Ricordanze della mia vita/Parte prima/XIX. Il 1847

XIX. Il 1847

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Parte prima - XVIII. Pio IX Parte prima - XX. La rivoluzione del 1848

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XIX

Il 1847.

La stampa romana pubblicava ogni parola del nuovo papa, descriveva le feste che gli faceva il popolo guidato dal suo Ciceruacchio, e parlando parole di libertá e di amore moveva tutti i cuori. Quelle stampe volavano per tutta Italia. In Toscana, dove era stato sempre un governo mite, gridando: «viva Pio IX» si ottenne una certa larghezza nella stampa, e si cominciò a pubblicare giornali che avevano bei nomi: l’Alba, la Patria, l‘Italia, e bandivano nuove idee e nuove speranze: in Piemonte, specialmente nella fiera Genova, cominciò a pubblicarsi Il Contemporaneo, nel quale si dissero cose che quel governo un anno prima aveva severamente vietate e punite. Noi altri in Napoli a leggere quei giornali, a udire i racconti che ne facevano coloro che tornavano di Roma sentivamo una stretta al cuore. E i romani davano ai nostri molte spronate: «Che fate voi altri napoletani? perché non imitate toscani e piemontesi? Ferdinando è duro: e voi non avete fegato voi, non avete animo di scoparlo?» Ferdinando diceva, e il Delcarretto fece stampare la regal frase nel giornale uffiziale, che egli non voleva «imitare nessun politico figurino di moda»; e tra i suoi ripeteva: «Stavam cosí bene, e questo pretarello ci ha guastato ogni cosa». Intanto da per tutto si parlava del papa, e quantunque egli in una sua bolla dicesse di non avere le intenzioni che gli si attribuivano, pure i popoli o non capivano, o fingevano di non capire, e per spingerlo a maggiori cose lo lodavano e lo benedicevano. Tra noi la polizia diveniva piú feroce, spiava, incarcerava, tormentava; e guai a chi avesse ricevuto lettere o giornali dall’Italia superiore. Taluni meditavano stringersi in segreto per operar qualche cosa; ma altri li biasimavano come uomini di vecchie [p. 158 modifica] idee, e dicevano: «Questa non è setta, né una parte, ma è consenso generale, è opinione pubblica, che vincerá ogni ostacolo ed anche Ferdinando».

Una mattina io passava in via Assunzione a Chiaia dove era il palazzo abitato dal ministro Delcarretto: ecco venire correndo a furia la carrozza coi soliti cavalli sbuffanti e il solito insolente cocchiere: entra nel portone, e mentre il ministro smonta corrono a lui una donna e quattro fanciulli vestiti a bruno, tenendo tra le mani una carta e chiedendo qualche cosa. Il ministro si ferma, e dá ordine ai servi di scacciarla, e fu villanamente scacciata la povera donna e quei suoi figliuoletti pallidi e sbalorditi: ella pianse, prese per mano i piú piccini, ed andò via. Io non seppi mai chi era quella donna, ma a quello spettacolo mi sentii rimescolare tutto il sangue, e dissi tra me: «Ne farò vendetta». Corsi a casa, presi le carte che stava scrivendo, mi ci messi sopra con nuovo ardore, e non le lasciai piú se non quando ebbi compiuta la Protesta del popolo delle Due Sicilie. L’idea di questo scritto mi venne a leggere i Casi di Romagna di Massimo d’Azeglio, e volli in esso fare come un quadro generale di tutte le miserie che il nostro popolo sofferiva da ventisette anni, e presentarlo come protesta a tutto il mondo civile, e dicevo chi era il re, chi erano i ministri, chi erano coloro che ci opprimevano. «Se perderemo la pazienza, e verrá il dies irae, sappiate che il torto non è nostro». La protesta fu scritta tutta da me, tranne una nota dove si parla del Rotschild, ed un capitoletto intitolato la cittá di Napoli, che vi furono aggiunti nella stampa da Giovanni Raffaele siciliano il quale ve le messe di suo capo, e senza dirmi niente: e mentre fu scritta nessuno ne sapeva nulla, tranne mia moglie a cui io leggevo lo scritto e chiedevo consigli affidandomi nel suo buon senno. Dico questo perché dipoi fu detto e scritto che fu compilata da molti, e alcuni si vantarono di averci messe le mani. Ed io la ricopiai sforzando il carattere: e dopo che l’ebbi ricopiata chiamai in mia casa Giuseppe del Re, Michele Primicerio, Mariano d’Ayala, e la lessi a questi tre [p. 159 modifica] fidi amici, i quali me la lodarono, e il del Re si tolse il carico di farla stampare. Gli consegnai il manoscritto, e volli la promessa che subito dopo la stampa mi sarebbe restituito: e l’ebbi restituito, e mia moglie volle bruciarlo con le sue mani. Avevamo avuti tanti guai per carte scritte!

Intanto pel cattivo ricolto dell’anno 1846 si sentiva penuria e fame nelle nostre popolazioni, e il re provvide a far comperar grani e venderli a modesti prezzi: pure nelle provincie la povera gente moriva per mancanza di alimento, ed era una pietá udire tanti racconti che piú accendevano gli animi di sdegno. Fra i provvedimenti presi dal re fu quello di fare un viaggio pel regno. In quei giorni venne in Napoli la regina di Spagna Maria Cristina, e il re per non incontrarsi con lei che pure era sua sorella, ma aveva data una costituzione a la Spagna, affrettò la partenza, e con la moglie andò prima a Trieste per salutare i suoi parenti di casa d’Austria, poi tornò nel regno che volle percorrere, e da per tutto trovò miseria, e pochi applausi di plebe prezzolata: in Sicilia maggiori segni di odio, la sua statua in Messina fu trovata con le orecchie turate di stoppa, e con un cartello dove era scritto: «Non vuol sentire». Andò in Palermo ai primi giorni di luglio alla festa di santa Rosalia: e quivi andando un giorno in carrozza col príncipe di Joinville, che lí si trovava, gli fu gettata su le ginocchia una copia della Protesta, che egli prese, lesse il titolo, e scrollò il capo. Le prime copie furono portate in Palermo da Giuseppe del Re, che andò anch’egli a la festa di santa Rosalia, e le sparse fra i suoi amici: le altre furono sparse in Napoli. «Avete letto la Protesta?» mi diceva un signore. «Io no: e che dice?» Ed egli mi ripeteva ogni cosa, e i tratti che gli avevano fatto maggiore impressione, e i giudizi sugli uomini, e persino le frasi e le parole. «Potrei leggerla anch’io?» «Mi pare difficile: io l’ho avuta per sei ore con l’obbligo di restituirla puntualmente». «Si sa chi l’ha scritta?» «E chi può saperlo? Dev’essere stato un uomo che conosce a dentro i fatti della casa reale di Napoli e del governo, perché ha svelati molti segreti». Non ricordava quel [p. 160 modifica] signore che molti di quei fatti piú segreti me li aveva detti proprio egli che aveva parenti in corte ed al governo, ed egli stesso era un uomo di conto. Io non avevo fatto altro che raccogliere e scrivere tutto ciò che avevo udito dire da lui e da altre persone degne di fede. Ed egli mi disse ancora un’altra cosa, che il re l’aveva letta, e che la maggiore offesa l’aveva avuta a quel tratto dove si parla delle udienze reali, in cui egli non rispondeva altro che: «‘Bene, bene’, con voce chioccia», e dimandò ad uno che gli stava vicino: «Ho la voce chioccia io?» Il libro volava di mano in mano, era letto in piccoli crocchi di amici, tutti ne parlavano: il ministro Delcarretto che si sentiva ferire gettava fuoco dagli occhi, i suoi sbirri erano sbalorditi e andavano fiutando per ogni parte: io vedevo e udivo tutti, e non dicevo parola, e andavo per le mie faccende; e facevo lo scemo, e dicevo tra me: «È vendicata quella povera donna».

Vicino al palazzo del nunzio in una botteguccia era il libraio Aniello Ruocco, il quale vedendo un signore che andava sbirciando gli scartafacci: «Volete un bel libretto, ma per sei carlini?» gli disse. «Lascialo vedere». Gli diede il danaro, e andò via. Quel libretto era la Protesta, e quel signore il famoso commessario di polizia Campobasso. Dopo un’ora Aniello fu preso. «Chi ti ha dato questo libro?» «Il torcoliere dello stampatore Seguin». Preso il torcoliere, preso il Seguin. «Chi ti ha dato a stampare il libro?» «Il Corsini, quegli che ha il gabinetto di lettura in via Toledo». È preso il Corsini, che da prima nega, poi confessa di avere avuto il manoscritto da Giuseppe del Re. Questi saputo l’arresto del Corsini fugge sopra un legno francese, e va prima in Grecia, poi a Marsiglia. Cosí il filo si rompe. La polizia cercava sapere qualcosa dal Corsini, e dimandava: «Ma il manoscritto era opera di del Re, o di altri?» «Non so: ma non credo autore il del Re, perché costui mi faceva grandi premure per riavere il manoscritto, e restituirlo a don Luigi». «Chi è cotesto don Luigi?» «Non lo so, perché egli non disse altro». La polizia non pensò a me; che io non avevo stampato una [p. 161 modifica] riga, non andavo a caffé, a ritrovi, a gabinetti di lettura, ed era riuscito a farmi dimenticare: ritenne in prigione i presi, che non furono altri, e aspettò tempo. Le copie del libretto non furono prese, e si sparsero per tutta Italia.

«Ci vuol altro che proteste, ci vogliono armi», diceva Domenico Romeo, «ed io vado a prenderle». Era questi un gentiluomo di Santo Stefano, terra vicino Reggio, che cauto ed animoso aveva preso accordo coi principali uomini delle provincie di Reggio e di Messina per un moto simultaneo, e partí da Napoli dicendo ai suoi amici: «Se io moro, non vi scuorate, andate innanzi, e ricordatevi del vostro amico». Il giorno primo di settembre in Messina verso la sera una cinquantina di uomini levano il grido «Viva Italia, viva Pio IX, viva la costituzione». Era loro disegno sorprendere gli uffiziali del presidio radunati a convito, ma questi avvisati si erano rifuggiti nella cittadella: onde essi corrono per la cittá, levano il rumore, combattono con valore disperato, feriscono il generale Busacca, ma sopraffatti dal numero maggiore si salvano tutti con la fuga, lasciando ai soldati di sfogare la rabbia su di un povero sartore che fu fucilato e un prete che fu straziato crudelmente. Nello stesso giorno in Reggio Domenico Romeo, suo fratello Giovanni Andrea, e molti loro figliuoli, nipoti, parenti ed amici scesero in Reggio, e levarono lo stesso grido: Federico Genovese, Domenico Muratori, i fratelli Agostino ed Antonio Plutino, il canonico Paolo Pellicano, Antonio Cimmino, Casimiro de Lieto, tra i primi cittadini di Reggio per autoritá e ricchezze, si unirono ad essi, costrinsero ad arrendersi i soldati che presidiavano il castello comandati dal principe di Aci, disarmarono i gendarmi, s’impadronirono per tre dí del governo, diminuirono il prezzo del sale, cantarono il Te Deum, fecero feste, e si abbracciarono con tutti. Ma cominciò un certo scuoramento quando seppero fallito il moto di Messina. Ed ecco comparire due navi a vapore con soldati da sbarco comandate dal principe Luigi fratello del re. Alcuni proponevano salvare almeno l’onore, combattere, ed assalire i soldati quando sbarcavano confusi, barcollanti, [p. 162 modifica] nauseati: ma il cannone tuonava, e fu detto: «Tutto è finito, ritiriamoci». Mentre il principe Luigi faceva trarre coi cannoni su le case della cittá, gli armati si dispersero e rifuggirono su le montagne d’Aspromonte, dove ebbero la caccia dalle guardie urbane e dai villani istigati e pagati dal general Nunziante, che proscriveva i capi del movimento, prometteva taglie a chi li pigliava, e diceva: «Date addosso a questi briganti, che si sono mossi per rubare e saccheggiare». Vecchie arti di tirannide, ingannare gli sciocchi per opprimere i generosi. Domenico Romeo percosso in una gamba dal calcio di un cavallo non potè seguire gli altri, e si ricoverò in un pagliaio col nipote Pietro figliuolo di Giovanni Andrea. Assalito dalle guardie urbane di Pedavoli, e ferito nel petto: Pietro con una palla colpisce il feritore, che rotolando viene a cadere ai piedi di Domenico; il quale lo calpesta, e dicendo: «Scellerati, che vi ho fatto?» gli cade sopra morto. Gli mozzano il capo, lo mettono in cima d’un palo, e dicono a Pietro: «Portalo tu, e grida ‘Viva il re’». Quel fiero giovine non si mosse né disse parola, ed ebbe percosse e strazi, e fu strascinato a Reggio. Dei fuggiti i soli fratelli Plutino si salvarono a Malta; gli altri o furono presi per brutti tradimenti o si presentarono spontanei.

In Gerace furono capi del movimento cinque gentili e florenti giovani: Michele Bello di Salerno, Gaetano Ruffo di Bovalino, Domenico Salvatore di Bianco, Rocco Verducci di Caraffa, e Pietro Mazzoni di Roccella. Essi salvarono dall’ira del popolo che li voleva morti il sottointendente Antonio Buonafede ribaldo ed odiato, e il capo della gendarmeria, dicendo non doversi cominciare un’opera di virtú e di rigenerazione con effusione di sangue. Sapute le nuove di Reggio, si spersero anch’essi, vagarono per aspri monti, ma quattro furono presi e menati al Nunziante. Il Mazzoni perseguitato dal Buonafede, dagli sbirri, dalle guardie urbane, fuggí a Catanzaro, dove fu nascosto ed aiutato dall’amore di Eleonora de Riso, nobile fanciulla che egli aveva giurata sposa: ma persuaso dalle ingannevoli promesse del Nunziante, si presentò [p. 163 modifica] spontaneo, e dopo poche ore nel medesimo giorno 2 ottobre fu giudicato, condannato, e fucilato con gli altri quattro. Il padre del Bello perdè il senno e poi la vita: il padre del Mazzoni morí di dolore, e l’unica figliuola rimastagli morí anch’ella: rimaneva sola a chiedere vendetta a Dio ed agli uomini la sconsolata de Riso.

In Reggio furono riempite le carceri: il commessario di polizia Cioffi, osceno di volto, diabolico di animo, tormentava, rapiva, spogliava tutti cosí sfacciatamente che poi fu accusato e condannato come ladro: e questo gli fu merito piú tardi. La commissione militare condannò parecchie centinaia di uomini a varie pene, quarantasei a morte: e questi ebbero per grazia mutata la pena nell’ergastolo. Condotti in Napoli, mentre erano ferrati nell’arsenale in luogo scoperto, dicesi che il re dietro l’invetriata d’un balcone della reggia li guardava con l’occhialino, e domandava ai suoi cortegiani chi era il tale, o il tale altro: e che dei condannati taluno gli volse le spalle, e taluno mirava fiso a quel balcone. Questo avveniva tra noi mentre in Toscana Leopoldo II toglieva dal suo codice la pena di morte. Tutti gl’italiani compiansero tanti sventurati, e specialmente ricordavano i cinque giovani di Gerace, i quali in Livorno ebbero esequie solenni: e dipoi i livornesi montati in furore andarono a casa del console napoletano, ruppero lo stemma, e gridarono morte al tiranno delle Sicilie.

Come giunsero a Napoli le novelle di Messina e di Reggio, fu grande agitazione negli animi, e la polizia incarcerò Carlo Poerio, Mariano d’Ayala, Domenico Mauro, Francesco Trinchera, i baroni Stocco, Marsico, Cozzolino, tutti e tre calabresi. Ma il carcere non faceva piú paura, neppure ai condannati, perché tutti sentivano e dicevano che cosí non poteva durare, e che un dí o l’altro aveva a mutare la scena; e si ripetevano le parole del Romeo: «Se io moro non vi scuorate, e andate innanzi». Ma quando si seppe della morte di quei cinque giovani alcuni formarono un fiero disegno, assalire la carrozza del re, prenderlo e condurlo in luogo sicuro, o anche ucciderlo, e cosí cominciare la rivoluzione. Questi furono [p. 164 modifica] Vincenzo Mauro, un prete de Ninno, Giuseppe Lamenga, Giuseppe Scola capo de’ popolani, Vincenzo Dono, ed altri di cui non ricordo i nomi. Saputo che il re andava a Portici la domenica del 31 ottobre dopo il mezzodí lo aspettarono su la via della Marinella per dove la carrozza doveva passare, e dove speravano di avere aiuto dai popolani guidati da lo Scola. Vincenzo Mauro e prete de Ninno passeggiavano insieme accigliati e muti, e ogni tanto si rivolgevano per vedere se veniva. Aspettarono sino a sera, deliberarono di tornare un altro giorno: la notte sette di essi furono arrestati. Un tal Vito Matera di Albano in Basilicata gli aveva denunziati a la polizia; e per questo avviso il re non uscí in quel giorno, e il fiero disegno non ebbe effetto. Chiusi nelle segrete di Santa Maria Apparente stettero saldi ai tormenti e a le promesse che lor faceva il commessario Campobasso, il quale non potendo indurli a confessare nulla, e vedendosi fallire tutte le sue arti poliziesche, disse: «Voi negate, ma io lo so pur troppo che volevate uccidere il nostro re, il nostro padre amatissimo». E cavandosi di tasca un fazzoletto piangeva e singhiozzava. Carlo Poerio mi diceva che trovandosi egli nel medesimo carcere al civile, ed entrato nella stanza dove si erano fatti gl’interrogatori e v’erano per terra molti pezzi di carta scritta lacerata, egli parlando al commessario per non so che cosa, pose il piede prima sopra uno sputo e poi sopra quei pezzetti di carta dov’era piú scritto, e due gli s’attaccarono alla suola delle scarpe, che egli poi destramente prese, e lesse alcune parole, dalle quali non seppe niente.

Questi disperati e feroci partiti, queste ire impotenti di schiavi dispiacevano agli uomini di senno, i quali dicevano che questi fatti non s’accordavano con quelli degli altri italiani e manderebbero tutto in rovina con danno e vergogna: e consigliavano di mostrar coraggio e dignitá civile, non temere di parlare francamente e dire la veritá in faccia ad ogni uomo, sperare nell’opinione generale che si andava mutando; con questo solo mezzo lento ma sicuro potersi vincere la bestiale ostinazione del governo: ché quando un príncipe ha torto, [p. 165 modifica] piú duro pare, piú cede: «aspettiamo ancora, e non ci mettiamo noi dal lato del torto». L’aspettare è senza pericolo, e piacque. Intanto il re cominciò a tentennare, licenziò il ministro Santangelo, e, come consigliava il Pietracatella, divise in tre il Ministero dell’interno, ponendo il d’Urso ai lavori pubblici, lo Spinelli all’agricoltura, commercio ed istruzione, ed il Parise all’amministrazione interna, tutti e tre uomini di buona fama. Al Santangelo lo intero stipendio, molti ringraziamenti per gli onorati servigi renduti al re, ed il titolo di marchese. Il re gli dava il titolo, il popolo gli assegnava il feudo, dicendolo marchese di Tremiti, isoletta dove erano relegati i ladri. Il Santangelo non ha lasciato altra ricchezza che un museo giá cominciato da suo padre. Ci sono tempi in cui anche i Catoni son detti ladri, ed altri in cui anche i ladri son detti eroi.

A dimostrare la generale compiacenza per questo fatto, e spingere il re a cose maggiori, ad unirsi alla lega doganale italiana che si stringeva tra Roma, Toscana e Piemonte, si pensò di fare una pubblica dimostrazione, e per incuorare i timidi si fece di notte. La sera del 24 novembre stando molta gente a udir la musica nella piazza che è innanzi il palazzo reale, ecco un batter di mani, un gridare «Viva Italia, viva Pio IX, viva la lega doganale, viva il re». Le grida continuarono e crebbero dopo la musica: ed un trecento persone trascorsero la via Toledo invitando tutti a seguirli, e giunti al palazzo del nunzio raddoppiarono le grida, e si dispersero quietamente. Pochi furono presi dai birri. Io mi trovai tra la folla con Francesco Lottari, che gridava «viva Italia e la lega», e non si accorse dei birri che aveva a fianco perché vedeva poco, e fu preso: io che ero tutt’occhi, e non avevo gridato, me la sguizzai destramente. Parve un gran fatto: la polizia ne fu turbata, il re sdegnato rimproverò il ministro Delcarretto, comandò non piú sonasse la musica, radunò i ministri a consiglio, e fece in sua presenza compilare un avviso, il quale sottoscritto dal prefetto di polizia, fu appiccato su tutte le cantonate, e diceva: «Sono vietate tutte le grida [p. 166 modifica] sediziose e di viva il re, e chi le rinnova sará punito come perturbatore dell’ordine pubblico». A questo avviso io scrissi la seguente risposta che fu sparsa, ed io andai accompagnato da mia moglie per non dare sospetto, a gettarne una copia nella buca della posta. La trascrivo per mostrare i desideri e le speranze di quel tempo.

«Al prefetto di polizia il popolo. Voi, o prefetto, avete scritto l’avviso minaccioso, e voi direte al re queste parole del popolo. Noi abbiamo oneste intenzioni, noi rispettiamo il re, ed amiamo tutti, anche i commessari Campobasso e Morbillo traviati fratelli; noi non vogliamo nè sangue né rapina, ma civiltá, e la cerchiamo con moderazione. Onde ci siamo meravigliati che il governo dopo un grido abbia giá aperte le carceri, preparati cannoni e cavalli, ordinato che si afferri, si batta, si uccida chiunque griderá: ‘Viva il re, viva Pio IX, viva la lega italiana’. Questo procedere anzi questa paura del governo ha fatto vergogna a noi stessi: pure abbiamo ubbidito e taciuto, ma ci siamo radunati altre due volte, per mostrare che possiamo e non vogliamo né abbiamo paura, e crediamo che il governo non possa commettere sí grande violazione. Noi ci uniremo altre volte, ed il re ci udirá, e non ci crederá perturbatori dell’ordine pubblico. Regni da padre, e noi gli saremo amorosi figliuoli. A lui costa sí poco fare il bene, sí poco noi desideriamo, tanta gloria, tante benedizioni gliene verranno, perché nol fará? Perdoni a tutti gl’imputati politici, faccia osservare le leggi che abbiamo, tolga gli impiegati ladri e carnefici che in suo nome tiranneggiano, ci lasci parlare e scrivere con moderata libertá per renderci civili e dirgli quel vero che ora gli è nascosto, ci faccia essere uomini e non bestie, perché la potenza dei re sta nei popoli, e un re di bestie è nulla. Questo si vuole, e non torgli diritti, né diminuire la maestá; ci tratti da padre e noi gli saremo figliuoli. Provi, provi pure il divino piacere di far bene, e di sentirsi chiamar padre da otto milioni di uomini. Ma se Iddio lo accieca o i ministri lo ingannano, se vuol continuare il dissennato rigore, e vuole piú ceppi e piú [p. 167 modifica] sangue, consideri che la causa nostra è causa di civiltá e di religione; che Dio e il suo vicario parlano per noi; che la bilancia italiana deve necessariamente equilibrarsi; che né normanni, né svevi, né angioini, né durazzani, né aragonesi furono piú di quattro che frenarono il napolitano cavallo, ed egli potrebbe essere il quarto ed ultimo de’ Borboni; che quest’anno ’47 è stato per quattro secoli terribile nel regno; che le opinioni sono piú forti dei cannoni; che tra i soldati ci è popolo ed uomini che pensano, soffrono, e parlano; che l’Europa e Dio ci guardano ed attendono; che chi si oppone al corso eterno delle cose e delle opinioni rovina irreparabilmente. Non sono minacce ma consigli. Troppo sangue si è sparso: se ne vorrá altro, gli ricadrá tutto sul capo: il mondo saprá che noi siamo stati disperatamente provocati.»

E appresso a questa scrissi una lettera a Pio IX, una lettera ai soldati dell’esercito e della marina e non le ho piú. Le scrivevo da me, senza incarico, senza consiglio, senza saputa di nessuno: le davo a copiare a due giovani senza dir loro chi le aveva scritte, e quei le diffondevano. Pareva una legione, ed era io solo. Ma l’eran carte, non altro che carte!

Dopo alquanti giorni si seppe che nel teatro di Palermo e nel pubblico passeggio era stata un’altra dimostrazione di popolo assai piú numerosa, onde fu deciso di rispondere la sera del 14 dicembre. Io avevo parecchi scolari calabresi, tra i quali Cesare Correa di Catanzaro, a me carissimo, ed altri tre giovani di Gioiosa, Errico d’Agostino, Vincenzo Lucá, Raffaele Palermo i quali avevano conosciuti quei cinque di Gerace, e me ne parlavano sempre, ed erano accesi di sdegno. Io dissi loro: «Ci vedremo il 14». E in quella sera furono moltissime persone, e si gridava ancora: «Viva Palermo e la Sicilia». Ed ecco comparire gli sbirri, ecco i commessari Campobasso e Morbillo, e un menar di mani, di bastoni, di stocchi. Il Correa menò botte da orbo, ne toccò, ma ne diede, e si salvò. Un nipote del Morbillo stava per venire ai ferri con lo zio. Grida, arresti, colpi, un parapiglia. Sopraggiunsero altri armati, e la via Toledo rimase vuota: ma il fatto era [p. 168 modifica] fatto, la dimostrazione era avvenuta. I due commessari acquistarono la grazia del re, andavano al palazzo, riferivano a lui, avevano ordini da lui che faceva il gran commessario di polizia e non si curava del ministro; disponeva fosse nominato cavaliere il Campobasso, il quale andò dal Pietracatella a chiedere l’onore promesso, e questi scacciò di casa quello sbirro sfacciato; andò dal Delcarretto, il quale con fine ironia gli disse: «Oh, io proporrò al re che vi faccia commendatore». Gli arrestati furono parecchi tra i quali il duca Francesco Proto, Camillo Caracciolo dei príncipi di Torella, Gennaro Sambiase duca di Sandonato; e si cominciò un gran processo. Questi fatti accendevano gli sdegni di tutti, accrescevano il coraggio, scrollavano il governo: i prigionieri erano lodati, visitati dai loro conoscenti o da persone che desideravano conoscerli: l’andare in prigione era come una moda, e tutti ne ridevano. Tra i prigionieri era Carlo Poerio, arrestato sin dal 7 settembre dopo i fatti di Reggio, uomo di non mediocre ingegno, facile parlatore, arguto, astuto, onesto, principe de’ cospiratori, tirava a sè tutti i liberali che lo stimavano e lo amavano, e dipendevano da lui; onde egli quantunque in prigione parlava con tutti, consigliava, disponeva, ordinava ogni cosa, rinfocolava gli animi, prometteva, assicurava: e cosí per una strana sciocchezza del governo, il carcere era mutato in un ritrovo di liberali. Nella reggia il re non si occupava che di affari di polizia coi due commessari, e con altre sue spie particolari con le quali s’intratteneva lunghe ore. Spesso malediceva Pio IX che aveva mosso il vespaio, e spregiava come deboli Leopoldo e Carlo Alberto; ed entrando nel Rodomonte diceva: «Anderò piuttosto a fare il colonnello in Russia o in Austria, che cedere e mostrare debolezza». E ordinava si cacciassero di Napoli gli studenti, perché pieni delle nuove idee, e facili ad accendersi e maneschi: e subito molti poveri giovani furono cacciati a furia: ma gli sdegni, le parole, i lamenti di tutti furono tanti, che l’ordine fu revocato. Poteva durare lungamente un governo che non sapeva essere né interamente tristo né veramente buono? [p. 169 modifica]

Intanto io mi accorsi che alcuni miei amici e conoscenti mi salutavano con un sorriso molto significativo; e un giorno incontrai per via il presidente Marcarelli, il quale mi disse: «E non vuoi stare quieto tu? Gli altri non ti hanno riconosciuto, io sí». «Ma di che parlate? io non intendo». «Oh, tu intendi bene, e senza parlare». E sorridendo mi lasciò. Venne da me Ferdinando Vercillo e mi disse: «Tu devi salvarti, perché sei mezzo scoverto». «E come?» «Roberto Savarese mi ha detto che egli ha pensato lungamente chi poteva essere l’autore della Protesta, e con metodo di esclusione è giunto a te». «Come con metodo di esclusione?» «Ha ragionato cosí. Il tale non può essere, perché non iscrive cosí, né il tale altro, né quell’altro, ed ha esaminato tutti quelli che sogliono scrivere. Dunque dev’essere un ignoto. E chi è questo ignoto? Io gli aveva parlato di te tempo fa, ed egli secco secco mi ha detto: ‘È lui, non può essere che lui. Come l’ho riconosciuto io, può riconoscerlo la polizia se vi pensa, e in questi furori capiterebbe male. Bisogna farlo partire’». Roberto Savarese, Paolo Emilio Imbriani, Francesco del Giudice, e Ferdinando Vercillo vollero che io partissi, mi fecero avere dal ministro lord Napier un ordine d’imbarcarmi sopra una fregata inglese che era in rada, ed essi tutti e quattro mi accompagnarono come per diporto, e montati a bordo mi strinsero la mano e dissero: «Ora sei sicuro». Era il giorno 3 gennaio 1848.