Ricordanze della mia vita/Parte prima/XI. Il cholera
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XI
Il cholera.
Il cholera che aveva devastate molte contrade d’Europa, si manifestò la prima volta nel regno nell’autunno del 1836, ma nella state del 1837 menò grande strage per tutto. In Napoli morirono ventiduemila persone, come sta scritto su la porta del camposanto dove furono sepolti; in Palermo poco meno; in altre cittá infierí diversamente secondo la posizione e la temperie del luogo. Sempre e dovunque è stata una peste non conosciuta prima, il popolo che vede in un subito morire e non sa come e perché, crede sempre che sia veleno, e ne accagiona i nemici, se ne ha, o quelli che egli odia. Il nostro popolo credette che fosse veleno e che il governo lo facesse spargere, mandandone le casse agl’intendenti, e questi lo dividessero fra i loro cagnotti i quali lo gittavano nelle acque. Credenza sciocca, ma anche le sciocchezze hanno il loro significato in questo mondo. Il popolo credeva che il suo gran nemico era il governo, e lo stimava capace di tutto: questa era la trista veritá che stava nascosta sotto tutte le voci e le sciocchezze che furono a quel tempo. Oggi dopo tante invasioni del cholera, pare che nessuno piú creda che ci sia veleno; ma allora lo credevano tutti in Calabria ed in Sicilia, e avvennero fatti terribili. È a desiderare che non torni mai piú con quella prima violenza, che le plebi accecate dalla paura della morte farebbero cose anche peggiori. La paura sconvolge tutti i cervelli, e si fanno e si dicono cose che vanno osservate dai savi come piú strane degli stessi fenomeni della peste.
In Catanzaro, sedente sovra un monte e spazzato da tutti i venti, non ci fu cholera, ma ci fu paura grande e sgomento per le novelle che venivano da ogni luogo, dai paesi della provincia, da Cosenza, da Napoli. Tutti i cittadini si armarono, si messero a guardia delle porte della cittá, e a drappelli andavano girando pel contado.
Ognuno fece sue provigioni di cibo, e di quelle si nutriva parcamente: se aveva in casa pozzo o cisterna, la chiudeva, e la guardava dí e notte: le fontane pubbliche e le sorgenti erano guardate da due sentinelle ciascuna: camminando per le vie si squadravano biechi l’un l’altro, e se v’era persona sospetta ne seguivano le pedate, gli guardavano le mani, spiavano se portasse cosa sotto i panni.
Trovandomi inerme in mezzo a tanti che volevano fare a schioppettate col cholera, io mi provai una volta a dire: «Amici miei, smettete questa idea del veleno, ché nessun governo per tristo che sia ha mai avvelenato i popoli. Ella è peste, è malattia: guardate il cielo come è brutto, e osservate che tutti abbiamo un malessere. C’è qualcosa nell’aria che cagiona questo, e l’aria non si può avvelenare. Quando ci fu la peste in Atene, che era assediata dai Peloponnesii, il popolo, dice Tucidide, credette che i Peloponnesii avevano avvelenato i pozzi. Sempre cosí, l’è un vecchio errore di popoli. Ricordatevi la peste di Milano descritta dal Manzoni; anche lí credevano veleno sparso su le mura dagli untori, e condannarono a morte alcuni disgraziati. Bisogna tenersi lungi dagli appestati, bisogna guardarsi, va bene, ma non temere per le acque». Mi risposero inviperiti che io stessi pure con Tucidide e con Manzoni, e essi si stavano con la loro opinione. Erano uomini di senno, e parlavano come matti: avevano le facce trasformate, gli occhi spalancati. «Ho visto io morire un cane dieci minuti dopo che una donna gli ha gittato un pezzo di pane». «E la donna?». «Era giá scomparsa». «Ecco qui una lettera da Cosenza: ‘Amico carissimo, guardatevi perché i nostri nemici ci vogliono attossicare come topi. Moriamo almeno con le armi in mano’. E chi mi scrive non è uno sciocco». «Ho parlato con un proprietario il quale co’ suoi guardiani è andato in campagna, ed ha veduto un uomo vestito come un calderaio che beveva a una fontana: egli ha sospettato, ha detto: ‘ferma lá’, e quegli è fuggito come una lepre. Hanno guardato l’acqua, e v’era una materia bianca gettatavi da colui». «Sciocco! quando lo vedi fuggire, tiragli una fucilata, e fallo cadere. Se m’accade a me, io gli tiro al volo». «Per amor di Dio, no; voi ucciderete uno che ha piú paura di voi». Taluni che passavano per uomini di garbo ed a modo, dicevano: «Bisogna guardarsi, perché forse la peste c’è, ma c’è anche veleno, e in questi tempi sogliono piú facilmente esservi avvelenamenti per vendette private, e non si scoprono». «Piú difficilmente, amico mio, perché quando tutti corrono un gran pericolo ognuno pensa a salvare sé, e non insidiare altri». Era fiato perduto: credevano che era veleno, e se dicevi no, ti credevano avvelenatore, e guai. Qualche uomo ragionevole c’era, ma in mezzo a tanti che erano agitati da una strana paura, stimava meglio tacere, anche per non dare sospetti. E cosí mi tacqui anch’io, e li lasciai dire.
Intanto in molte parti la paura divento furore. In Siracusa, in Catania, in Cosenza, in Civita di Penne furono moti simultanei. Feroce in Siracusa, dove il popolo venuto in un pazzo furore uccise tutta la famiglia di un giocoliere di cavalli credendo portasse veleno, uccise l’intendente che tentava d’impedire quell’eccidio, e dichiarò decaduto dal trono un re che avvelenava i suoi popoli: in Catania non fu versato sangue, ma rovesciato il governo. A sedare questo moto di Sicilia andò il ministro Delcarretto, il quale creò le solite commissioni militari, e queste si messero all’opera del condannare, e fecero fucilare oltre dugento siciliani. Intanto egli per rallegrar gli animi dava feste di ballo, e mostrava ilaritá: e questo ad alcuno parve spettacolo piú crudele del cholera e delle fucilazioni. La Sicilia rimase atterrita: Siracusa per pena della ribellione fu privata dell’intendenza, che passò a Noto: e cosí l’antica regina della Sicilia fu ridotta a cittá capoluogo di distretto.
In Cosenza fu solamente un tentativo. Nei paeselli circonvicini si unirono parecchi armati che dovevano entrare nella cittá, dove avevano accordo coi prigionieri i quali ad ora stabilita dovevano sforzare il carcere ed uscire: ma gli armati non convennero tutti, ed i prigionieri impazienti romoreggiarono innanzi tempo: onde l’onesta cittadinanza accorse ed impedí si scatenassero seicento malfattori. Subito fu spedito al castigo Giuseppe de Liguoro, che allora era intendente di Catanzaro, e fu creato commessario delle tre Calabrie con poteri pienissimi. Costui che era colonnello di gendarmeria, braccio del Delcarretto, ed era stato principale operatore della distruzione di Bosco nel 1828, corse tosto a Cosenza; e tra prigionieri ed altri che gli vennero a mano, scelse sette, li fece condannare dalla Commissione militare e subito fucilare come avvelenatori e spargitori di voci contro il governo. Cosí proprio diceva la condanna: si poteva dunque non credere al veleno? A molti altri fulminò pene di galera, di carcere, di esilio, e cosí acchetò ogni moto.
In Abruzzo erano le voci stesse, e sdegni, ed accordi, e la cittá di Penne piú ardita e pronta.
Il barone Sigismondo de Sanctis, ricevitore distrettuale, diede avviso ai congiurati che il governo conosceva ogni cosa e stava per arrestarli, onde essi vennero subito ad un fatto, disarmarono i gendarmi, gridarono costituzione, dichiararono Ferdinando decaduto dal trono, e da eleggere altro re, o Carlo principe di Capua, o Luciano Murat, o non so qual principe di Germania. La gente dei paesi vicini si armò, aspettò, dubitò tanto che quei di Penne vedendosi soli, e conosciuta la gravezza del fatto, impauriti fuggirono via, e quella gente armata venne allora a Penne per rimettere il governo. Ci venne ancora il comandante della provincia, un antico brigante a nome Gennaro Tanfano, il quale si diede un gran fare, incarcerò quelli che non avevan fatto nulla e non erano fuggiti, ordinò una commissione militare. Il generale Lucchesi Palli spedito dal re, quando vide che la commissione condannava a morte nove poveri artigiani e contadini, mentre i capi erano fuori, due volte per telegrafo segnalò la brutta condanna sperando grazia: non gli fu risposto, e quei nove morirono. Il Tanfano intanto taglieggiava i cittadini, e richiese al De Sanctis trecento ducati dalla cassa distrettuale: questi non intese che doveva darli del suo, e rispose che non poteva dargli danaro pubblico. «Ecco uno dei capi», gridò il Tanfano, e lo fece arrestare e giudicare. Il De Sanctis per salvare la vita pagò dodicimila ducati ai suoi giudici, e fu dannato all’ergastolo perché capo, e la commissione lo dichiarò capo perché aveva avuto tanto potere sul popolo da fargli deporre le armi al giungere dei soldati. Questa condanna fece scandalo, e il De Sanctis che aveva amici potenti, domandò si rivedesse il suo processo, e la consulta di stato opinò si dovesse rivedere: ma il Delcarretto disse al re che non si governa con gli avvocati, che se si stabiliva il principio di potersi rivedere le sentenze delle commissioni militari non ne rimaneva una. Fu stimato meglio non toccare il processo, e fare grazia al De Sanctis, che uscí dall’ergastolo.
Cosí Delcarretto, De Liguoro, Tanfano ed il cholera straziavano il regno nel 1837. Il cholera passò; quei rimasero per altri anni.
Fra tante dolorose novelle di mali pubblici, e di parenti e di amici tolti dalla peste, me ne venne una dolorosissima, che Giacomo Leopardi era morto in Napoli, non di cholera ma di quel fiero morbo che gli fece troppo amara ed angosciosa la vita. Alcuni anni dopo andai a visitarne la tomba nel villaggio di Fuorigrotta, accanto la porta della chiesetta di San Vitale. Il suo amico Antonio Ranieri, nella cui casa egli stette e morí, mi raccontava quanto egli ebbe a penare per trovare quel luogo dove riporre le reliquie di tanto uomo, per non farlo andare confuso fra tanti che in quei giorni morivano ed erano insaccati nel camposanto. Nessun prete voleva riceverlo in chiesa: il Ranieri parlò a parecchi parrochi, e tutti no: gli fu indicato quello di San Vitale come uomo di manica larga e ghiotto di pesci. Ei tosto corse a la Pietra del pesce, comperò triglie e calamai, e ne mandò un bel regalo al parroco, il quale si lasciò persuadere, e fece allogare il cadavere nel muro esteriore accanto la porta della chiesa. Cosí per pochi pesci Giacomo Leopardi ebbe sepoltura. Queste cose me le diceva il Ranieri, ed è bene che il mondo le sappia queste cose.