Riva e il Garda
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
◄ | Contrasto (canto di Rodolfo) | Alla luna | ► |
VI
RIVA E IL GARDA
Cittá gagliarda,
cittá cortese,
perla del Garda,
figlia dell’italo
5nostro paese,
d’olive e grappoli
ricca e di fior;
terribil vergine,
come a Dio piacque,
10cui vaste abbracciano
montagne ed acque,
di chi ti visita
profondo amor;
spesso nell’umide
15notti stellate,
dalle inamabili
natie vallate,
per loschi valichi,
movendo a te,
20sul fresco vertice
del vicin clivo,
ai rezzi tepidi
di qualche olivo,
fervente d’estasi
25rattenni il piè.
E tra me dissi,
con gli occhi fissi
sovresso il tremulo
chiaror del lago:
30— Quanto sei vago,
gentil paese!
Sulle tue sponde
quanta discese
grazia del ciel!
35Corso dai zeffiri,
tócco dall’onde,
stivato d’áncore
quanto sei bel!
Dove fantastica
40la gioia impera,
ride sul Bosforo
Bisanzio altèra;
si specchia Napoli
nel suo Tirreno;
45Venezia palpita
del mare in seno;
sull onde Genova
danzando va.
Tu meno splendida,
50tu meno grande,
giaci ove l’ultimo
suo lembo spande
una penisola,
che sconta in lacrime
55la sua beltá.
Ma, in tacit'angolo
pur si riposta,
fra i cedri e i pampini
che ti fan serto,
60chi a te si accosta
sotto gli effluvi
di ciel sí aperto,
sente che l'agili
aure d’Italia
65respira ancor.
Ché sol dov’Eno
tra i cardi e l’erica
serpe inameno,
stridono i rididi
70venti, che abbattono
la mente e il cor.
Oh, qual si mesce
turba gioconda,
ch’urta e rincresce
75lundo i tuoi portici,
sulla tua sponda,
nobili i sandali
d’ausonia polvere,
cara cittá!
80Nome di patria,
terror di vili,
t’empie di spiriti
novi e gentili.
Fiammeggian l’anime;
85fervono l’opre;
consente l’etere
che del suo cerulo
manto le copre;
e in ferrei studi
90martelli picchiano,
stridono incudi;
e un verde e libero
guerrier volante1
fuor balza, e vigila,
95come un amante,
la tua beltá!
Premi all’indomito
Benáco il dorso,
campion dei vortici,
100divora il corso!
Recami, oh! recami,
le torri, e i floridi
del Sermione
campi a mirar;
105a udir la tenera
lesbia canzone,
e, in doglia ascose,
nude di balsami,
pianger le rose,
110che i crini al flebile
Catullo ornár.
Desio mi punge,
ritto tra i nuvoli,
l’agil pinnacolo
115mirar da lunge,
ove di Francia
gemea sommessa
la malinconica
bella contessa,
120pensando i patrii
fiumi e le glorie
non revocabili
dei prischi dí.
Vedute agli árbori
125le vele sciolte
correre correre
sul piano ondoso
senza riposo,
ahi! quante volte,
130nel disperato
terror dell’anima,
la illustre vedova
avrá sclamato:
— Addio, bei colli
135di Francia! addio,
aurette molli
del del natio!
Portate, o rondini,
questo mio grido
140nel dolce nido
che mi nutrí! —
Dá’ tregua, o povera,
a’ tuoi lamenti:
eterni spirano
145qui intorno i venti.
Forse nel l’aere
qualche straniero
bel cavaliero
senti ’l tuo gemito;
150forse in silenzio
sospira a te;
forse l’incognita
tua bella imagine
sorride e palpita
155nel cor d’un re.
Oh trasparenti
palagi aerei,
donde si esalano
l’aure tepenti
160del cedro! Oh simboli
devoti e sacri,
sculti nel rigido
sasso! Oh lavacri
di Tuscolano
165nitente e snella,
come ala morbida
di pavoncella
che guazza in mar!
Sotto le occidue
170nubi di rosa,
quand’io vi scerno
lontan lontano,
o eccelse cupole
della petrosa
175gentil Maderno,
sulla fuggente
onda dei secoli
l’accesa mente
gode varcar.
180Forse qui intorno
le indomit’ali
disteser l’aquile
del Tebro un giorno.
Qui ruppe un sònito
185d’ardenti evviva,
e i trionfali
lauri si colsero
da questa riva,
e tra quest’etere
190d’aranci pieno,
le vinte vergini
premendo al seno,
nei molli eloqui,
nei dolci nodi
195si spense il torbido
sangue dei prodi,
e i formidabili
sdegni tenaci
morîr nei baci
200del vincitor.
Che val ch’io noveri
le perle care
che ti circondano,
figlio del mare,
205Garda amoroso
nel tuo riposo,
Garda terribile
nel tuo furor?
Ahi, come lugubri
210mugghiano i campi
del ciel! Che obbliquo
baglior di lampi!
Perché sollevi
quelle onde nere?
215Perché le lievi
mobili aurette
muti in bufere?
Qual ti promette
mercé la Invidia,
220se ne’ tuoi vortici
naufrago andrò?
Ma non son vele
cedenti e fragili,
cui movi guerra,
225lago infedele;
non corde e gómene,
non remi ed alberi
tolti dal vergine
sen della terra.
230Lieve una spira
di fumo ondívago
castiga l’ira
che ti agitò.
Odi che il sibilo
235de’ venti sfuma;
tinta è dall’iride
l’orrenda schiuma;
dei lati gurgiti
l’arco in sé piomba,
240la tigre indomita
fatta è colomba.
Cosí mi allegri
gli occhi e lo spirito
conca diafana,
245lago gentil!
Ma ne’ tuoi negri
tumulti ancora
freme e precipita
l’anima mia.
250L’aure divora
pregne dell’orrida
disarmonia,
e col perverso
flutto, che s’alza,
255dal cor mi balza
libero il verso;
e, nella festa
della tempesta,
ardon le immagini,
260freme lo stil.
Addio, del ripido
Ponal torrenti,
gole nembose,
frane imminenti!
265Come una naiade
cinta di rose,
sul vostro calle
s’apre un’amabile
romita valle2.
270Ma rado albérgavi
lo sguardo e l’anima
del passeggier.
Se non che intrepidi
per gli antri cupi,
275nei boschi inospiti,
sull’erte rupi,
col primo effluvio
dei miti aprili,
passano, volano
280veltri e fucili;
e per le selve,
nei cavi spechi
le canne tuonano
sopra le belve.
285Del suon dei corni
squillano gli echi;
di caccia adorni
zaini e carnieri,
ecco i bracchieri
290con l’ansie mute
vincer le acute
punte, ravvolgersi
pei greppi infidi,
balzar sui penduli
295sassi omicidi,
ogni aspro salto
spiccar dall’alto,
vincere i triboli
d’ogni sentier.
300Ma, quando fervida
suoni la ruota
de’ cocchi, e gli erti
balzi si rompano
in calli aperti,
305verranno a stringerti,
naiade ignota,
de’ tuoi sí limpidi
laghi al tepor,
quanti si piacciono
310di queste stanze,
dove piú facili
urtano i cuori
le rimembranze;
dove nell’estasi
315del desiderio
trema il riverbero
d’antichi amori;
dove si lacrima
sui patri tetti;
320dove piú forte
con Dio ci legano
gli eccelsi affetti
che crea la morte;
dove, cogli aliti
325di primavera,
s’ama, si spera,
si crede ancor.
Verde e pacifica
valle, non io
330verrò sí celere
le tue ridenti
zolle a baciar;
perché lá dormono
troppo recenti
335le meste ceneri
del padre mio,
che né molt’oro,
né glebe dome
da molto armento,
340ma il gran tesoro
d’un casto nome
nel gran momento
seppe lasciar.
Cosí colorisi
345di qualche fiore
la poca terra
che ti ricovera,
buon genitore!
Trista è la guerra
350che i pii sostengono
colla fortuna,
ma dolce e provido,
quasi un amico,
presso la cuna
355sorge l’avel.
Cosí l’antico
capo dell’esule
brev’ora giace
su onesti e poveri
360guanciali assiso:
indi risvegliasi
pieno di pace,
bacia i suoi pargoli
con un sorriso,
365e va nel ciel.
Riva gagliarda,
cittá cortese,
perla del Garda,
figlia dell’italo
370nostro paese,
cogli occhi in lacrime
io riedo a te;
e alla progenie,
che in nuove tempere
375da te procede,
rammento i liberi
tempi e la fede,
le leggi e i carmi,
gli altari e l'armi,
380le tombe e i mártiri
che Dio ti die’.
Crescete, o figli,
crescete ai nobili
patri consigli!
385Rampogne il saggio
vibrar non osa;
non secca il fonte
del buon coraggio,
dove, operosa,
390fra cenci o porpore,
sudi la fronte
della Virtú.
Quest’aure piene
di arcani palpiti,
395queste serene
sponde, quest’ampio
bacino azzurro,
questo di musiche
dolce susurro,
400tutto v’inanimi,
fraterni spiriti,
a rifar l'inclito
tempo che fu.
Passa dei secoli
405l’onda infedele,
mescendo ai popoli
stille d’ambrosia,
nappi di fiele.
Ma il sol, che valica
410verso occidente,
l’aure desidera
dell’oriente,
dove l’Aurora
nei vacui talami
415poco si accora,
perché omai reduci
pei curvi calli
gl’ignei cavalli
sente arrivar.
420Cadon le stelle,
muoiono i fiori;
ma quindi nascono
queste piú belle,
quei piú mirabili
425d’ombre e colori.
Tutto risuscita
quanto si perde;
dall’erba al platano
tutto rinverde;
430sin nella tenebra
scintilla il giorno;
tutto è vittoria,
tutto è ritorno;
dal Faro al Brennero
435sperate unanimi;
anche la gloria
dee ritornar.
Me nella tacita
Dasindo assale
440talor di Pindaro
l’aura immortale,
quando, tra i vortici
d’olimpia polvere,
al giovinetto
445fervea profetico
l’inno nel petto;
l’inno, cui d’Elide
l’aura perpetua
risponderá.
450E, quando un fremito
di patria festa
dagli inamabili
tedi mi desta,
io, che pur amo
455questo sacrato
nido, ove dormono
Ferrucci e Procida,
Dante e Torquato,
io sorgo e sclamo
460nel vergin impeto
della pietá:
— Bella è l’Italia,
bella, siccome
un viso d’angelo
465pien di tristezza!
È vile, è barbaro
chi la fa piangere;
piú vil, più barbaro
chi la disprezza!
470Dolce è il suo nome,
come un saluto
di afflitta vergine,
ch’abbia perduto
l’antico onor.
475Ma in molli tempre
quel suo divino
nome pur sempre,
flebile o lieta,
sveglia la cetera
480d’ogni poeta;
geme nei pianti
del pellegrino;
suona nei canti
del pescator. —