Ricordanze della mia vita/Parte prima/XV. Il giudizio
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XV
Il giudizio.
La Vicaria, o Castelcapuano, è un vasto ed antico edifizio, che un tempo era fuori le mura della cittá, ed oggi è in una delle contrade piú popolose presso la porta detta Capuana. I re normanni lo edificarono come reggia e castello fortissimo, con fossati, bastioni, ed altre difese; e vi abitarono tutti i nostri re sino agli ultimi aragonesi: e sebbene stessero piú volentieri in Castelnuovo, che è in riva al mare e piú sicuro, pure il vecchio Castelcapuano fu sempre stanza reale: e quando non ci furono piú re in Napoli divenne palazzo di giustizia. Il viceré Pietro di Toledo con grandi opere e spese nel 1540 gli diede la forma che ancora oggi conserva. Nelle regie sale, dove erano state tante splendidezze, raccolse i tribunali: le stanze inferiori volte a settentrione chiuse e strinse e le fe’ carceri secondo la feroce idea spagnuola. Grande, bruno, isolato, quadrilatero, sorge questo edifizio in una larga piazza: vi si entra per unica porta, sopra la quale vedesi figurata in pietra l’aquila a due teste di Carlo V. Innanzi a questa porta stava un’antica colonna di marmo con larga base, su la quale un tempo saliva il debitore fallito e scoprendo nude le natiche al popolo faceva cita bona, diceva: «Cedo bona», cedeva i beni e salvava il corpo dai creditori. Chi entrava in cittá dalla porta Capuana vedeva in alto appiccati sopra le finestre del carcere in undici gabbie di ferro undici teschi, rosi, mezzo coverti dalle erbe natevi intorno e pendenti: furono di uomini di cui sono dimenticati i nomi e i delitti. La colonna ed i teschi durarono sino al 1860.
Il carcere che ora si vede non è interamente quello che fu ideato e costruito dagli spagnuoli: aveva tre piani, ed ora rimangono i soli due superiori, ché il terzo più basso, essendo colmato il fosso che ricingeva tutto l’edifizio, è rimasto chiuso e sotterra, e sono oscure ed enormi caverne che io vidi a lume de’ torchi. Vi era ancora un gran numero di criminali, bui, umidi, senz’aria, veri sepolcri; e di questi i piú tetri furono murati, i rimasti si chiamano approvati. Le finestre erano alte dal pavimento e strette come feritoie: ora sono dilargate e bassate. Il Celano ci ha lasciato scritto che ai suoi tempi in questo carcere, che allora aveva tre piani, erano tormentate ben quattromila creature umane: nel 1841 non potevano starci millecinquecento. Tanta parte ne era stata abolita, e quella che rimaneva era crudele e nefanda.
Il carcere superiore chiamasi de’ nobili, l’inferiore del popolo: e vi si entra per due porte diverse, sopra una delle quali è dipinto un Cristo che con la croce addosso sale il Calvario, e sopra l’altro un altro Cristo nell’atto d’essere inchiodato su la croce, due pitture fatte con l’intenzione di dare conforto e speranza a chi entra. Noi entrammo nel carcere del popolo, ma rimanemmo nel piano superiore in un luogo appartato detto provvisorio, che è uno stretto corridoio nel quale sono cinque criminali che si chiamano le Camerelle, Marco Perrone, la Lampa, lo Sperone, l’Asprinio, che e il piú freddo: tre altri erano murati e serbavano ancora i loro nomi, il Gallinaccio, la Monacella, le Farfarelle. In questo luogo, che allora fu sgombrato e preparato a posta per noi, si soleva mettere i nuovi arrestati in esperimento per farli confessare mediante paure e tormenti, ed ancora i forzati che per delitti commessi in galera venivano ad essere giudicati in Napoli. E di questi forzati vi erano tradizioni di sangue in ogni criminale: qui furono uccisi due dai compagni; qui fu pugnalato un altro; dallo Sperone fuggirono dodici che bucarono la volta coi coltelli e riuscirono in una sala superiore; qui stette un anno Marco Perrone, prete, bandito, e poi impiccato, e v’ha lasciato il suo nome. Noi dunque fummo chiusi in quei criminali, ed a me toccò l’Asprinio. Luce fioca, aria grave, puzzo stomachevole e continuo, una volta bassa che pare ti caschi sul capo: nell’inverno vi si agghiaccia, nella state pare di essere in un forno.
Avemmo da scrivere per le nostre difese: ed io in quell’antro freddissimo passava i giorni a scrivere memorie per l’avvocato e pei giudici. In alcuni giorni della settimana dopo il mezzodí passavo al carcere dei nobili nella stanza dell’ispettore, e quivi vedevo mia moglie, e il mio Raffaele, e talvolta ancora quella cara bambina tanto ammalata e pure tanto bella. La stanza dell’ispettore era aperta, fuori erano i custodi, dentro noi soli, e potevamo parlare senza testimoni. Lí mia moglie mi raccontava quei dolori, che non mi aveva scritto mai, e che io non posso neppure ricordare perché mi trema il cuore anche a ricordarli dopo tanti anni. Ella mi diceva: «L’unica persona che mi accoglie coi riguardi dovuti a la sventura è il presidente Marcarelli: egli solo mi dice parole di conforto, ed è un galantuomo. L’ultima volta mi ha detto che dopo l’impinguamento del processo alcuni giudici vedono bene la causa, specialmente il barone Buonanno che è commessario. Il solo presidente Girolami è un vecchio cane che ringhia sempre, e dice: ‘Sí, quelle carte le ho scritte io, sono di carattere mio! Come si distruggono quelle carte?’» Io allora dissi: «Se il Marcarelli può farmi avere un autografo del Girolami col nome e cognome, un autografo di una decina di righe, io gli farò fare una lettera settaria tutta di carattere del Girolami scritta e sottoscritta da lui, e non ci avrá che dire». Il Marcarelli approvò molto il mio disegno, e dopo alquanti giorni ebbi da mia moglie l’autografo: sul quale con un poco di studio raccozzando le sillabe e le parole formai una lettera furiosa che parlava di setta. E fatto chiamare mio fratello Peppino, che pochi mesi dopo il mio arresto aveva lasciato Catanzaro, e con la sua famiglia e con Alessandro era in Napoli, a lui affidai la faccenda di trovare un calligrafo che scrivesse la lettera inventata da me, imitando il carattere dell’autografo che gli consegnai. E Peppino puntualmente trovò un calligrafo che per sei ducati gli fece dieci copie della lettera imitando benissimo il carattere del Girolami. Due copie erano in inchiostro nero, ed otto in turchino formato di prussiato e di solfato mescolati insieme: e su gli otto fogli fu passata la soluzione di solfato di ferro, cosí che parevano scritte in modo invisibile, e poi scoperte, e in tutto simili a le nostre lettere. Il Marcarelli quando vide questi fogli ne fu meravigliato grandemente e disse: «Sono diavoli, e bisogna salvarli». Scelse quattro di quelle copie, che gli parvero d’imitazione migliore. Io le diedi a conservare a mia moglie, per averle a tempo da presentare al ringhioso presidente.
Intanto dai nostri criminali noi altri si parlava facilmente pei finestrini che erano sopra le porte, e si parlava nella nostra lingua e nessuno c’intendeva, e il corridoio era stretto e breve. Onde sia che videro che il nostro isolamento era senza scopo, sia che ebbero bisogno di quei criminali per altri carcerati, dopo una quarantina di giorni ci unirono tutti nelle Camerelle che eran due camere con una porta. Ci messero anche l’Escalonne, ridotto mezzo nudo che faceva pietá, e pure parlava sempre di duelli, di battaglie, e di gran braverie fatte in Francia. Senza moto, senza aria, senza luce, e avvelenati dal puzzo, noi eravamo ingialliti come vecchi carcerati; ed io ebbi una malattia, ed un tumore su la mascella destra. Veniva il medico del carcere a nome don Serapione Sacchi, mi osservava, e si stringeva nelle spalle. «Dovreste andare all’ospedale, ma non posso mandarvi. E qui ci vuole un taglio». «Ebbene fatelo». «Non posso, ci vuole il permesso». «Se non potete far nulla perché venite a visitarmi?» «Sono comandato». «Dunque fatevi dare il permesso da’ vostri superiori». Attesi alcuni giorni, e il permesso non veniva. «Dottore», gli diss’io, «o tagliate voi, o taglierò io senza permesso con un temperino o un coltello qualunque.» Sí, no; infine tagliò, e almeno mi liberai dal dolore. E senza permesso volli liberarmi ancora dalla tenia, a consiglio dell’Anastasio, e bevvi un decotto di radice di granato selvaggio che mi fu preparato e portato da mia moglie. Cosí mi preparava a la battaglia della causa che si avvicinava, e ci volevano buone forze a sostenerla, ed io era spossato e sofferente.
Il 22 giugno 1841 fummo condotti in Castelnuovo. Innanzi la chiesa di Santa Barbara ci venne incontro don Camillo, un vecchietto custode della prigione di stato, il quale ci menò ad una porta, e prima di aprirla accese due lanterne, una per sé, una pel capo de’ gendarmi, e si cacciò giú innanzi a tutti: noi dietro scendemmo al buio, a tentoni, una scala sempre diritta, lunga centosette scalini, e finalmente giungemmo in un camerone grandissimo, dove era un po’ di luce da una finestra assai alta dal suolo e profondata nelle mura del castello. Poi che ci tolsero le manette, io dissi al custode: «E questa è tutta la prigione di stato che voi custodite?» Il vecchio si sentí pungere. «E che volevate un appartamento?» mi rispose. «Qui ci sono stati signori grandi; e qui in questa cantina sono state chiuse in una volta piú di cento persone. Questo e il celebre Coccodrillo». «Oh perché si chiama cosí?» «Dicono che il coccodrillo impagliato che sta sulla porta del maschio del Castello, prima stava qui, e divorava i prigionieri: dicono, vedete, io non lo so io, che non fu a tempi miei». «Ma come li divorava se erano chiusi qui?» «Osservate qui sul pavimento questo gran quadro di fabbrica piú recente: qui c’era una botola, e sotto c’è il mare: e quando i prigionieri erano gittati giú per quella botola il coccodrillo se li mangiava». Noi ci dovemmo acchetare alle notizie storiche di don Camillo, il quale stava lí da trent’anni, e suo padre ce n’era stato cinquanta: e non gli si poteva contraddire senza offenderlo. Quando Ferdinando I d’Aragona invitò i baroni ad una festa in questo castello, e qui li fece prendere e chiudere in carcere, e poi nella notte di Natale gettare in mare ed affogare, si sparse fra il popolo che i baroni scomparsi erano stati divorati dal coccodrillo. La memoria di questo fatto rimane ancora, e fece chiamare del coccodrillo qualunque carcere del castello. Se questo fu antico non si sa; ma egli è certo che gli sventurati baroni nella vicina torre di San Vincenzo furono tenuti ed annegati.
In questo sotterraneo noi fummo assaliti da una schiera di grossi e vecchi topi, dai quali ci difendemmo col gettare ad essi le reliquie del nostro pranzo, e vedevamo la guerra che si faceva tra loro per chiapparle. La notte non si dormí, perché non c’era dove poggiare il capo, e i materassi stavano sopra un tavolato, dove i topi ballavano. Si passò fumando: e io ebbi brividi di freddo e febbre. Il mattino appresso col custode discesero in quel criminale mio fratello Peppino, e Rosario Anastasio fratello di Raffaele ed uomo di ottimo cuore, e avevan le facce come due cadaveri. «Oh, che cosa è? noi stiamo bene, e ci divertiamo coi topi. Finalmente qui non si stará che una decina di giorni: noi siamo abituati a tutto, e staremo anche qui, ma Luigi è ammalato, e può aggravare. Chiedete che sia messo col Ricciardelli nella stanza del custode». «No: se non usciremo tutti di qui, io non uscirò io solo». «Ma tu sei ammalato». Peppino e Rosario andarono dal procurator generale il quale ordinò in iscritto che io passassi nella stanza del custode, e gli altri in altra stanza che si potesse avere dal comandante del castello. Io subito fui condotto nella stanza di don Camillo, dove conobbi il buon Ricciardelli. Andarono dal generale Selvaggi, il quale concesse una buona stanza nel secondo piano in cui furono messi i compagni. Cosí io stetti una giornata nel Coccodrillo, e i compagni quasi due giornate. Come io entrai nella stanza del custode e mi feci a la finestra senza cancelli che guarda sul porto militare, come io sentii l’aria e l’odore del mare, e tutta la persona mi riscaldai al sole, io ebbi un gran sollievo.
Eccoci innanzi a la commissione di stato, che sedeva intorno ad una gran tavola con tappeto verde. Il presidente in mezzo: a sinistra il consigliere Donati Laudati, il colonnello della Spina di marina, il colonnello Gullo de’ granatieri, il cancelliere: a destra il consigliere Gregorio Morelli, il consigliere barone Cesidio Bonanni, il Marcarelli, il Crispi, il procurator generale De Luca. Noi in fondo della stanza sopra uno scanno, poggiato al muro, guardati da gendarmi. La porta della sala chiusa a tutti, e guardata di fuori da altri gendarmi, tra i quali non mancava l’onesta faccia di qualche nostro parente che stava lí non per udire, ma se mai v’era un bisogno; e per dire la veritá i gendarmi non lo discacciavano. I nostri interrogatori, il rapporto del commessario Bonanni, la lettura de’ documenti, la discussione vollero parecchi giorni: e ciascun giorno dopo la seduta io tornavo col Ricciardelli nella stanza del custode, e preso un po’ di cibo, attendevo la visita di mia moglie e dei fratelli miei, e de’ fratelli di Nicola, Giosafatte e Giovanni Ricciardelli, fiorenti e garbatissimi giovani de’ quali mi ricordo sempre con compiacenza, come ricordo con affetto del caro Nicola. Questi un giorno mi disse: «Piú tardi avrai una visita». «Oh chi?» «Non te l’aspetti». E piú tardi venne don Ottavio Colecchi, il filosofo che non sarebbe andato a visitare un principe, e mi strinse la mano, e disse: «State di buon animo. Ho detto al Bonanni che non dovete essere condannati, e sono certo che egli ascolta le mie parole: ma intanto difendetevi». E mutato discorso stette una mezz’ora ed andò via. Egli era amico di casa Ricciardelli, anzi era dello stesso paese, e Nicola ebbe il gentile pensiero di farlo venire per darmi una speranza con un uomo di tanto senno e tanta autoritá.
Venne l’accusa del procurator generale, il quale con un sorriso piacevole e con le piú gentili parole del mondo dimandò per Benedetto Musolino, Luigi Settembrini, e Raffaele Anastasio diciannove anni di ferri; per Pasquale Musolino, e Nicola Ricciardelli libertá. «E di Escalonne che faremo? Sarebbe meglio mandarlo in Algeria, ma giacché noi non ve lo possiamo mandare, io dimando 19 anni di ferri anche per lui. Questi signori nel loro discarico hanno voluto dimostrarci che essi sono uomini intemerati e stimabili: lo sapevamo: anche il Cirillo, il Pagano, e gli altri erano uomini stimabilissimi: il loro fallo è appunto commesso dagli uomini stimabili».
Il de Luca era un furbo che coi modi piú garbati avrebbe fatto il boia, e voleva parere buono con tutti, e soccorrevole ad ogni sventura. Dopo la sua requisitoria tornammo a le nostre stanze, ed io facendomi a la finestra odo e vedo una compagnia di forzati che vanno al lavoro nella darsena. «Come questi dunque?» dissi fra me. Il Ricciardelli capí quello che pensavo, e mi parlò di tante cose, ed io gli rispondevo poco, ché aveva sempre negli orecchi il rumore delle catene di quei forzati.
Il giorno dopo il Marcarelli fece la sua brava difesa, che fu piena di senno ed anche ardita. Disse fra le altre queste parole: «Signor presidente, questo processo è falso come l’anima di Giuda. Voi mi direte non c’essere falsitá, ma ignoranza: ed io vi rispondo che l’ignoranza è tale, e le illegalitá sono tante che diventa una colpa. La commissione suprema rimandò il processo per maggiore istruzione, perché riconobbe appunto che era mal fatto, e bisognava correggerlo, ma fu inutile: ha dovuto affidare ad un magistrato una nuova istruzione che ci ha dato fatti contrari a la prima; non sia falsitá, ma sia ignoranza, e voi sopra un processo istruito con tanta ignoranza potrete formare la vostra convinzione, e profferire con coscienza un liquet? potete dire che per tali pruove raccolte liquet che questi giovani sieno colpevoli di setta? Non mai».
Benedetto Musolino si difese come un leone: egli era avvocato criminale, uomo d’ingegno, parlatore facile, pratico di processi diede grande risalto a tutte le sciocchezze fatte da la polizia, le quali furono veramente incredibili. Uditene una. Quando il Musolino fu arrestato, ei gittò una carta che aveva in tasca, e che fu presa, ed egli disse sempre non averla gettata lui. Questa carta fu descritta minutamente nel verbale di arresto: un foglio scritto a metá, contenente una lettera del dittatore da Roma il quale approvava un ufficio dato a la persona scritta in margine: ma nel verbale per un caso inesplicabile di storditezza, non si fece alcuna menzione del nome di quella persona che era leggibile e chiaro, ed era Nicola Ricciardelli. Il Musolino diceva: «Quando io fui arrestato questo nome non c’era in quella carta, perché il verbale non ne parla: dunque ce lo avete scritto dipoi, e con la stessa mano che ha scritto il carattere della lettera, che sono un carattere». E questo fece gran colpo nei giudici.
A la mia volta io presi la parola, discorsi brevemente del Barbuto tristo per testimonianza anche del vescovo, e falsatore del mio carattere per confessione sua medesima, discorsi delle lettere non mai segrete, come avevano dichiarato i periti chimici stessi adoperati dalla polizia, e infine dissi: «Signor presidente, se per dichiarare settario un uomo basta presentare una o due lettere di suo carattere, io ne presento quattro di carattere vostro, e dico che secondo esse siete settario anche voi. Ho fatto contraffare il carattere vostro per dimostrarvi quanto è facile foggiare una lettera per rovinare un uomo». Il presidente ad udire queste parole cominciò a stridere con la sua vociolina: «Questo è un insulto». «È una prova, signor presidente, non mai un insulto a voi». E il Laudati ridendo: «Presidente mio, statti attento che sti guagliuni ti fanno trovare qualche cambiale». Il presidente brontolava e chiocciava: tutti i giudici vollero vedere le carte, ed egli solo no, e disse al cancelliere: «Restituitegli quelle cartoffie». «Scusate, presidente», disse il Laudati, «queste carte sono state presentate, e la commissione deve decidere che cosa bisogna farne». Squillò il campanello, noi uscimmo fuori, dopo un’ora (e dovettero combattere) fummo richiamati, e ci fu letta la decisione che quelle carte rimanevano a far parte del processo. I giudici tutti mi guardavano con certi sguardi significativi, ed io lí freddo facevo lo scemo.
Raffaele Anastasio disse poco, che non aveva che dire: Pasquale Musolino e Nicola Ricciardelli si raccomandarono a la giustizia della Commissione. L’Escalonne disse: «Io non so che ho detto, io non so che ho fatto, non so come e perché sono in carcere nudo ed affamato. Signori, voi condannerete un povero matto». E non pote piú dire una parola, che gli venne un singhiozzo.
La discussione era finita. Noi uscimmo, e subito ammanettati fummo ricondotti nella Vicaria, e chiusi nelle Camerelle ad aspettare la sentenza. Era il giorno 3 luglio 1841.
Dopo alquante ore venne un custode e disse: «Una buona notizia vi porta don Rosario Anastasio, ma non può entrare se non viene l’ispettore che verrá a momenti». Rosario messe il capo nello sportello che è nella porta esteriore del carcere, e disse: «Non consta per tutti: Pasquale e Nicola a libertá». «E come lo sai?» «Ho aspettato sino a l’ultimo, ho visto uscire primo il presidente, ed ho domandato proprio a lui. ‘Eh, eh, statevi allegri, è riuscita a brenna per tutti’». Indi a poco venne mia moglie tutta trafelata per correre, ché aveva aspettato lungo tempo in casa, ed aveva saputa la notizia. Piú tardi venne anche l’ispettore che ci confermò ufficialmente la notizia, e si rallegrò con noi. Ma noi eravamo cosí caldi della difesa e persuasi della forza delle nostre ragioni, che rispondemmo ali’ispettore signor Raffaele Orsini che non c’era da rallegrarsi con noi, che la commissione avrebbe dovuto profferire il consta che non e darci diritto di recrimine contro i nostri calunniatori. E l’ispettore che teneva sempre sgangherata la bocca al riso anche quando dava le busse ai carcerati, ci rispose senza fare atto di ridere: «Contentatevi, signori, contentatevi. Sappiate che c’era ordine, se foste stati condannati, di farvi partire oggi stesso pel bagno: come c’è ordine che oggi stesso don Pasqualino esca libero, e che voi quattro passiate al civile nel carcere dei nobili, stanza numero cinque, a disposizione di S. E. il ministro di polizia». Cosí fu fatto: Pasquale uscí, noi entrammo fra gli altri carcerati nella stanza al numero cinque, e ridotti alla condizione comune non ci fu piú permesso di vedere i nostri parenti nella stanza dell’ispettore, ma all’udienza che era un pandemonio, e mia moglie non ci venne mai.
Fu una pazzia quella di sfidare la polizia, ma senza quella pazzia noi saremmo andati in galera. Il ministro Delcarretto teneva certa la nostra condanna, perché i processi politici erano fatti tutti come il nostro, e spesso ci metteva le mani egli stesso, e tutti i processati erano condannati, e nessuno aveva avuto l’ardire che avemmo noi: ché l’ardire e l’ingegno ci salvò come salva quasi in tutti i pericoli. Come dunque seppe che noi fummo assoluti entrò in grande furore e disse proprio queste parole: «Non mi resta che invitarli a pranzo quei signori». E in quel furore corse dal re, ed esposta la cosa a modo suo propose di rifarsi la causa da altri giudici e intanto di mandar noi provvisoriamente al bagno di Nisida. Il re ordinò si portasse a lui il processo. Noi credemmo che volesse trattare l’affare in consiglio di stato, e facemmo presentare memorie a tutti i ministri, e tutti dicevano non saper nulla. E veramente nulla sapevano, e non si trattò mai questo affare in consiglio di stato: ed era un mistero che non si poteva penetrare. Ad un tratto la commissione suprema pe’ reati di stato fu tutta sciolta con un decreto reale, e rifatta di altri uomini: il Buonanni chiamato dal re e rimproverato rispose dignitosamente aver giudicato secondo coscienza: il Marcarelli fu traslocato in Salerno, e dovette ubbidire. Per noi il re disse: «Il giudicato sia rispettato». Dipoi sapemmo che il re aveva dato il processo, per esaminarlo e dirgli un parere, a Nicola Nicolini e Giustino Fortunato, due ministri senza portafoglio, i quali che parere diedero non saprei dire, so che avvennero questi fatti. Il ministro Delcarretto trionfò de’ magistrati che non avevano giudicato secondo il volere della polizia; di noi non si curò, ci tenne in carcere a sua disposizione e come egli volle per altri quindici mesi dopo il giudizio.