Rime (Gianni)/Rime incertamente attribuite/Amor, i' prego ch'alquanto sostegni

../Amor, i’ veggio ben che tua virtute

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XIX.


     Amore, i’ prego ch’alquanto sostegni
e che ’ntender ti degni
s’io dimostro ragione o torto dico:
non ch’i’ ti sia nemico,
5ma già ti fui, più ch’or non son, suggetto;
Amor, i’ so che tu grandeggi e regni
e cui ti piace sdegni,
e[t a] cui voli ti dimostri amico:
ahi, che dolor notrico
10tacendo qual di te sento diletto!
Già non faccio disdetto,
che tu non mi distrigni ancor alquanto
e ciò mi tiene in pianto,
che ’l mal conosco e dipartir non posso,
15quando cred’esser mosso

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fêro nei lacci tuoi ch’ascosi tendi:
così mi giungi e prendi
poi tormentando più mi ten distretto.
     Amor, s’i’ ben sentisse l’alma mia
20for di tua signoria
e allor dicesse ciò che mostrar voglio
mi sembreria orgoglio
non rimembrar che già fosse tuo servo;
perchè francato servo villania
25mai per ragion non dia
usar ver lo segnor, ma son qual soglio
però se fier mi doglio
dico ’l dolore ancor non mi riservo,
e sì fo come cervo
30che quando è stanco si mostra leggero,
lasso di doglia pero
ma pur deraggio ciò che sento in tene
quante dai gioie e pene
e quanto i servi tuoi onori e merti,
35farò ben di te certi:
ancidimi, se vuo’, ch’a forza servo.

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     Amor, mira se ’n l’ora è tal natura
che sia più strana e dura,
qual[’è] in te e fatti dire Amore!
40Cangia il nome in dolore,
che doglia e morte tu’ nome disdegna
chi ti disia e serve a fede pura,
lui fuggi e dai rancura
e (?) [a] chi ti sdegna dai del tuo dolzore,
45failo di te signore.
Or è mai cosa sì di morte degna?
Sovra me morte vegna
anzi ch’i’ servo tuo mai mi confessi,
di cor, c’ognor non cessi
50da te il pensiero, il volere e il desio;
non averò in oblio
qual hai ad me, signor, tenuta mena:
non ho polso nè vena
che del tormento suo non li sovegna.
     55Amore, amore, è in te strana manera
disnaturata e fera!
Come villano orgoglïoso e stolto

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veggio da te accolto
sfacciati parlatori e menzogneri.
60Or com’potrò ben dir di rea matera?
Non ho sì l’alma intera
che ’l suo saver non sia cangiato e volto,
pensando come involto
malgrado m’hai ne’ tuoi falsi mestieri.
65Chi son tuo’ cavalieri?
Non valenti, non saggi, non cortesi
ma fallidor(i) palesi,
troianti ricciador sovr’altri vili
fai baron signorili;
70cacci li boni e poni in basso loco.
Troppo dura ’l tuo gioco;
di prova nasce ’l mi’ sermon vertieri.
     Amor, d’esto mio dir non prender ira
e ’nanzi pensa e mira
75se ciò è vero e via più ch’i’ non conto.
Or è al mondo ponto
di male alcun che da te non si mova?
Amor, non prendo teco error ned ira,

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tu’ fren’mi volgie e gira
80però ’n dir ciò che sento non son pronto,
sì in’hai distretto e gionto
che dir non oso tua manera nova.
Una non taccio prova,
che i’ veggio vili, spiacenti e noiosi
85per donne esser gioiosi
e li cortesi, saggi e conoscenti
non punto esser gaudenti,
ma sempre star dogliosi ed affannati
ch’ei fanno i forsennati:
90seguendo te, un fior buon non si trova.
     Amor, assai gabbar ti puoi di me,
e de ciascun che gridi
o pianga, che tu ridi.
Ahi, ben d’amore, ha’ tu poco servire!
95Tua gioia [è] in far languire,
ed io languisco e non son fior gioioso.
Ma ride om ch’è doglioso?
98Se del mio mal mi duol non mi biasmare.

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Questa canz. sappiamo conservarsi in quattro codd., ma però con tre diverse attribuzioni: il Vat. 3214 e il cod. 445 della Capit. di Verona, che la dànno a Giovanni dall’Orto; il Magl, ii, iv, 250, che l’assegna a Fazio degli Uberti; e il Magl., vii, 993 che la dà a Lapo Gianni. Fu stampata la prima volta dal Trucchi (Serventese naz. ed altre poesie inedite di F. degli Uberti, Firenze, Benelli 1841); una stanza, la prima, diede fuori il Nannucci (Manuale, 1874, i, 258), ed altri versi avea pure pubblicati nelle Voci e locuz. ital. derivate dalla lingua prov. Firenze, 1840, p. 241. Il Renier l’accolse come di Giovanni dall’Orto nell’Appendice alle liriche di Fazio, pubblicandola secondo la lez. del cod. Veronese. Noi l’abbiamo stampata secondo il Magl., vii, 993, che l’assegna a Lapo, procurando di leggerla per intero, non ostante che la pagina del cod. che la contiene sia molto guasta. Dove il testo era incomprensibile ricorremmo alla lezione degli altri codici, specialmente il Vat. 3214 e il Magl. ii. iv. 250. Le parentesi quadre indicano le aggiunte fatte per ragioni metriche o schematiche: le altre, ciò che per le stesse ragioni dev’esser tolto. Dirò poi, e me ne duole, che non ho potuto dare di questa canzone una lezione che soddisfaccia almeno me, e ciò per [p. 79 modifica]la difficoltà che presentano i mss, di cui mi sono servito, sebbene abbia ricorso anche alla stampa del Renier. Rispose per le rime a questa canz. Tommaso da Faenza: Omo che parli per sì gran contegni, edita per la.prima volta dallo Zambrini, Rime antiche ed. ed inedite di autori faentini, Imola 1846, e recentemente dal Renier, Fazio, pagg. 219-222. Forse per questa corrispondenza de’ due rimatori l’ignoto autore della Leandreide scrisse: Iovan de l’orto e’ contra amor racimola, Tomaso da Faenza amore ischusa. Cfr., Renier, in Arch. Stor. per Trieste etc. Vol. i, fasc. 3, pag. 316.

[Canzone di cinque stanze e congedo.

Stanze: AaBbCAaBbCcDdEeFfG
Congedo: AbbCcDdX].