Serenata

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Sonetto A Giuliano di Lorenzo de' Medici
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SERENATA.



SAlve, Donna, tra le altre donne eletta,
     Esemplo rado di bellezze in terra,
     O unica Fenice alma perfetta,
     In cui ogni beltà si chiude e serra;
     5Ascolta quel che ’l tuo servo ti detta,
     Poichè con gl’occhi gli fai tanta guerra,
     E credi, se tu vuoi esser felice,
     Alle vere parole, che ti dice.
Non vale esser di grande, ed alto ingegno,
     10Non vale aver potenza, aver valore
     A qualunque non cede allo alto regno
     Di Vener bella e del suo figlio Amore.
     Di costor solo è da temer lo sdegno,
     E l’ira, e l’implacabile furore,
     15Che l’una è donna, giovin l’altro e sciolto,
     Ed hanno a molti lo esser proprio tolto.
Onde io non per lenir mia sorte d’ira,
     O mitigar gli affanni, ch’io sostengo,
     Nè per mostrare il foco che si aggira
     20Intorno al cor, qual lacrimando spengo,
     Ma per pregarti che tu fugga l’ira
     Di questa Dea, con uno esemplo vengo,
     Acciò impari a fuggir la crudel rete
     Ove rimase presa Anassarete.

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25Avanti che l’italica virtute
    Ponesse il suo auspicato nido
     Ne’ sette colli, e fussin conosciute
     L’opere de’ Roman, la fama, e ’l grido,
     Furon le valli intorno possedute
     30Da varj regi, tanto che in quel lido
     Pervenne Palatino alla corona,
     Sotto cui visse la bella Pomona.
Ninfa non era alcuna in quella riva,
     Ch’amasse tanto i pomi quanto questa,
     35Onde ’l nome da’ pomi le deriva;
     Però che or questo con la falce annesta,
     Versa sopra quell’altro l’acqua viva
     Quando il Sol caldo le sue barbe intesta;
     Pota a quell’altro i rami secchi e torti,
     40E non amava, se non pomi ed orti.
A questi solo ella avea posto amore,
     Fuggendo al tutto di Venere i lacci,
     E le saette del fiero Signore,
     Dispregiando suoi prieghi o suoi minacci.
     45E perchè sendo donna, avea timore,
     Che violenza alcuno uom non le facci,
     Di mura l’orto suo circonda e fascia,
     Là dove entrar mai uom per nulla lascia.
I giovanetti Satiri d’intorno
     50Gli facien vani balli per placarla;
     Pan, e Sileno molte volte andorno
     Innamorati di lei a trovarla,
     E sempre dura e fredda la trovorno,
     Ma quel che si credea più caldo amarla,
     55Era Vertunno in fra tutti costoro,
     Nè più felice viveva di loro.

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E perchè la natura di mutarsi
     Gli avea concesso in variati volti,
     Soleva alcuna volta un villan farsi,
     60Ch’avesse allotta i buoi dal giogo sciolti;
     Ed ora in un soldato transformarsi,
     Ed or parea ch’avesse pomi colti;
     E così transformava sua natura
     Per veder sol di costei la figura.
65Dipoi, per quietar le fiamme accese,
     E per venir d’ogni suo voglia al fine,
     L’immagin d’una donna vecchia prese
     Con la rugosa fronte e ’l bianco crine,
     E dentro all’orto di Pomona scese
     70Tra pomi e frutte che parean divine,
     E salutolla e disse: Figlia mia
     Bella, e più bella assai, se fussi pia,
Beata ben tra l’altre ti puoi dire,
     Da che con questi pomi ti compiaci;
     75Poi la baciò, e lei potè sentire
     Non esser quelli d’una vecchia i baci,
     E simulando non poter più ire,
     Si pose sopra un sasso e disse: taci,
     Figliuola, se ti piace, meco alquanto,
     80E quest’olmo che è quì, pon mente intanto.
Vedi ancor quella vite, che lui serra
     Tra le sue fronde e la chiude e invoglie;
     Senza quell’olmo ella sarebbe in terra,
     E non si onoreria di tante spoglie.
     85L’olmo, senza la vite ch’egli afferra,
     Non arebbe altro in se, che rami e foglie.
     Così l’un senza l’altro in poco d’ora
     Inutil tronco, inutil legno fora.

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Tu nondimeno stai proterva, e dura,
     90E non ti muovi per lo esemplo loro,
     E di prendere amante non hai cura,
     Che dia agli anni tuoi degno ristoro,
     E benchè molti per la tua figura
     Sentino affanni assai, doglia e martoro,
     95Se creder tu vorrai a’ mia consigli,
     Vo’ che Vertunno per amante pigli.
Credi a me, che il conosco, costui t’ama
     Più che la vita sua, e te sol vuole,
     Sol te disia in questo mondo e brama,
     100E non cerca altra cosa sotto il sole;
     Costui tuo servo per tutto si chiama,
     Sol di te parla, sol ti onora e cole;
     Tu se’ il suo primo amor, e se tu vuoi,
     T’ha dedicati tutti gl’anni suoi.
105Oltre a di questo egli è giovane amante
     E può pigliar qual forma più gli piace:
     Come vorrai te lo vedrai d’avante,
     Pur che tu ceda all’amorosa face.
     Quello ama come tu gli orti e le piante,
     110E come te de’ pomi si compiace:
     E questa valle intorno, e questi fonti
     Ha sempre frequentato, e questi monti.
Et bench’egli ami assai i pomi, e gli orti,
     Ogni diletto nondimanco lascia
     115Per vederti e, veggendo, si conforti,
     E mitighi la fiamma, che lo fascia.
     Credi esso proprio a far questo ti esorti,
     Non una vecchia, che già il tempo accascia;
     Abbi misericordia di chi arde:
     120Grazie amorose mai non furon tarde.

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E se mai crudeltà ti tiene, o tenne
     Empiendo il petto tuo d’amaro fele,
     In Cipri io ti dirò quel che intervenne
     Ad una donna per esser crudele,
     125Qual contro al regno d’Amor dura venne,
     Proterva, iniqua, malvagia, infedele;
     Ma la vendetta tanto atroce, e rara
     Fa ch’ogni donna alle sua spese impara.
Amava Ifi, leggiadro giovinetto,
     130La bella e la crudele Anassarete.
     Ardevagli di foco il cor nel petto,
     Come una facellina arder vedete;
     Avea sempre quel volto per obbietto
     Che gli accendeva l’amorosa sete,
     135E fece molte prove seco stessi
     Se per se spegner quel foco potessi.
Ma poi che non potette con ragione
     In parte mitigar tanto furore,
     Davanti alle sua porte ginochione
     140Venne piangendo a confessar l’amore;
     E con umile, e pietoso sermone
     Cercava alleggerire il suo dolore,
     Ed or co’ servi, or con la sua nutrice
     I suoi affanni, e le sua doglie dice.
145Talvolta qualche lettera scrivea
     E le sua pene descritte mandolle.
     Spesso alla porta la notte ponea
     Fiori e grillande dal suo pianto molle;
     E spesso, per mostrar quanto egli ardea,
     150Dormire a piè della sua casa volle,
     Dove facea d’un freddo sasso letto
     Al miser corpo, all’amoroso petto.

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Ma costei più crudele era che ’l mare,
     Quando da’ venti è tempestato e mosso,
     155E via più dura ancor che ’l ferro pare
     Qual da Norico fuoco è fatto rosso,
     E più che ’l sasso, che fuor non appare,
     Ma stassi ancor sotterra duro e grosso;
     E con parole, e con fatti il disprezza:
     160Tanto era questa donna male avvezza!
Sopportar questo giovin non potette
     Del dolor la lunghezza, e del tormento,
     E lagrimando avanti all’uscio stette
     Della sua donna ripien di spavento;
     165Poi questa voce lacrimabil dette:
     Tu vinci, Anassarete. Io son contento
     Morire, acciò che più tu non sopporti
     I mia fastidj, e vittoria ne porti,
Orna le tempie tue di verde alloro,
     170Trionfa della guerra, ch’io ti mossi:
     Tu se’ contenta, e io contento moro;
     Poi ch’altrimenti piacerti non puossi.
     E poi che non ti muove il mio martoro,
     Come se ferro, o dura pietra fossi,
     175Godi, da che la sorte mi conduce
     A mancare or dell’una, e l’altra luce,
Perchè non ti abbia a narrare altra gente
     Il lieto nuntio della morte mia,
     Tu me vedrai co’ tuoi ochi pendente,
     180Il che maggior contento assai ti fia;
     Prendi, crudel, questo crudel presente,
     Ch’ha meritato la tua villania;
     Ma voi, Celesti, che questo vedete,
     Forse di me qualche pietate arete,

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185E se il prego d’alcun mai vi fu grato,
     Se mai cedeste a nostre umane voglie,
     Fate, che lungo tempo ricordato
     Sia questo mio morir, queste mie doglie.
     E che mi sia per fama almanco dato
     190Quel che durezza, e crudeltà mi toglie.
     E così detto, tal furor lo vinse
     Ch’intorno al collo un capestro si cinse.
Poi pien di caldi, e lacrimosi umori,
     Alzò tutto affannato gli occhi suoi,
     195E disse: cruda, questi sono i fiori,
     Queste son le grillande, che tu vuoi.
     In fin per terminar tanti dolori
     Si lasciò ir tutto pendente poi;
     E nel cader parve la porta desse
     200Un suon, che del suo caso si dolesse.
Fu portato alla madre il corpo morto,
     La qual lo pianse miserabilmente
     Dolendosi del Ciel, che li fa torto,
     Vedendo morto il figliuol crudelmente;
     205E non voleva udir priego, e conforto,
     Tanto era del dolore impaziente
     Per la sua sorte cotanto inmatura!
     Pur s’ordinò di darli sepoltura.
Mentre che ’l corpo al sepolcro n’andava,
     210D’Anassarete alla casa pervenne,
     La qual sentendo che ’l corpo passava,
     Di farsi alle finestre non si tenne.
     E come il volto di colui mirava,
     Sùbito pietra la crudel divenne;
     215Per tutto il corpo suo con grande orrore
     Diventò il sasso, ch’ell’avea nel core.

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Dunque, per la memoria di tal sorte
     Pon giù quella superbia, che tu hai.
     Segui il regno di Venere e la corte.
     220Se a mio modo, o Pomona, farai,
     Apri allo amante le serrate porte,
     Usa pietà, e pietà troverai.
     E, come questo la Vecchia ebbe detto,
     Si fece un bello, e gentil giovanetto.
225Talchè Pomona, parte per paura,
     Parte commossa da sì lieta faccia
     Non quasi stette od ostinata, o dura,
     Ma dal suo petto ogni crudeltà caccia;
     E di Vertunno assai lieta, e secura
     230Si mise volontaria nelle braccia;
     E visse seco un gran tempo felice,
     Se ’l ver di questo chi ne scrive dice.
Donna beata, a cui si canta, e suona,
     E voi d’intorno che questo intendete,
     235Imitate l’esemplo di Pomona,
     E non la crudeltà d’Anassarete.
     Ecco il tuo servo che piange, e ragiona,
     E di veder sol la tua faccia ha sete.
     E ti prega ch’al mal d’altrui ti specchi,
     240Ed a’ suoi prieghi porga un po’ gli orecchi.
Non è la sua età vecchia, e matura,
     Non è la vita sua tanto diversa,
     Nè sì brutto creato l’ha natura,
     Che tu debbi essere a sue voglie avversa.
     245Vedi la macilente sua figura,
     E dagli occhi le lacrime, che versa
     Da far pietoso un cor, benchè villano,
     E muover a sua posta un tigre ircano.

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Tu sapesti con arte, e con ingegno
     250Prender costui ad gli amorosi lacci,
     Però convien, che presto qualche segno
     Verso di lui benigno, e lieto facci.
     Altrimenti ripien d’ira, e di sdegno
     Convien, che morto alla tua porta adiacci;
     255Poi satisfaccia all’amoroso inganno
     Venere Dea con tua vergogna, e danno.
Da ogni parte dunque se’ constretta
     A rispondere, o Donna, a chi ti chiama;
     Dall’un canto ti sforza la vendetta
     260Contro a colei, che amata non ama.
     Dall’altro canto il premio che si aspetta
     A chi seguir d’Amore il Regno brama;
     Però posa ogni voglia altera, e schiva,
     E fa’ con lui felice, e lieta viva.