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LA NUTRICE

ODE

diretta a nobilissima sposa.




Dunque è ver che d’un gentile
     Pargoletto andrai festosa,
     Quando i campi, o bella Sposa,
     Si vedranno rifiorir?

Mentre l’Are io coronava
     De la pronuba Lucina,
     Una voce repentina
     Mi scoperse l’avvenir.

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Siedi intanto, e a me rivolgi
     Quel tuo sguardo lusinghiero,
     Or che ignoto magistero
     Io ti vengo a dispiegar.

Siedi, o gemma de le spose
     Amarillide felice,
     Ed impara a qual Nutrice
     Devi il figlio consegnar.

* * *


Quando il pigro ottavo mese
     Il suo corso ha già varcato,
     E il bel fianco affaticato
     A sgravarsi è omai vicin;

Per le selve circostanti
     Manda in traccia d’una bella
     Quadrilustre villanella,
     Che nudrisca il tuo bambin.

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Ecco, mirala. Già spunta
     In cerulea gonnelletta,
     Con un nastro, che le assetta
     Vario-pinto grembïal;

Sì giuliva nel sembiante,
     Sì composta ne le membra,
     Che al vederla appunto sembra
     L’ innocenza pastoral.

* * *


Ah! quell’anima serena,
     Quel modesto e ingenuo ciglio
     Ben sapranno al caro figlio
     Puro latte apparecchiar.

Amarille, ti conforta:
     Mai non giunse affanno o cura
     La meccanica struttura
     Di quegli organi a turbar.

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Usa a pascersi del grano
     Che il festivo Ottobre miete,
     Usa a spegnere la sete
     Entro l’acque del ruscel;

Cibo pingue e delicato
     Raro, o mai non le si appresti:
     Son migliori i cibi agresti
     Erbe, poma, e latte, e miel.

* * *


Guarda ben che non assorba
     Da le tazze Orïentali
     I pungenti amari sali
     Del volatile Caffè,

Che infondendosi nel puro
     Tenue latte cristallino,
     Ogni fibra del bambino
     A irritar bastevol è.

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Non accendere la gota
     D’improvviso amabil foco,
     Se il fanciul vagisce un poco,
     O se prende a lagrimar;

Chè quel tremolo vagito
     Il polmon rassoda intanto,
     E ogni stilla di quel pianto
     Giova il cerebro a purgar.

* * *


Meglio torna a ciel sereno,
     Bella Sposa, offrirgli il latte,
     Che tra l’aure rarefatte
     De la stanza signoril.

Se più vivo in su le mamme
     Un elastico aer prema,
     Forza è ben che il latte gema
     Vie più facile e sottil.

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Nè temer che soffra danno
     Il vezzoso pargoletto,
     Se lo bacia un zeffiretto,
     Che spirando intorno va.

Bacian l’aure mattutine
     Una rosa, una giunchiglia,
     Nè si turba o si scompiglia
     La lor gracile beltà.

* * *


Deh rivolgiti a i pastori,
     E vedrai su quelle irsute
     Brune carni la salute
     Vigorosa tondeggiar.

Sai perchè? Perchè il felice,
     Che a la greggia, o al campo nasce,
     Incomincia da le fasce
     L’aure schiette a respirar.

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Che se il verno procelloso
     Soffia crudo in ogni lato,
     Nè consente un delicato
     Bambinello a l’aria espor;

Stanza almeno lo racchiuda
     Ventilata in largo giro.
     Nuoce al sonno ed al respiro
     La nebbiuzza de i vapor.

* * *


Quella man, che dee fasciarlo,
     Sia perita, e sia guardinga:
     Lo avviluppi, e non lo stringa,
     Che sarebbe crudeltà.

Mesto allora il polmoncello
     Si dilata e s’apre a stento;
     E il purissimo alimento
     Chilo impuro allor si fa.

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La pietosa usanza antica
     De le fasce io non condanno.
     Purché involgan senza affanno
     Il lattante prigionier:

Che disciolto (ahimè!) potrebbe
     Farsi oltraggio al viso, e al petto,
     O, agitando il picciol letto,
     Seminudo rimaner.

* * *


Ma la provvida Nutrice
     Sempre il carcere non ami,
     E sviluppi da i legami
     La sua tenera metà.

Oh! qual giubbilo improvviso
     Tosto avvien che lo sorprenda!
     Guizza, ride, e par che intenda
     Cosa sia la libertà.

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Giunte l’ore destinate
     A la nanna fanciullesca,
     Ella sieda, e non le incresca
     Canticchiare un qualche amor.

L’ uniforme cantilena
     Spirar suole un lento lento
     Uniforme movimento
     Ne gli spiriti e nel cor.

* * *


Quel Boaretti, che sì spesso
     Ama bere al Greco fonte,
     E potrebbe Anacreonte
     Far tra noi ringiovanir,

Su, prepari a la Nutrice
     Rime, o Sposa, allegre e piane,
     Che di note rusticane
     Essa poi godrà vestir.

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Giova il canto, ma non giova
     L’onda spessa de la culla.
     Ben è ria chi si trastulla
     Volteggiando il fanciullin:

Poichè il sangue risospinto
     Corre al cerebro geloso,
     Ed affretta impetuoso
     Ogni umore il suo cammin.

* * *


Stian le lucide finestre
     Di rimpetto a i negri occhietti,
     Onde entrambo li saetti
     Il vivifico balen:

Che se in quella e non in questa
     Pupilletta agisce il lume,
     Da la forza e dal costume
     Losco il figlio, oimè! divien.

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Come poi la quarta luna,
     O la quinta il ciel rischiari,
     Fia che a metter si prepari
     Un aguzzo lattajuol:

Quindi s’agita improvviso
     Il tranquillo pargoletto,
     E si cruccia sdegnosetto
     Fra la collera e fra il duol.

* * *


Bianco avorio, igneo corallo
     Di sembianze levigate
     A le mani sprigionate
     Non si nieghi per pietà,

Con cui l’umida gengiva
     Stroppicciando lievemente,
     Al dentuccio impazïente
     Meglio il varco s’aprirà.

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Fatto adulto e grandicello
     Mutar cibo omai conviene.
     Ei sen duole, e alquanto sviene
     Nel sembiante paffutel.

Ma la tenera Nutrice
     Non si pieghi a quel lamento,
     E ritorni al patrio armento,
     E ritorni al suo fedel.

* * *


Questi, o bella e illustre Sposa,
     Son gli studii di Colei,
     Che prescelsero gli Dei
     Al bambin, tuo dolce amor:

Al bambin, che andrà crescendo
     Vie più gajo e lieto in viso,
     Se riabbia un tuo sorriso
     Quando il giorno e spunta e muor.

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Che se un dolce interno affetto,
     O Amarille, ti dicesse,
     Porgi, porgi le tue stesse
     Nivee poppe al figliuolin:

Cedi, o Bella, e avrai dal chiaro 1
     Pindemonte in Elicona
     La medesima corona,
     Ch’ei tessè di Dori al crin.

Note

  1. Vuolsi qui alludere a una bellissima Ode del Cav. Ippolito Pindemonte, illustre Poeta, da lui mandata alla Contessa Teodora Lisca, che allattava il proprio figlio.