inutilmente ricca di proteici. Per intere generazioni, infatti, gli uomini essendosi assuefatti a questa dieta proteica eccessivamente grande, si comprende che, quando incominciano a diminuirla, avvertono come un languore, una debolezza per il loro organismo, e credono che sia necessario tornare alla dieta primitiva. Chittenden invece ha dimostrato che perseverando nella dieta carnea ridotta, e soprattutto riducendola gradatamente, non a un tratto, si finisce per adattarvisi e abituarvisi benissimo; e non solo si dilegua quel primo senso di debolezza, ma il corpo acquista maggior vigore, si trova sempre disposto al lavoro, e si finisce per avvertire un benessere generale superiore a quello di prima. È dunque un pregiudizio che il nostro vigore fisico e mentale, la nostra resistenza alle malattie ecc. siano aumentati da un’abbondante dieta carnea. Al contrario! Siccome i prodotti intermedii del ricambio dei proteici sono eminentemente tossici, quando s’introduce giornalmente una quantità troppo grande di carne, col sangue circolano per l’organismo una grande quantità di quei prodotti, che attossicano specialmente il sistema nervoso. Ed è appena necessario aggiungere che per digerire tutti i proteici, e per trasformare e rendere innocui i prodotti intermedii del loro metabolismo, e per eliminare per i reni tutta l’urea e l’acido urico che da essi si forma noi impieghiamo una enorme quantità di lavoro ghiandolare, che è a scapito della funzione dei tessuti più nobili, quali il muscolare e il nervoso.

Chittenden ha potuto ridurre, in sè stesso, la quantità giornaliera di azoto alimentare a poco più di 5 grammi, e cioè a grammi 0,1 circa per chilogramma del proprio peso corporeo, senza minimamente soffrirne, continuando sempre a lavorare nell’esecuzione appunto di queste ricerche e nel dirigere quelle dei suoi collaboratori, senza diminuire di peso, conservando tutta la potenza delle sue facoltà psichiche e il vigore del suo organismo. E nel maggior numero dei giovani sottoposti alle indagini sperimentali [p. 183 modifica], durante le quali facevano esercizi ginnici ecc., fu agevole stabilire e mantenere l’equilibrio dell’azoto con grammi 8,5-9,5 di azoto introdotto prodie, e con 2500-2800 calorie in toto; vale a dire fornendo all’organismo una quantità di proteici variabile da 50 a 60 grammi al giorno. Tredici soldati continuarono indisturbati a menare la loro vita da campo, alcuni non perdendo, altri guadagnando in peso, non ostante che giornalmente metabolizzassero da un minimo di grammi 0,106 a un massimo di grammi 0,150 di azoto per chilogramma di peso corporeo! Come si vede, siamo molto lontani dalle razioni proteiche di Voit e di Moleschott. E dopo il lungo periodo sperimentale quei giovani non sentirono più il bisogno di tornare alla primitiva dieta carnea abbondante; avvenuto l’adattamento, tutti si sentirono contenti del nuovo regime.

Non ho bisogno d’insistere sul significato economico dei resultamenti di queste ricerche; e non tanto in riguardo dell’economia sociale, quanto, e più, in riguardo dell’economia fisiologica; giacchè la dieta ideale è senza dubbio quella che conserva un organismo al massimo grado di vigore e di benessere col minimo consumo di materiali alimentari e quindi anche col minimo impiego di lavoro ghiandolare, viscerale, cardiaco ecc.

Università di Napoli.