Ricordanze della mia vita/Parte prima/XIII. Il carcere di Santa Maria Apparente

XIII. Il carcere di Santa Maria Apparente

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XIII. Il carcere di Santa Maria Apparente
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XIII

Il carcere di Santa Maria Apparente.

Il custode maggiore rispettosamente mi chiese il permesso di ricercarmi i panni indosso, volle che io gli consegnassi il danaro che avevo, ritenne il valigiotto e la chiave, mi prese il cappello, voleva togliermi anche il mantello, ma dopo averci pensato e averlo cercato e scosso ben bene me lo lasciò tenere. Finito questo, un carceriere tolse un mazzo di chiavi, lo sbattè a la porta, entrò gridando: «dentro dentro», e poi che ebbe chiusi tutti i prigionieri nelle loro stanze, tornò, e pei vuoti corridoi mi menò giú in una di quelle stanze che si dicono criminali, e questo criminale aveva nome secondo trapasso, perché di lí si passava per entrare nei criminali interni. Questo trapasso illuminato da una finestra alta dal suolo era umido e freddo, con le mura ingrommate di muffa; aveva due poggiuoli di pietra, e non altri arnesi che un vase immondissimo, una lucerna di creta, un piattello, ed una brocca d’acqua. Rimasto solo, mi avvolsi nel mantello, e distesomi sovra uno dei poggiuoli, dopo breve pensare, vinto dalla stanchezza del viaggio, tornai ad addormentarmi.

Io non so perché, ma so che quando fortuna mi ha dato gli strazi piú crudeli e mi ha proprio sprofondato nell’ultimo abisso del dolore, mi sono tornati a mente quei pochi momenti di felicitá che ho avuto nella vita mia. In quel criminale e su quei sassi io sognai che tornavo a casa dopo un viaggio, e che il mio bimbo usato a riconoscere il mio scampanio gridava di dentro: «Papá, papá,» e mi correva incontro, e mi si attaccava con le braccia al collo, e mi dava quei baci che solo un padre sa quanto sono dolci, e mi pareva che con le braccia e coi piedi mi stringesse tanto l’omero ed il femore diritto, che io dicevo a la Gigia: «Toglimi questo [p. 90 modifica] fanciullo che mi fa proprio male»; ed ella non poteva spiccarlo, e quei piú mi stringeva. Il rumore dei chiavacci della porta mi svegliò, entrò il custode, ed io levandomi con le ossa addolorate gli dissi: «Potrei avere un materasso?» «Materasso non c’è, farto sí». «E che cosa è cotesto farto?» «Un sacco di capecchio, e si paga due grana il giorno». «Bene, portatelo. Portatemi ancora una camicia, uno sciugamani, un fazzoletto che trarrete da la mia valigia». «Non potete avere nulla senza ordine del commessario: il solo farto è permesso a chi lo paga», «Potreste comprarmi da mangiare?» «Mi dispiace quando vedo un galantuomo soffrire: il vostro pranzo eccolo qui. Porco, dá la zuppa al signore». Questo Porco era uno de’ chiamatori che sono prigionieri addetti ai servigi del carcere, un omicciattolo tarchiato, col naso schiacciato, le sanne sporgenti e un vocione fragoroso, scalzo e sudicio. «Ecco servito il signore», disse il mariuolo con un ghigno; cavò da un pentolone di rame una ramaiolata di fave che versò nella lorda scodella, cavò da un sacco un pane nero e lo gettò sul poggiuolo, e tenendo il ramaiuolo in mano incrociò le braccia e si messe a passeggiare per la stanza zufolando una canzonaccia. Intanto il custode mi disse: «Abbiate la pazienza di consegnarmi gli straccali che avete ai calzoni e le legacce delle calzette». «Potrei sapere perché?» «É ordine: poi siete in esperimento, e non dovreste avere nemmeno il mantello». «Ma che potrei fare con gli straccali e le legacce?» «Non so; ma una volta un carcerato si strangolò». Io sorrisi e gli diedi ciò che volle. E mi feci portare il farto, riempire la brocca d’acqua, e andò via agli altri criminali dentro.

Mi messi a passeggiare per la stanza, e pensare: «Ha detto che sono in esperimento. Chi sa quanti giorni mi faranno stare in questo criminale, dormire su quel farto, mangiare queste fave, senza altri panni, privo d’ogni cosa, e mi renderò sudicio e brutto come una bestia. Se l’esperimento è questo io lo sopporto: ma se verranno stasera a darmi la tortura per farmi parlare? Se mi legheranno, mi batteranno, mi getteranno acqua addosso?» A quest’idea fremevo, sudavo, mi [p. 91 modifica] venivano innanzi agli occhi le mani di frate Angelo. «Verranno molti, mi metteranno le mani addosso i manigoldi, che fare contro tanti? Ebbene vengano a straziarmi, a lacerarmi il corpo: io non farò motto. Giacché ci sono, bisogna starci da uomo. E la mia Gigia che fa in questo momento? Da quella notte dell’arresto io non ho saputo nulla di lei, e del figlio mio. Povera Gigia mia, ella soffrirá piú di me: ella è gravida, e chi sa se non si sará sconciata. E Raffaele quando lo rivedrò il mio bimbo? Che faranno ora? dove saranno? E se qualcuno li insultasse? Oh che dolore e questo che mi squarcia il petto! questa è tortura vera».

Tra questi angosciosi pensieri passeggiai lungamente nella stanza, leggendo a quando a quando su per le pareti nomi e bestemmie scritte col carbone. Sentii la molestia della fame, e guardai le fave, ma non potei toccarle per lo schifo di quel piattello: tolsi il pane e ne mangiai la sola crosta, perché la midolla era proprio fango: la notte se la mangiarono i topi che vennero a schiere, e portarono via anche le fave. Quella notte io non chiusi occhi, e disteso immoto sul farto contavo le grida delle sentinelle e aspettava la tortura: ma il custode che discese piú volte, e passando pel mio trapasso andò negli altri criminali a battere i cancelli, mi diede sempre la buona notte cavandosi la berretta, sicché io cominciai a rassicurarmi un poco. Il giorno appresso venne il custode maggiore, e mi disse: «Se non vi do nulla non mi credete cattivo: sono ordini, e bisogna seguirli. Quando verrá il commessario ad interrogarvi...» «Quando verrá?» «Chi lo sa! quando vuol lui! Quando verrá chiedetegli che vi tolga da questo criminale che è il peggiore di tutti, e vi permetta di avere ciò che vi bisogna, e io farò ogni cosa». «Vi ringrazio: ma per ora, giacché debbo mangiare le fave, potreste voi farmi comperare una scodella nuova?» «Volentieri: ad un galantuomo che conosce il suo dovere si fa ogni agevolezza». «Voi avete i miei danari, fatela comperare». Mi fu portata la scodella nuova, e in essa mangiai i fagiuoli il giorno appresso facendo cucchiaio della crosta del pane. E cosí un giorno fave, un giorno [p. 92 modifica] fagiuoli, e la domenica c’era la pasta che non fu mai possibile mangiarla. L’acqua era verminosa, e bisognava chiudere gli occhi e non fiutare per bere quando la sete non si poteva piú sopportare. Mi fu concesso di fumare, mi portarono una pipa e del tabacco ed io fumavo fino a stordirmi.

Il terzo giorno per avere un po’ d’aria e di luce, arrampicatomi con le mani e coi piedi per certi buchi che erano nel muro giunsi ad afferrare i ferri della finestra, su la quale potetti pure accoccolarmi. Vidi il muro che da oriente cinge il carcere, e dopo il muro un grande giardino, e piú in lá varie case: udii alcune voci che mi parvero venire dalle finestre superiori del carcere, ed a certe parole ed all’accento mi accorsi che erano gentiluomini e calabresi che parlavano. Fosse qui Benedetto? Come fare per saperlo ed intenderci? Andavo pensando qualche espediente, e non sapevo trovarne; ma come finí di cantare un ladroncello che stava giú nei criminali e che per molte ore del giorno faceva lunghe cantilene, io di botto mi messi a cantare anch’io come si cantano i salmi: «O vos qui estis in captivitate Babylonis, dicite, quaeso, est inter vos vir quidam cui nomen Benedictus Dominus Deus Israel, quia visitavit et fecit redemptionem plebis suae?» Alcune voci dicevano adagio: «Hai udito?» «Chi può essere? Sarebbe anch’egli qui!» «Mi pare alla voce». «Rispondigli, vediamo». E una voce che riconobbi rispose anche in cantilena: «Ego sum quem quaeris, sed fac ut te noscam». In latino, in francese, con parole mezze, con quel gergo che suol essere tra cospiratori e vecchi amici c’intendevamo benissimo. Seppi che egli era stato arrestato nella stessa notte dell’8 maggio, e con lui suo fratello Pasquale, un loro servitore, e quattro giovani studenti trovati per avventura in casa sua. «Siamo tutti sotto chiave, ciascuno in una stanza, e parliamo dalle finestre: io quassú ne ho due vicini: Pasquale, gli altri due, e il servo sono nell’altro lato del carcere». «Siamo obbligati al successore di Melchisedec». «Gli scariotti son due». «Io mi chiamo Pietro e non conosco nessuno». «Bene». «Accordo e saldi; e se v’è di nuovo torneremo ai salmi». [p. 93 modifica]

Volevo piú dire e sapere, ma udii un fracasso spaventevole, un correre, gridare, percuotere, aprire le porte, scendere persone a dirotta, mazzate, urli: «Scendi cane, tu l’hai ammazzato». Io balzai a terra. Menarono nel primo trapasso un uomo, chiusero e andarono via. Il rinchiuso urlava come un furioso contro i custodi, e diceva: «Qui mi avete messo? e che sono reo di stato io, che mi mettete nel primo trapasso?» Dopo un gran tempestare di scomposte grida, non l’udii piú, e forse si addormentò. L’altro giorno quando il custode aprí la porta fra i due trapassi, un giovane popolano fe’ capolino, e mi salutò cavandosi la berretta. Andato via il custode, ei picchiò a la porta, e a traverso la porta facemmo questo dialogo. «Signore, vi chiedo perdono di quelle parole: volete fumare? Ecco qui: io ficco la cannuccia della pipa che e accesa pel buco che è nella porta, e voi potete tirare il fumo». «Ti ringrazio, ho da fumare». «Perdonatemi: ieri io era ubbriaco». «Da quanto tempo sei arrestato?» «Oh signore mio, da che son nato: da quindici anni e ne ho venticinque. Senza mamma e senza padre, fui arrestato dalla polizia e non sono uscito piú». «Sei condannato?» «Non signore: sono uscito due volte, ma senz’arte senza parte ho rubato per mangiare, e sono tornato dentro. Per non sentire la disperazione quando ho danari mi ubbriaco, e ieri venni a parola con uno che mi diede uno schiaffo, ed io gli ruppi la testa con un fiasco». «L’hai ammazzato?» «Signornò, è una ferita leggiera». «Quanti prigionieri siamo?» «Ieri eravamo duecentocinquantadue, oltre i rei di stato compagni vostri che stanno sottochiave, e che non so quanti sono. Signore, mi avete perdonato?» «Via non pensarci piú». «Vi ringrazio: e se posso servirvi in cosa, comandatemi». Io osservai mestamente che secondo l’opinione di costui i rei di stato dovevano essere trattati peggio dei ladri: sospettai da prima che fosse una spia; ma poi mi consolai a udire quelle sue parole che mi chiedevano perdono e mi rivelavano buon cuore. Povero giovane! dopo due giorni fu menato altrove.

Per lunghe ore passeggiavo nella stanza, passeggiavo per [p. 94 modifica] la diagonale, stendevo nove passi e mi rivolgevo ora sul lato destro ora sul sinistro acciocché non mi girasse il capo; cosí avevo veduto fare un leone nella gabbia, e poi vidi che cosí passeggiavano tutti i carcerati. E dopo questo passeggiare mi stendevo lungo sul farto; ma sempre il cervello mi andava sossopra, ed il cuore era agitato da una tempesta. Quando pensavo a me sentivo una certa baldanza e la coscienza di saper sofferire, e l’attendevo proprio la tortura per provarmi: ma quando mi si presentava a la mente la faccia della donna mia e del mio figliuolo io non sapevo contenere le lagrime. Non avevo loro nuove, non sapevo della loro sorte: mille dubbi, mille timori mi laceravano le fibre del petto. Oh non possa sentire nessuno quello che sentivo io: sono dolori che anche a rammentarli mi fanno male davvero.

Rimasto senza quel vicino, io tornai a salmeggiare con l’amico, e seppi altri particolari. Dopo alcuni giorni mi comparí innanzi un omaccio con boria villana e due occhi di serpente, il quale squadratomi da capo a piedi, e senza salutarmi, mi domandò: «Come vi trovate in questa stanza?» «Se dicessi bene, non direi il vero». «Soffrite molto?» «Con la pazienza si soffre meno». «Che volevate fare con la giovane Italia?» Io che avevo caricato la pipa e aveva in mano la pietra, l’esca e l’acciarino (siamo nel 1839, e non c’eran solfini ancora) battei, e mi messi a fumare, guardandolo freddamente senza far motto. Egli girando gli occhi ora di qua ora di lá, diceva: «Saria meglio per voi dire ogni cosa, come hanno fatto i vostri compagni, i quali sono in belle stanze e tra poco usciranno». «Quali compagni? io sono venuto da Catanzaro, e non conosco nessuno». «Oh, voi pariate in latino con essi». «Io canto salmi, e mi raccomando a Dio: che può fare di meglio un prigioniero? ma di grazia, siete voi un commessario di polizia?» Il custode che stava dietro a colui, allungò il viso, e con un dito tirandosi giú un occhio fece un segno che io compresi. Colui mi rispose: «Non sono commessario: ma il ministro mi manda per vostro bene, per dirvi di non far ragazzate, non ostinarvi a negare quello che il [p. 95 modifica] governo sa, e che ve lo puo far dire con altri mezzi di rigore. Pensate ai fatti vostri, salvate voi e la vostra famiglia da un precipizio: gettatevi nelle braccia del commessario che vi può salvare, e ditegli la veritá che ogni galantuomo deve dire». «Vi ringrazio di questi buoni consigli». «Volete dire qualche cosa a me?» «Volete fumare, signore? mi duole che non ho sigari, ma solo pipa e tabacco. Vi ringrazio della visita, che qui vengono a visitarmi soltanto i topi che mi sguizzano tra i piedi». Quell’uomo era venuto per farmi una paura, e per tastare il terreno prima del commessario; ma come mi trovò freddo e garbato mutò pensiero, e dette alcune poche parole della stanza e del farto, mi salutò cavandosi il cappello ed andò via. «Chi è colui?» dissi al custode quando tornò. E il custode rifacendo il gesto rispose: «È una buona lana, un sergente di gendarmeria che il ministro manda per visitare i rei di stato. Se sapeste quanti figli di mamma costui nei criminali ha battuti, ha straziati, e poi fattili andar in galera! Non vi fidate neppure di me; e ricordatevi che chi confessa è inpiso». Io sorrisi e gli domandai: «Come vi chiamate?» «Io? eh! Raffaele Serio». «Serio!» «Sono nipote a Luigi Serio, poeta, che morí nel 1799 combattendo sul Ponte della Maddalena». «Ma Luigi Serio morí coi due nipoti». «Io ero terzo nipote, ed ora fo il carceriere!» Sopraggiunse il Porco, il quale avendo udito le ultime parole del custode, fece un visaccio con cui mi volle dire che colui era un bugiardo. Io pensai: «Costui mi dice una bugia per ingraziarsi con me: e perché vuole ingraziarsi con me? per buon cuore, o per tradirmi? Forse per buon cuore, ma bisogna guardarsi dal carceriere».

Erano diciassette giorni che in quell’antro io pativo freddo e fame, perché anche a mangiar tutta quella zuppa e quel pane, non si può sostentare un uomo: e la maggior pena per me era non potermi lavare altro che gli occhi e asciugarli col fazzoletto. Pure quel tempo mi giovò a farmi prendere l’aria del carcere, e saper molte cose, e pensare a rispondere. Dopo diciassette giorni scese il custode, e disse: «Venite meco dal commessario». Fui condotto nell’estracarcere nelle stanze [p. 96 modifica] del custode maggiore, e quivi trovai il commessario inquisitore di stato cavalier Vincenzo Marchese, vecchio, guercio, lindo, tutto parole melate e cortesie; e con lui un cancelliere con la penna in mano e pronto a mettere su la carta quante parole mi dovevano uscire di bocca. Il commessario incominciò un fervorino, che egli era stato amico di mio padre, che gli doleva di vedermi in carcere, che fidassi in lui, che gli dicessi ogni cosa; che gli erano errori giovanili scusabili, che forse altri mi aveva ingannato, che egli mi aiuterebbe, e tante altre dolcezze. Io l’interruppi a mezzo: «Ma posso sapere finalmente perché sono stato arrestato?» Allora egli mutando tuono: «Voi siete accusato di appartenere alla setta la giovine Italia». «Non ne so nulla: è una falsa accusa». «Conoscete voi il parroco Barbuto?» «Neppure di nome». E il cancelliere scriveva. «Conoscete il farmacista Raffaele Anastasio?» «No». «Conoscete Benedetto Musolino?» «Costui sí, perché fummo compagni a studio». «Avete scritte voi queste lettere?» «Non mi appartengono». «Eppure sono di vostro carattere». «Forse paiono, ma non sono, né io le ho scritte mai». E il cancelliere scriveva, e io gli guardavo la penna. Rispondevo secco, e pesavo le parole. «Voi siete negativo in tutto; ma il negare non giova quando ci sono molte pruove e questi documenti». «Io le vorrò vedere queste pruove». «A suo tempo le saprete». «Potrei scrivere una lettera a mia moglie, e farmi comperare coi miei denari un po’ di cibo?» Egli chiamò il custode maggiore, e dettogli non so che all’orecchio, si volse a me. «Potete scrivere la lettera ed avere il cibo: anzi anderete in una stanza migliore, ma ripensate a ciò che vi ho detto».

Fui condotto in uno dei criminali interni al numero 6, ebbi carta e calamaio, ed in presenza del custode scrissi la lettera, che non fu mandata, ed io poi la vidi nel processo dove la messero per paragonare i caratteri. Mi fu dato del cibo comperato da una taverna, e per mangiarlo ebbi un cucchiaio di legno; potei avere la biancheria, e mutarmi la camicia. La nuova stanza era piccola, coi soliti due poggiuoli, e i [p. 97 modifica]soliti arnesi; ma aveva una finestrella cui si montava per una scala di fabbrica, e su cui si poteva sedere con la persona ricurva, sporgeva su la chiesa, e guardava tutto il bel golfo di Napoli. Sovra una parete vi era dipinta un’Immacolata, e però si chiamava il criminale dell’Immacolata. La sera venne il custode con due candele di cera, e disse: «Queste si debbono accendere qui». «Oh che, ci è festa?» «Sissignore, qui ci fu un carcerato che fece voto alla Madonna, e quando uscí, che oggi fa un anno, fece qui dipingere questa immagine, ed ora vi fa accendere queste candele. Raccomandatevi anche voi a la Madonna, che vi faccia la grazia come la fece a lui». «Va benissimo: con piacere avrò questi lumi, che quella lucerna fa un lumicino fioco, e dura appena tre ore». La stanza era migliore, ma non potei piú salmeggiare con l’amico.

Indi a pochi giorni fui richiamato dal commessario, il quale mi disse: «Volevate le pruove: ecco la prima»; e mi additò il parroco Barbuto che stava lí rivestito a nuovo, e con gli occhi bassi. Il commessario gli domandò: «È questi il signor Luigi Settembrini?» Ed egli con movimento di labbra senza parola rispose: «Sissignore». Io me lo avrei sbranato coi denti, e dissi: «E chi è questo prete?» Il commessario vedendo lui smarrito, e me sdegnato mi diede su la voce, dicendomi che colui era il mio accusatore, che io ero un cospiratore e un temerario, ma che la legge mi avrebbe tenuto a dovere. Risposi: «Voi abusate della mia condizione per insultarmi. Ebbene, sentiamo le accuse di questo buon sacerdote». Allora colui narrò certa favola come mi aveva conosciuto, e non toccò il prete G. L.; disse del catechismo, e delle lettere, ogni cosa. Io ogni cosa negai, feci vedere la sciocchezza di quella favola, dissi che era un infame calunniatore. Le parole furono molte; io gridavo, il commessario mi sgridava, il prete era pallido e tremava. Chiamato il custode venne, e mi ricondusse nella mia segreta, e accompagnandomi ripeteva: «Che sacerdote! che servo di Dio!».

Forse qualche moralista si scandalezzerá delle parole che ho scritto, e dirá che io non doveva negare, perché la bugia [p. 98 modifica] è sempre disonesta, e la veritá s’ha a dire ne vada anche il capo. È vero: la verita s’ha a dire sempre e tutta quanta. Ora se io accusavo me solo, non la dicevo tutta, né quelli se ne contentavano; se la dicevo tutta accusavo gli altri, e li avrei fatti andare in galera, sarei stato un denunziante vigliacco. Io negavo arditamente perché avevo la profonda convinzione di avere operato secondo virtú, e di trovarmi a fronte d’un ladrone che voleva assassinare me ed i miei amici. Quella bugia a me pareva, ed era, cosa moralissima: la veritá sarebbe stata scellerata e vile. Io stetti sempre sul niego, e stetti in criminale. Il commessario m’interrogò cinque volte, ed io sempre no, «non conosco nessuno, coteste lettere non sono scritte da me. Ci vuol tanto a falsificare un carattere?» Egli infine si persuase che con me era tempo perso, e non mi fece piú chiamare.

Ero giá in quel carcere da trentadue giorni che avevo contati ad uno ad uno, ad ora ad ora, e non sapevo nulla di mia moglie e del mio figliuolo rimasti in Catanzaro. Venne il custode e disse: «Vostra moglie è venuta, e vi attende sopra». «Come, è venuta?» «Sissignore, e attende il commessario per vedervi». «Ed ha condotto mio figlio?» «L’ha condotto». «Dunque io la vedrò». «Se viene il commessario». «E verrá il commessario?» «La signora dice che gliel’ha promesso. Verrá o manderá persona con suo ordine. Intanto preparatevi e state di buon animo». Andato via il custode, io salii su la finestrella, e posi gli occhi su quel pezzetto di via che di lá si vedeva, e che mena al carcere. Guardai fiso fiso per tre ore con un’angoscia mortale, e non iscorsi mai persona che paresse il commessario: dopo tre ore vidi una donna con un bambino, che andando via levarono gli occhi in alto. Li riconobbi, cacciai la mano fuori i cancelli, e li salutai: ella mi salutò con la mano, il bimbo andava guardando e salutava con la manina: la sentinella si avanzò; essi andarono via. Io mi gettai sul farto e piansi amaramente. Dopo un pezzo venne il custode a dirmi che ella se n’era andata perché non era venuto né il commessario né un suo ordine. [p. 99 modifica]

Io mi sentiva un’ira terribile bollire nel petto, e ruggivo. «Tormentare me lo capisco, perché vi è un fine, ma far salire su questo monte una donna che è gravida di otto mesi e conduce seco un bambino, ed ingannarla, è un tormento senza scopo, è un insulto vigliacco. Oh, se mi fanno un altro insulto come questo, io darò di mano al commessario, e di me quel che sará sará. È meglio che ella non venga piú a vedermi, che io non la vegga insultare, se no io mi perdo». Pensai di scriverle che non cercasse di vedermi. Avevo della cartaccia nella quale mi avevano portato del tabacco: ruppi una vecchia cannuccia di pipa, e fatto uno stecco l’aguzzai con la pietra focaia: con le dita e coi denti tolsi un po’ di legno dalla porta, lo bruciai su la lucerna, e fattone carbone lo sciolsi con un po’ d’acqua, ed ebbi l’inchiostro. Scrissi, e serbai la carta in tasca, e la penna cioè lo stecco nel farto. Il giorno appresso mi fu portata la biancheria netta mandatami da mia moglie, ed io dando la lorda a la presenza del custode, messi la carta in una calzetta. Mia moglie trovò la carta, ma non fece quello che io avevo scritto, perché il terzo giorno venne con l’ispettore del carcere.

Oh, chi può ridire quello che io sentii a rivederla in quel luogo? Il mio bimbo come mi vide mi si gettò in collo, mi abbracciò stretto, e stato cosí un pezzo mi si addormentò nelle braccia. Era fatto piú alto, e non aveva piú i suoi lunghi capelli biondi. «E perché glieli hai mozzati?» «Pel viaggio, non potevo pettinarlo». La mia Gigia mi narrò come dopo il mio arresto tutti avevano paura di avvicinarla, che soltanto la signorina Angiolina Marincola, sorella di Filippo mio caro discepolo, l’aveva visitata ogni giorno, l’aveva assistita, e date singolari pruove d’affetto; che la consigliavano di rimanere in Catanzaro dove io sarei tornato fra breve, ma ella non volle udire, ed era venuta sola, per una via lunga otto giornate, e col bambino che voleva starle sempre in braccio. «Credevo di morire per via, e lasciare questa creatura, ma Iddio mi ha voluta viva, e sono venuta per assisterti. Ho venduto quello che non potevo portare, ma ti ho serbato i [p. 100 modifica] libri. Io sono in casa della mia famiglia. Ora che ci siamo bisogna sofferire con dignitá. Sta dunque di animo sereno e forte, e fa ch’io possa gloriarmi di essere tua moglie». Queste ultime parole mi colpirono profondamente: io non avevo inteso mai mia moglie parlare cosí. La sventura l’aveva trasformata, e svolgeva in lei un carattere forte e severo, ed amoroso insieme ed operoso. Queste parole mi sollevarono, mi fecero un bene grande, ed io cominciai a conoscere meglio quella donna, e rispettarla, ed amarla assai piú di prima. L’ispettore che era presente al nostro discorso disse: «Signora, il commessario mi ha detto di guardarmi piú da voi che da vostro marito, ma io vedo che siete una donna rispettabile». E qui prese a parlare di sua moglie, e dei suoi figliuoli, e disse tante cose che io non intesi, perché guardavo ora il bambino che mi dormiva su le ginocchia, ora mia moglie che mi teneva la mano stretta. Questo ispettore signor Antonio Maza non era un tristo uomo: disse a mia moglie che poteva mandarmi il pranzo, ma badasse di non nascondervi carte; che ella poteva venire ogni venti giorni e parlarmi innanzi a lui; che l’altro giorno il commessario non aveva incaricato lui ma il sergente di gendarmeria (quello che era venuto a visitarmi) il quale forse aveva avuto altro a fare; e promise che mi avrebbe fatto salire in una stanza superiore piú ariosa. Dopo un’ora dovemmo separarci: il bambino si svegliò, non voleva lasciarmi, e diceva: «Vieni tu pure con noi». Io gli diedi un ultimo bacio, un altro a mia moglie, non potei dire altro che addio, e tornai nel criminale.

Il giorno appresso mia moglie mi mandò il pranzo: trovai in fondo a la bottiglia di vetro nero un pezzetto di lapis, e dopo due giorni un rotolino di carta bianca. La bottiglia fu la nostra valigia. Riuscita la prova della carta bianca, mia moglie faceva cosí: scriveva sopra un pezzetto di carta e ne lasciava bianca la metá, ravvolgeva stretta tutta la carta, la legava, poi l’avvolgeva in una fronda verde, la fermava in fondo della bottiglia, e sopra versava il vino. Io bevevo il vino, spiccavo con la cannuccia della pipa la carta che [p. 101 modifica] dentro trovava asciutta, scriveva sul pezzo bianco, la fermavo nel modo stesso. I custodi non ebbero mai il pensiero di metter l’occhio nel fondo della bottiglia che era sempre delle piú nere. Cosí ci scrivemmo sempre, io sapevo tutto, e in quelle letterine trovavo un conforto grande. Mia moglie ne serba ancora alcune mie: le sue io le distruggevo subito.

Dopo sessantasei giorni di criminale inferiore, passai in un sottochiave cioè in una stanza superiore, larga, ariosa, con una grande finestra che stava sul primo trapasso, ed affacciava sul giardino, e vedeva molte ville e case lontane. Come io vi entrai e vidi il sole nella stanza, mi messi a quel sole, tutto che fosse sul fine di luglio, e mi riscaldai tutta la persona, che nel trapasso e nell’Immacolata avevo sempre freddo. Mi parve cosí bello quel sole, quella luce, e quel verde che sentii un ristoro per tutta la vita; allora non mi accorsi che l’aria di quella stanza era avvelenata dalla latrina del carcere che le stava da presso. In quella stanza stetti sedici mesi ed otto giorni.

Mentre mi riscaldavo al sole, ecco battere alla parete della stanza contigua, e una voce: «Ehi, chi sei tu?» Io batto anch’io, poi mi fo alla finestra, e ascolto: «Santo diavolo, vuoi dirmi chi sei?» «E che t’importa chi son io?» «E va a malora». Dopo cinque minuti, ripicchia al muro, io vo a la finestra, e quei mi dice: «Attacca l’orecchio al muro dove senti picchiare». Vado al muro ed odo: «Io sono Pasquale Musolino: sei tu Luigi?» Io picchio, metto le mani presso la la bocca vicino al muro, e dico: «Sono Luigi; Benedetto dov’è?» «Dal lato di mezzogiorno: si sono fatti cambiamenti di stanze». Dalla finestra scambiammo altre brevi parole, e stabilimmo dover parlare la sera a traverso la parete che è di tufo, sottile, e però sonora. Poi egli si messe a cantare. Cantava sempre a dilungo, e dopo un’aria della Sonnambula una canzone calabrese, e poi un’altr’aria, e poi un «santo diavolo» con un sospirone: non istava mai cheto, faceva sempre rumore nella sua stanza, rideva, si sdegnava, e quando non cantava fumava, parlava coi ladri che stavano nei criminali [p. 102 modifica] inferiori, e gli chiedevano tabacco da fumo, ed ei ne mandava loro per mezzo dei custodi, ed essi lo chiamavano il mastro di casa; e sebbene chiuso in una stanza conosceva tutti, si faceva udire da tutti, e quando vedeva una donna ad una finestra lontana cantava e telegrafava con le mani. Aveva ventun anno: non lo tenevano reo, e lo lasciavano sfogare: e poi egli era largo coi custodi, ai quali suo fratello faceva dare buone mance. La franchezza e spensieratezza del giovine, le mance, la bontá dell’indole napoletana che si vede anche in un carceriere quando non deve infierire per comando, la consuetudine di tre mesi, erano le cagioni per le quali egli poteva fare il diavolo nella sua stanza e non se ne curavano. Un avvertimento di tanto in tanto: egli rispondeva con una barzelletta, e di lí a poco tornava da capo. La sera adunque ci mettemmo a la parete, e si parlò un pezzo. Seppi ogni cosa, e che in Napoli c’era stato un altro denunziante, il quale spontaneamente era andato a dire ogni cosa al ministro, aveva presentato diplomi e catechismo, e detti i nomi convenzionali cui erano indirizzate le lettere, e fatte sorprendere alcune lettere, tra le quali ce n’era una mia. Io non dirò il nome di costui.

Fra i giovani che nell’anno 1864 ascoltavano le mie lezioni nell’universitá veniva un bel giovanetto, che era attento, ingegnoso, e mi stava sempre intorno con un certo affetto. Gli domandai il suo nome, ed ei mi disse: era figliuolo di quel denunziante. Possa questo giovane diventare un onesto uomo, e non sapere mai che suo padre fu un malvagio, che suo padre fece piangere molti, che fece la spia, e per prezzo ebbe quindici ducati al mese. Se io profferissi quel nome io ucciderei quel povero giovine.

Seppi dunque da Pasquale che l’accusa piú grave cadeva sul fratello; che tutti avevano negato, finanche il servo a cui si era cercato di far paura, ma egli era rimasto fermo e faceva lo stolido; che l’Anastasio doveva essere arrestato la stessa notte dell’8 maggio, ma che avvertito a tempo fuggí ed era nascosto: insomma l’affare era piú grave che io non avevo immaginato. [p. 103 modifica]

Il giorno 11 agosto aspettava il pranzo all’ora solita, e non veniva: verso il tardi s’apre la porta, ed entra proprio il custode maggiore, che mi dice: «Possiamo vederla badessa». «Che è mai?» «La signora s’è sgravata, ed ha fatta una femmina. Buona salute a tutti: voi a libertá, e lei badessa. Pranzate dunque allegramente». Cosí nel carcere di Santa Maria Apparente mi fu annunziato che a mezzo giorno mi era nata la mia figliuola Giulia Eleonora Beatrice. Io la benedissi da lontano, e pensai quanto aveva dovuto patire la mia Gigia senza di me. Dopo alquanti giorni mi portarono la bambina, e mentre io la baciava aperse due begli occhi cilestri e mi sorrise. Mia moglie mi diceva: «Dovevamo morire io e lei, ma Iddio non ha voluto: ché due giorni prima del parto caddi e rotolai tutta una scala: mi tenni la pancia con le mani, e cosí non abortii. Guardala ora come è bella, e dorme placidamente». Povera figlia! ella succhiò il latte di sua madre che sofferí tutti i dolori della miseria, che patí la fame, e come se questo fosse poco, quando andava dal commessario a pregarlo che sbrigasse il processo, colui le diceva: «Signora mia, non pensate piú a vostro marito che certamente sará condannato a vent’anni di ferri almeno: pensate a voi». Con che cuore la mia donna udiva quelle parole, e di che latte avvelenato doveva nutrire la sua creatura! La bambina sfiorí, il suo corpicino si ricoprí di piaghe, ed ebbe lunga e penosa malattia. Quando fu donna e andò a marito, io non potei benedirla che di lontano, perché ero in un altro carcere: quando fu madre, neppure potei benedire la sua figliuoletta. Sempre dolori! E i dolori piú grandi furono della donna mia, che patí piú di me assai, e nascondeva i suoi patimenti, e di rado ne parlava a me: non mai ella cercò pieta da alcuno, non mai volle essere compatita; le vesti ai figliuoli le cuciva lei e me li faceva venire innanzi sempre puliti. E se mi domandate come facemmo a sofferire tanto, io vi rispondo che allora avevamo una grande forza, che ci veniva dalla gioventú e dall’amore.