Ricordanze della mia vita/Parte prima/XIV. Il processo

XIV. Il processo

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XIV

Il processo.

Il ministro di polizia era lieto come di una grande scoperta, e scrisse agli altri governi italiani, e specialmente all’Austria, che egli aveva messo le mani addosso alla giovine Italia e che sperava di afferrare tutte le fila della famosa setta. Ma come vide che da noi non poteva saper nulla, disse al commessario inquisitore di andare lento nell’istruzione del processo, poiché l’importante era scoprire molti, e se noi avevamo taciuto, qualche altro avrebbe parlato. «Quei signori poi lasciateli maturar sottochiave, e non li tormentate, ché infine essi per quelle denunzie e quelle carte saranno certamente condannati a la galera due volte». Queste parole furono raccolte da persona che le udí dal commessario, e a me vennero scritte nella bottiglia. Ecco perché noi non avemmo tormenti, e il processo fu lungo. I quattro giovani trovati in casa Musolino furono liberati dopo pochi mesi, ma sottoposti a severa vigilanza col disegno di coglierli in qualche fatto.

Intanto non era possibile parlare a lungo tenendo un orecchio attaccato a la parete, e potevamo essere uditi da chi avesse origliato a la porta. Io pensai d’inventare una lingua, di scrivere un centinaio di parole strane le quali significassero le cose principali che volevamo dire, e non fossero intese da nessuno. E le scrissi: ma il difficile era dare lo scritto a Pasquale. Questi subito trovò il mezzo. Le nostre finestre non avevano vetri, ma due tele di canape: egli ne tolse alquanti fili, li annodò, vi pose ad un capo un pezzetto di carta scura, e l’abbandonò fuori la finestra; il vento portò la cartolina ai miei cancelli, io l’afferrai; ed ecco stabilita una comunicazione tra noi mediante quel filo che rimase rasente il muro legato ad un ferro, e però non si vedeva: e noi di sera, e in certe [p. 105 modifica] ore piú quiete lo facevamo lavorare destramente. Con quelle cento parole, a cui egli aggiunse altre, e poi ciascuno dei compagni aggiunse le sue, noi formammo una lingua di convenzione che neppure il diavolo poteva intendere, e ci usammo a parlarla con una facilitá mirabile.

Eccone qui un saggio. Prima i nomi nostri: Benedetto fu Timur, Pasquale Acmet, io Omar; e poi gli altri come vennero ebbero ciascuno il suo nome. Il carcere latome, i carcerati latomest, la setta botte (lo stivale italiano), i settari bottis, il re Zarcan. Dal romanzo Quintino Durward di Walter Scott, traemmo alcuni nomi: il ministro fu Tristan, il commessario Trois Echelles, l’ispettore petit Andre. Il cibo sitos, il filo dontus, il carceriere chius. Io iace, tu seit, egli iul, noi imis, voi izabi, essi sciis. Sí , no u. I verbi erano invariati, una voce per tutti i tempi, modi e persone: essere mellin, volere telo, scrivere graft, abbandonare labactani, dire fein, rispondere antifein, bisogna string, adagio javasi, mandare ballin, venire erco, fuggire arvoric, vedere idin, sdegnarsi rasc: e tante altre voci che non ricordo piú, e che erano storpiate dal greco, dal latino, da tutte le lingue di cui ricordavamo qualche parola. Spesso una di queste voci era un’istoria. Indovinate come dicevamo guàrdati? Hamschatcha! Va e intendi.

Questa lingua carceraria fu, come si poté, comunicata a tutti, imparata, arricchita da tutti, e si parlava dalle finestre. Il custode maggiore piú volte ci avvertí di non parlare turchesco, perché ci erano persone mandate dal ministro che ci ascoltavano. «Se mi comandano di chiudervi le finestre, io le chiudo, e voi starete all’oscuro. Parlate almeno in certe ore quando non c’è l’ispettore». Il custode era un dabben uomo, non aveva ordini severi contro di noi, e diceva di volerci bene perché aveva buone mance, un tanto la settimana, due piastre, assegnategli dai Musolino. Onde noi stavamo con piú riguardi, ma si parlava da le finestre. Io dissi a Pasquale che mandasse il nostro vocabolario al fratello, ed egli lo mandò per mezzo d’un carcerato: e quando ci fummo accertati che [p. 106 modifica] egli l’aveva ricevuto ed imparato bene a mente io gli scrissi in quella lingua ciò che aveva saputo dalla bottiglia, che la causa era grave, che se Annibale stava in Italia, Scipione assaltava l’Africa: ritorciamo il ferro contro il nemico, diciamo che la polizia essa proprio ci calunnia ed ha inventata la setta. Ebbi grande difficoltá a scrivere queste cose in quella lingua: pure c’intendemmo: il disegno di difesa piacque, e fu fermato: ma per allora queti e zitti.

Un giorno udimmo entrare un nuovo prigioniero nella stanza contigua a quella di Pasquale; e questi, come aveva fatto con me, prese a tempestare, e seppe che era Raffaele Anastasio: «Sei stato arrestato?» «Oh, no». «E ti sei presentato?» «So che vuoi dirmi, i capponi si presentano a Natale; ma mi avevano arrestato mio fratello, da tre mesi non davano pace a mia moglie, volevano chiudere la farmacia e distruggermi. Che dovevo fare? Eccomi qua me. Soffrirò io, ma la mia famiglia non sará molestata. Ed io di che son reo? mi accusa il prete, ma nessuna pruova oltre il suo detto». Povero Raffaele! era la miglior pasta di uomo, ma furbo la sua parte, e non ci sarebbe capitato se io non gli avessi fatto il regalo del prete. Era il piú vecchio tra noi, e aveva trentacinque anni. Gli demmo nome Zumra; ebbe subito il filo, il vocabolario e imparò la lingua. Queto queto, dolce dolce, era il rovescio di Pasquale.

Un altro giorno il custode Luigi Liguoro mi disse all’orecchio: «Vi saluta Giacomo Escalonne». Io cascai dalle nuvole: «Dov’è questo matto?» «Qui in criminale». Era costui figliuolo d’un vecchio uffiziale francese accasato in Catanzaro: il padre un galantuomo, il figliuolo un matto, un millantatore, un bugiardo che credeva alle sue bugie, e aveva per alcuni anni fatto il soldato in Francia. Dipoi seppi che quando io fui arrestato, questo Giacomo andò dicendo che egli in Francia era entrato in tutte le sette, massoneria, carboneria, diritti dell’uomo, eccetera, e nella giovine Italia ancora. L’intendente lo chiamò, gli fece promesse, gli diede danari, gli disse di scoprire, ed egli promise mari e monti: [p. 107 modifica] ma egli non sapeva nulla, e per fidarsi in lui bisognava essere pazzo quanto lui, e però contava all’intendente le piú goffe invenzioni di suo capo: onde fu mandato in Napoli, e chiuso in carcere, dove la polizia lo ritenne come testimone a mio carico. Si accorse che costui era matto, pur lo ritenne. Noi lo chiamammo caporal Jacob.

Ultimo venne Saverio Bianchi proprietario di Catanzaro. Un cancelliere di polizia disse di aver trovato sotto una finestra della casa del Bianchi su la pubblica via sparsi alcuni pezzetti di carta scritti con inchiostro simpatico, e contenenti alcune parole che parevano riferirsi a setta, e di carattere ignoto. Per questa dichiarazione del cancelliere Maruca, e per questa pruova il Bianchi fu arrestato, menato in Napoli, e fece parte del nostro processo. Questo pare incredibile, e pure questo fu, ma bisogna anche sapere che egli era un noto liberale, e che suo fratello Ferdinando Bianchi aveva preso parte all’ultimo moto di Cosenza, ed era nascosto da due anni, e la polizia non poteva averlo fra le mani, e si sveleniva sul fratello Saverio. Era un omaccione grande, di coltura mediocre, ma d’acume molto, e di animo generoso e insofferente. Fu messo a canto a la mia stanza: ebbe il suo nome, Ruslaer, ed imparò la lingua.

Nel castello dell’Ovo era un altro arrestato, Nicola Ricciardelli, ricco proprietario di Pescocostanzo in Abruzzo, il quale perché era guardia di onore fu tenuto in quella prigione militare. Nella notte che fu arrestato Benedetto Musolino si trovava una carta in tasca, la gettò da le scale, ma fu raccolta: egli negò di averla gettata: e in quella carta era scritto il nome del Ricciardelli.

E questi furono tutti gli arrestati nella causa della giovine Italia.

Il processo andava lento, e lentissimi passavano per me i giorni. Le brevi letterine di mia moglie mi dicevano qualche cosa del mondo, che io comunicava nella nostra lingua ai compagni, e mi dicevano quanto ella pativa non pure per sé ma per le nostre due creature cui mancava il necessario. Quando [p. 108 modifica] io leggevo quelle parole sentivo come un ferro rovente che mi passava sul petto: e che doveva sentire ella che le scriveva? Io non posso ripensare a quelle angosce: e poi che cosa importerebbe al mondo sapere quanto patí una donna?

Dirimpetto a la mia finestra molto lontano su la via del Petraro era la casina del signor Falconnet, negoziante francese, e innanzi la casina era una bella e graziosa villetta la quale si alzava molto sopra il giardino che sta innanzi il carcere. Ogni giorno sul cadere del sole quel signore e sua moglie, vestiti come due gigli, scendevano nella villetta a passeggiare e godere il fresco, e avevano intorno tre figliuoli che andavano saltando e godendo. Io mi affezionai a quella famiglia, specialmente a quella signora che era incinta, come io avevo lasciata la mia Gigia; e mi consolavo a guardar da lontano quella pace che mi pareva felicitá, e dai loro movimenti credevo di intendere ciò che dicevano. «Oh, io non desidero ville, ma quando potrò cosí vedere vicino a me mia moglie e i miei figliuoli?» Quei signori non guardavano al carcere, dove sapevano esserci ladri: eppure nel carcere era uno che li guardava, li amava, e ogni giorno diceva loro: «Dio vi benedica; siate felici». Un giorno vidi le finestre della casina tutte chiuse, i servi andare su e giú costernati, poi nella villetta apparirono molti frati francescani con una croce. La signora sul parto era morta. Io ne piansi. La villa fu abbandonata, ed io perdei una consolazione.

Avevo chiesto qualche libro, e finalmente fu permesso di averne, e ne ebbi due, il Nuovo Testamento in greco antico con la metafrasi in greco moderno, e le poesie di Vincenzo Monti in un volume. Quel custode Luigi Liguoro che mi aveva portato lo strano saluto dell’Escalonne, entrato un giorno nella mia stanza, e sedutosi sul poggiuolo, prese in mano il Nuovo Testamento, e aperto mi domandò: «Che lingua e questa?» «È greca». «E voi sapete anche il greco?» «Un poco». «Signore, io vi debbo cercare una carità. Levatemi da questo mestiere che non È per me, che sono nato un galantuomo. Ho quattro figlie zitelle, e sono carico di debiti. [p. 109 modifica] Aiutate una famiglia sventurata». «Ma io non sono ricco, e non posso darvi danari». «Non voglio danari». «E che volete da me che son carcerato?» «Voi potete tutto». «Io non v’intendo: dite». «Io vi serberò il segreto, non dirò niente a nessuno». «Ma che cosa volete?» «Tre numeri». «Poh! e credete che io sappia i numeri del lotto?» «Quando leggete questa sorte di libri, voi li sapete tutti cinque i numeri». «O via, Liguoro, cotesta è una pazzia». «Non è pazzia: perché son carceriere non volete darmeli, ma sono uno sventurato galantuomo, e discendo da sant’Alfonso. Mi feci passare al carcere di San Francesco dove è arrestato padre Gaetano, lo sapete certamente, il monaco di San Pietro ad Aram, che sta in carcere perché dá i numeri. Se vedeste che gente va a visitarlo, che donne e belle donne, e che bene di Dio gli mandano ogni giorno, ed egli sciala! Oh, ei li sa i numeri, perché come andrebbe tanta gente da lui? Ma a me non me li ha voluto dare, e l’ho pregato come si prega un santo. Voi anche li sapete, e non siete monaco voi, e potete sollevarmi». Io sorrisi e cercai di levargli di capo quella fantasia: ma fu niente: ogni volta che entrava nella mia stanza, mi guardava fiso un pezzo, poi chiudeva gli occhi e sospirava.

Costui non era un tristo uomo, e volentieri si intratteneva meco a parlare per quella sua sciocca speranza. E un altro giorno mi disse: «Ieri s’è aperta la strada ferrata sino a Portici. C’era il re, c’era una compagnia di lancieri con le banderuole spiegate fuori i vagoni. Quanta gente di qua e di lá! In quindici minuti si è volati a Portici. Che bellezza! quindici minuti! e si andrá sino a Castellammare in un’ora! Signore mio, il mondo è mutato. Se vedeste la via Toledo che la sera e illuminata a gas, vi parrebbe una galleria, una sala da ballo. Ma io spero di vedervi presto passeggiare per Toledo, e salutarvi, e allora vi ricorderete di me».

Nel 1839 fu fatta, prima in Italia, la ferrovia tra Napoli e Castellammare dov’è la regia casina di Quisisana ed un ramo fu prolungato sino a Nocera, dov’è un quartiere di [p. 110 modifica] soldati. Di poi fu fatta l’altra fra Napoli e Caserta per congiungere le due reggie, come sta scritto su la medaglia coniata per memoria del fatto; e fu prolungata sino a la fortezza di Capua; con un ramo che giungeva a Nola, altro quartiere di soldati. Cosí re Ferdinando non aborriva le ferrovie come il papa, ma le faceva poche e brevi unicamente per raccogliere subito le milizie e per assicurare la sua dominazione, non per utile alcuno dei popoli. Si parlò molto della ferrovia per le Puglie, ma non fu fatta mai. Alle Calabrie, agli Abruzzi, a la Sicilia non ci si pensava neppure: ed ora non le abbiamo ancora tutte, quantunque fummo i primi ad averne una.

Saverio Bianchi mi chiese di leggere l’Iliade del Monti, ed io gli mandai il libro per mezzo del custode Liguoro. Non posso dire l’impressione che fece Omero su di lui. Egli era un uomo di trent’anni, di molta immaginativa, di caldo sentire, occupato sempre di caccia e di faccende di campagna, e leggendo la prima volta Omero per lunghe ore e senza distrazione se ne innamorò che pareva un matto. Ogni tanto lo sentivo dire: «Bello, stupendo, verissimo», poi mi chiamava e diceva: «Senti, senti questo tratto»; e me lo recitava. I paragoni gli parevano bellissimi, e li imparava a mente: faceva osservazioni giudiziose ed acute, e una volta mi disse: «La morte di Ettore non è bella, Ettore muore come una volpe che quando non può fuggire al cacciatore, gira intorno ad un albero per nascondersi». Se il Bianchi sentiva tanto la bellezza d’Omero, che dovevano sentire i giovani greci quando sentivano recitare nella loro bella lingua [del]l’Iliade? Per un paio di settimane il Bianchi non sentí le angosce del carcere.

Una mattina che io le sentiva tutte quelle angosce strazianti, udii di lontano una voce di donna che cantava soavemente, e mi parve come balsamo sovra una piaga. Si trovò ad entrare il Liguoro, ed io lo domandai: «Chi è che canta cosí bene?» «È mia figlia». «E che canzone canta?» «La canzone nuova Te voglio bene assai, E tu non pienze a me. [p. 111 modifica] Vi piace? Ebbene le dirò che la canti spesso. Ma voi non pensate né a me né a lei». Ogni anno a la festa di Piedigrotta l’8 di settembre il popolo napolitano va nella grotta di Pozzuoli, e li l’uno sfida l’altro a cantare improvviso, e la canzone giudicata piú bella si ripete da tutti, è la canzone dell’anno. Ce ne sono delle belle; questa fu tra le bellissime ed io non posso ancora dimenticarla. Tre cose belle furono in quell’anno, le ferrovie, l’illuminazione a gas, e Te voglio bene assai.

Sul cominciare del 1840 il nostro processo fu mandato alla suprema commissione pe’ reati di stato, tribunale segreto, con procedura breve; inappellabile, risedente in Castelnuovo. Era composto di un presidente, e cinque giudici, dei quali due erano militari e colonnelli. Non ammetteva avvocati: due magistrati erano difensori ufficiosi degl’imputati. Questi giudici erano tutti di provata fede al governo, e però non inclinati a rigore per acquistar merito; anzi usati come erano alla giustizia comune abborrivano l’arbitrio nelle cause di stato, e le prepotenze della polizia. Soltanto il presidente Domenico Girolami, che aveva voce di eunuco ed animo di tigre, condannava sempre e a le pene piú gravi: ed essendo egli presidente nella causa di Monteforte nel 1821, nella quale i giudici fecero paritá di voti, egli votò per la morte: gli altri erano fedeli, non crudeli. Questa commissione, avuto il processo, lo rimandò a la polizia con alcune norme per fare piú ampia istruzione. Quando mia moglie mi scrisse questa notizia, ella soggiunse: «Non ti dispiaccia il tempo lungo, che nelle cause di stato giova sempre. E poi se si vuole istruzione piú ampia, dunque non ci sono quelle pruove da mandarti in galera due volte». Io mi rassegnai a lungo aspettare.

Nelle altre cause, anche politiche, compiuta l’istruzione del processo, gl’imputati solevano passare al civile, ossia erano mescolati con gli altri, e potevano vedere congiunti ed amici: noi rimanemmo sempre in criminale a maturare ciascuno in una stanza e non potevamo vedere i nostri parenti se non per ispeciale permesso ed alla presenza d’una persona [p. 112 modifica] di polizia che doveva udire i nostri discorsi e riferire. I custodi, vedendo che noi eravamo cosí tenuti senza una ragione, e contro l’uso, e con maggiore fatica loro, e per tanto tempo, smessero ogni rigore, e ci lasciavano anche parlare da le finestre. Quell’isolamento mi privava del passeggio nel vasto cortile del carcere ad aria aperta, e m’impediva di vedere spesso mia moglie, la quale ogni volta doveva chiedere e penare per ottenere permesso, e quando veniva coi cari nostri bambini dovevamo essere sempre alla presenza dell’ispettore.

Mentre cosí passavo i giorni lunghi, sconsolati, e pieni d’incertezza e di timore dell’avvenire, ecco nella nostra rada comparire alcune navi di guerra inglesi, poi altre, e poi tutta una squadra che mi faceva un grande spettacolo, e pareva minacciare la cittá. Il governo aveva una grossa briga per gli zolfi di Sicilia. L’aviditá e l’ignoranza dei proprietari delle miniere, e l’astuzia dei mercanti, che erano specialmente inglesi, avevano fatto scadere l’industria dello zolfo. Una compagnia francese fece una proposta al nostro governo: cavare essa lo zolfo, darne il doppio del prezzo corrente ai proprietari, e quattrocento mila ducati l’anno a lo stato. I mercanti inglesi levarono alte grida contro questa dimanda di privativa che annullava i loro contratti e offendeva la libertá di commercio, e indussero il loro governo presieduto dal ministro lord Palmerston a sostenere le loro ragioni. Il re diceva essere padrone in casa sua, avere diritto anzi dovere di migliorare quell’industria e fare l’utile dello stato; ma il ministro degli affari esteri principe del Cassero gli consigliava di non fare la concessione, di non irritare la nazione inglese, che a questo mondo non basta aver ragione, ma bisogna aver forza per farsela fare, e noi non possiamo contendere con l’Inghilterra. Questo consiglio dava ancora Giuseppe Caprioli segretario del re, ed uomo di molto senno.

Il re da prima stette dubbioso, poi fece il contratto, ed allontanò da se il ministro ed il segretario.

Ecco dunque la squadra che veniva per ottenere coi cannoni quello che non s’era ottenuto coi protocolli. Re [p. 113 modifica] Ferdinando schierò soldati su tutti i punti del golfo per impedire sbarchi; mise in punto i fortini, si preparò a la difesa: si stava per venire a le cannonate, e noi ci aspettavamo di vedere di lassú una battaglia. Ma il ministro di Francia entrò mediatore, e fu fatto arbitro della contesa il re Luigi Filippo; il quale pronunziò, si sciogliesse il contratto con la compagnia francese, fosse libero a tutti il commercio dei zolfi. Decisa cosí la quistione, noi dovemmo pagare i danni non pure ai mercanti inglesi, ma ai francesi ancora: i danni poi che ebbe il nostro commercio per le rappresaglie inglesi chi li ebbe se li dovette tenere. Dopo che furono partite tutte le navi inglesi e le francesi, un bel giorno vedemmo uscire dal porto militare tutta la squadra nostra la quale andò aggirandosi un pezzo pel golfo, e facendo mostra di sé ed esercizi a fuoco: ma una di quelle navi investí presso Castellammare, e tutte dopo due giorni tornarono in porto. Io che mi sentivo napoletano, davo ragione al re, il quale avrebbe dovuto avere il senno di non fare la concessione, ma fattala mi aspettava che avesse resistito alla minaccia, si fosse mostrato uomo e re, avesse almeno salvato l’onore, e alle bombe avesse risposto con qualche palla infocata. Mi addolorò non il danno, ma il disprezzo che venne nel regno prima per l’imprudenza e poi per la paura del re.

Finita questa briga, la polizia rimandò il nostro processo a la commissione suprema, senza aver potuto aggiungere altro che una nota del governo austriaco, il quale avendo arrestato Giovanni Vincenti di Verona, gli trovò un diploma simile ai nostri, e dimandato come lo aveva avuto rispose non saperne nulla, non sapere quale nemico glielo avesse posto tra le robe. E però la commissione vedendo che il processo era ancora troppo magro ordinò un altro impinguamento, ed affidò la nuova istruzione al giudice criminale signor Giuseppe Neri, uomo di buona fama, cognato del ministro Pietracatella, e da non temere della polizia, né farsene imporre.

Cosí finalmente venuti sotto la giurisdizione di magistrati potemmo ottenere per ordinare fra noi la difesa di stare [p. 114 modifica] insieme una mezza giornata nelle stanze del custode maggiore. Ci rivedemmo non senza commozione di animo: ed avendo preparata prima ogni cosa facemmo col nostro chimico Anastasio molti esperimenti su i caratteri simpatici o invisibili, che si scrivevano con prussiato di potassa, e si scoprivano con solfato di ferro. Riusciti bene gli esperimenti, ragionammo del nostro disegno di difesa, prendemmo ciascuno la parte che gli spettava, e dopo una stretta di mano tornammo a le nostre stanze.

Indi a pochi giorni vennero nel carcere per ascoltarci e conferire con noi i due avvocati ufficiosi, che erano Giuseppe Marcarelli presidente della corte criminale per noi, ed il giudice Crispi per Escalonne, due uomini rispettabili e assai stimati, specialmente il Marcarelli, su la cui faccia si leggeva una gran bontá di animo che tutti lodavano e che io dipoi conobbi a pruova. Io feci la mia parte, e dissi che questa non era che una macchina inventata da la polizia, un intrigo tenebroso fatto per fine reo. «E per qual fine?» «Per mettere paura, mostrarsi necessario, facendo apparire sette, congiure, pericoli che essa scopre». Queste parole non destarono meraviglia nei due magistrati, perché la polizia con le sue continue prepotenze e soperchierie puzzava a tutti, era creduta capace di tutti gl’intrighi, ed essi ogni giorno ne vedevano e ne toccavano con mano gli abusi in tutti i processi: e poi il ministro Delcarretto era fieramente odiato dai piú fedeli realisti. Ma il Marcarelli mi disse: «Che bassi agenti di polizia abbiano potuto fare qualche sopruso si può ammettere; ma quelle lettere di vostro carattere come le distruggiamo?» «Si distruggono da se stesse. Le avete osservate bene? Intorno a le parole scritte sono alcuni spazi bianchi, sui quali non apparisce che sia passato alcun reagente: e quegli spazi bianchi sono una pruova irrecusabile che le parole non furono mai scritte invisibili, ma visibilissime fin da principio, e però non poterono essere scritte da un settario, ma o da un matto o da un calunniatore». I due avvocati si guardarono in viso l’un l’altro. «Bisogna osservare cotesto: e se è come voi dite», [p. 115 modifica] disse il Marcarelli con forza, «avete una gran pruova in vostro favore». «Io dimando che la commissione suprema faccia fare un’altra perizia chimica su quelle lettere». «Questo appunto si fará».

E una nuova perizia fu fatta dal giudice Neri, e vi furono chiamati anche i due primi periti adoperati dalla polizia, due farmacisti, i quali non seppero dar ragione di quegli spazi bianchi che si trovavano intorno a le parole, e i poveretti trovandosi imbrogliati dissero la veritá come era stata, che le lettere non le avevano scoperte essi, ma la polizia le presentò giá scoperte e volle che dicessero in un verbale di averle scoperte essi. Fu richiamato anche il reverendo parroco Barbuto, il quale confessò anch’egli un’altra falsitá, che a Cosenza andò a la posta, chiese lettere d’Anastasio, gliene fu data una, era mia, ei sospettò, l’aperse, vide che v’eran caratteri simpatici, li scoprí, si tenne il mezzo foglio, e su l’altro dove era la soprascritta, scrisse poche parole imitando il mio carattere, e cosí diede mezza lettera all’Anastasio e mezza a la Polizia. E sul Barbuto l’istruttore ebbe da Catanzaro le piú fosche informazioni, anche dal vescovo che lo diceva indegno sacerdote e sospeso a divinis; ed altri lo accusarono di brutte infamie che non voglio ripetere, e chiunque fu dimandato di lui lo dipinse come un ribaldo. Egli fin da prima era un tristo, ma soppiatto, e nessuno lo conosceva: quando si fu chiarito denunziante, ognuno gli calcò la mano addosso. Per non tornare piú su di lui dirò sin da ora che egli sopraffatto dal pubblico disprezzo e dallo sdegno anche della sua famiglia, ammalò e morí poco dopo che fu fatta la causa.

«Ecco qui», dirá taluno, «perché tu non li puoi vedere i preti, un prete ti denunziò: l’abbiamo capita». Taluno me l’ha detto cotesto, ed io ho risposto sempre: «La storia mi fa aborrire i preti: non una piccola offesa fatta a me da un miserabile, che poteva ancora non esser prete, ma diciotto secoli di delitti, di rapine, di sangue, ma i roghi, ed i tormenti, ma un immenso cumulo di mali, di corruzione, d’ignoranza, di ferocia, ma la servitú della mia patria, e di tante [p. 116 modifica] contrade della terra, mi fanno ribollire l’anima a pensare al prete, che è stato ed è cagione di tutte le umane miserie. Lasciamo cotesto argomento: chi li ama se li tenga e ne goda».

Impinguato bene il processo, la commissione suprema decise mettersi in libertá il servo dei Musolino, e Saverio Bianchi; noi altri in causa. Il servo uscí; il povero Bianchi rimase in carcere a disposizione della polizia per altri due anni. Noi altri, cioè i due Musolino, l’Anastasio, io, e l’Escalonne, dopo di essere stati venti mesi nei criminali di Santa Maria Apparente, fummo ammanettati, e dietro una funata di ladri, fummo condotti nella gran prigione della Vicaria in un giorno di gennaio del 1841. Il Ricciardelli rimase in Castel dell’Ovo.