Ricordanze della mia vita/Parte prima/X. Catanzaro
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X
Catanzaro.
Io le voglio un gran bene a quella cittá di Catanzaro, e piacevolmente mi ricordo sempre di tante persone che io vi ho conosciute piene di cuore e di cortesia, ingegnose, amabili, ospitali. La cittá è sita sovra un monte in mezzo della Calabria: dietro le spalle le van sorgendo altri monti sino alla gran giogaia della Sila, che di verno si vede coperta di neve, e su la neve sorgono nereggianti i pini: dinanzi le sta un vastissimo terreno ondulato di colline che sono sparse di giardini, di orti, di case, di vigne, di oliveti, d’aranceti, e di pascoli dove biancheggiano armenti: e tutto quel terreno si curva in arco sul mare Ionio che tra i capi Rizzuto e Badolato forma il golfo di Squillace. Il mare è distante da la cittá sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il fragore: vi si discende per una strada che va lungo un torrente, e quando sei su la riva trovi un villaggio che chiamano la Marina, dove i signori hanno loro casini e la primavera vanno a villeggiare. Ad un miglio da la Marina sbocca il fiume Corace, ed oltre il fiume s’innalza un antico tempio rovinato, che si vuole edificato dai cristiani nel V secolo, e si chiama la Roccella: ci sono le quattro mura, su le quali si aggira sempre un nugolo di mulacchie. Piú in lá sul lido una grande pianura, che chiamano castra Hannibalis, e dicono che ivi fu l’ultimo alloggiamento di Annibale che lí s’imbarcò per Africa.
Quando da un luogo della cittá detto la Villa io guardai quella fioritissima veduta, volli trovare la fede di battesimo di Catanzaro, e dissi: «Se la vostra cronaca narra che un potente bizantino a nome Flagizio venne nell’ottavo secolo e fondò o ampliò la cittá, egli le dovette dare questo nome di Catantheros, Catantharos, (κατανθέρος) che vuol dire sul fiorito, e glielo diede pel sito bellissimo ed amenissimo su cui forse ebbe una sua villa, e poi surse la cittá». «Oh, che Flagizio e che greco voi ci contate. Una volta c’erano due fratelli briganti, Cataro e Zaro, i quali dopo molti anni che scorsero la campagna, infine si pentirono, e vennero qui che era luogo forte, e nessuno poteva toccarli: qui abitarono con la loro compagnia e le loro famiglie, qui fabbricarono una chiesa e ci furono seppelliti; e cosí si formò la cittá che porta il nome di tutti e due». Ci ebbi una quistione lunga che non è decisa ancora: anzi ogni buon catanzarese tiene per i due briganti, e non so come non gli hanno messi tra i santi protettori della cittá.
Essendo la cittá posta dove la terra d’Italia è piú stretta e come strozzata tra il mare Ionio ed il Tirreno, è battuta continuamente da venti che tolgono agli abitanti la pena di spazzarla, rendono l’aria pura, ma variabile, e i cervelli mobili e facili a dare di volta. Le case non sono né belle né grandi, e si abita per lo piú in baracche fatte di legno dentro e poca fabbrica fuori per difendersi dai terremoti. La Calabria è il paese dei terremoti: ogni cittá, ogni terricciuola ti presenta vestigie di rovine, e non passa anno che nella stagione di primavera o di autunno la terra non tremi. Era il colmo di una notte ed io dormivo in una stanza, presso la quale era un’altra famiglia: fui scosso da un rumore come di venti carri d’artiglieria che passassero insieme per via; odo alcune voci gridare: «San Vitaliano, aiutateci», sento il letto tremare, e m’accorgo del terremoto. Saltammo dal letto, prendemmo alcuni panni, e fuori in una piazzetta dietro la casa, dove si raccolse anche l’altra famiglia. La cittá fu piena di rumori, di voci, si aspettava la replica, ma non venne: vennero amici e conoscenti che avevano una certa familiaritá col terremoto, e andavano facendo visite, e celiavano. La scossa fu leggiera, e si passò la notte in veglia: ma quando le scosse sono gagliarde tutti tremano, un grido spaventevole esce della cittá, e tutte le voci chiamano il santo protettore e la Vergine. C’era stato il terremoto grande del 1832, e tutti ne parlavano con terrore, e mi mostravano le rovine in vari luoghi, e narravano fatti dolorosissimi. Ah, mi diceva uno, se non ci fossero i terremoti ed i briganti, la Calabria sarebbe il primo paese del mondo.
La città piú calabrese della Calabria è Cosenza, dove predomina l’antica schiatta bruzia: Catanzaro è la piú grossa, con circa ventimila abitanti, nei quali scorgi l’indole e l’ingegno greco, e li odi parlare un dialetto pieno di greche parole. Allora aveva una gran corte civile per tutte e tre le Calabrie, e come capo di provincia un intendente, una corte criminale, un tribunale civile, un comandante le armi, un vescovo, vari uffiziali di finanza, un liceo, un seminario, una scuola primaria, una tipografia, un solo libraio. Questa cittá come molte altre, non ha vita propria, ma da la gente che vi corre per piati e per faccende, sicché se la sede del governo provinciale fosse trasferita altrove ella resterebbe deserta. I proprietari attendono a coltivare i loro fondi con l’ignoranza e la negligenza antica, a vendere le derrate e i prodotti delle loro mandre: ma industria nessuna, delle arti le sole necessarie, ogni cosa, persino i solfini, viene da Messina e da Napoli. Vi è rimasta una memoria dell’arte di tessere la seta, introdotta nelle Calabrie nel XII secolo da re Ruggiero: pochi artigiani solitari e miseri hanno imparato quest’arte ciascuno dal padre suo, e tessono per chi fornisce loro la seta, e fanno bei lavori. Cosí era Catanzaro quarant’anni fa, e da tre anni aveva la strada rotabile che la congiungeva a Tiriolo, ché prima aveva un sentiero per dirupi, dove a pena andavano i muli.
L’arte che tutti i calabresi sanno benissimo, dal piú ricco all’ultimo mendico, e quella di maneggiare il fucile. Non esce di casa un possidente per andare ai suoi fondi, o in paese vicino, o per divertirsi in campagna con la moglie e i figliuoletti, senza che egli sia armato sino ai denti, e accompagnato da servi armati detti guardiani, i quali guardano il padrone, la casa, i poderi, i bestiami; ed ogni proprietario ne ha quanti ne può avere, e li arma con permesso del governo. Il popolo vive miseramente, e in un’ignoranza che fa pietá: sono rozzi e fieri, ma non sono sciocchi: pochi esercitano un’arte o un mestiere, gli altri servono, o coltivano i campi o guardano gli armenti: per miseria rubano, e per natura impetuosa trascorrono ai delitti di sangue. Chi ammazza un uomo, si nasconde; se è cercato, si getta in campagna, dove per vivere deve rubare: un fatto tira l’altro, un’offesa cagiona un’altra: se egli è veduto con altre due persone armate, le autoritá lo dichiarano fuorbandito o brigante, e mettono la sua testa a prezzo. Allora quell’uomo diventa un lupo, si disfá di tutti i suoi nemici, di tutti quelli dai quali si ricorda di aver avuto un torto. I fuorbanditi si uniscono in compagnia, taglieggiano i proprietari, ricattano uomini, fanciulli, donne, e non li rimandano se non hanno danari e robe: se il proprietario non manda loro ciò che gli chiedono, gli scannano il bestiame, gli bruciano il casino, e se colgono lui lo uccidono. La maggior parte del danaro, degli ori, e degli argenti che cosí rapiscono la mandavano a qualche uffiziale di gendarmeria, a qualche generale ancora, e a qualche proprietario che può aiutarli, e molti piccoli proprietari sono diventati ricchi briganteggianti al coperto. Parecchi briganti raccontavano a me nell’ergastolo come e a chi davano, e come erano avvisati di ogni cosa, e trattati a dolciumi e a galanterie: e mi dicevano il quando, il dove, e certi nomi di persone che erano tenute per coppe d’oro. Uno mi diceva: «Io stava comodamente in casa del capitano, e dormivo in un buon letto, e il capitano coi suoi gendarmi andava camminando per trovarmi: io gli aveva dato duemila ducati». Questa vecchia piaga delle Calabrie, che il governo borbonico faceva le viste di voler curare, e piú l’inaspriva coi suoi gendarmi e coi suoi impiegati ladri e corrotti, non può essere risanata che a poco a poco, e dalla sola libertá che è risanatrice di tutti i mali. Quando le strade comunali, provinciali, e ferrovie metteranno i Calabresi in facili communicazioni tra loro e con le altre genti d’Italia, allora si scioglierá quell’antica lotta chiusa in ogni paesello tra il proprietario sempre usuraio lí, e il proletario sempre debitore, si ammansirá quell’odio per oltraggi antichi che è la vera cagione del brigantaggio. Quando quelle genti avranno lavoro, istruzione e giustizia, quelle loro nature sí gagliarde nei delitti saranno gagliarde nel lavoro, nelle industrie, nelle arti, nella guerra santa e nazionale. In nessuna contrada ho veduto piú ingegno che in Calabria, lí schizza proprio dalle pietre, ma raramente è congiunto a bontá, spesso è maligna astuzia.
In Catanzaro trovai poche persone colte, parecchi parlatori che parevan saputi; tutti, specialmente i nobili, cortesi e amabili: il popolo lieto, motteggiatore, vago di spassi e di feste, molti legisti e di valenti: in tutti quanti un po’ di rozzezza che non dispiace perché sotto v’è buon cuore. Le donne, tranne pochissime, non sanno leggere, ma con gli occhi dicono tutto. Dai paeselli vicini ne vengono alcune d’una mirabile bellezza di forme, e mia moglie ne lodava specialmente una che era povera fanciulla di Marcellinara, e aveva occhi, volto, persona bellissima e perfetta.
Ci sono quattro confraternite, delle quali fanno parte tutti i cittadini, che gareggiano pazzamente in feste arredi luminarie, spendendo gran danari che andrebbero meglio adoperati in opere civili. Ma che volete? I nostri padri, vivendo muti e disgregati senza libertá politica, non avevano altro legame comune che la religione, però fondarono queste confraternite dove avevano una certa libertá, e voto, e magistrati, ed eguaglianza, e potere di legge piú che di uomini, e associazione di mutuo soccorso; e ragionevolmente amavano queste istituzioni onde avevano molti benefizi. E perché l’arte è un bisogno del nostro popolo, quando si celebra la festa del santo della confraternita, l’eloquenza la poesia e la musica sono adoperate nella festa. Un prete o chierico sciorina un panegirico, a cui il popolo batte le mani e grida l’evviva: sonatori vanno per tutta la cittá, e poi quante persone sanno accozzare versi italiani, latini, e greci ancora, e francesi s’il vous plait ne recitano a dilungo. Come io giunsi a Catanzaro trovai grandi preparativi per la festa dell’Immacolata che si fa l’8 dicembre; e poi che ebbi letta la mia prolusione nel liceo, fui tosto invitato a fare da presidente a l’accademia che si doveva tenere in chiesa per quella festa. Non ci fu verso a scusarmi, Peppino mio fratello mi disse che se ne sarebbero offesi, dovetti pure leggere e scrivere un discorso sguaiato, e mi sorbii sino all’ultimo tutte le poesie che si recitarono: ce ne furono bonine, e ce ne furono da far spiritare anche il diavolo che sta sotto a la Immacolata.
Il liceo di Catanzaro era uno dei quattro del regno, nei quali oltre l’insegnamento letterario si dava il primo grado dell’insegnamento professionale, c’erano cattedre di diritto, di medicina, di chimica, d’agricoltura, e di matematiche sublimi, e ci si aveva la licenza: per la laurea poi si doveva venire all’Universitá.
Dopo il 1848 il Governo per non far raccogliere in Napoli molti giovani provinciali, messe in tutti i collegi l’insegnamento professionale, e li trasformò in licei, e li diede a governare ai padri gesuiti o agli scolopi, che mirabilmente impecorirono i giovani. Io mi messi ad insegnare con ardore e con amore a quei cari giovanetti, che essendo poco minori di me per l’età mi intendevano e mi amavano tanto. Poveri giovani! Ne ho riveduti parecchi nelle carceri e nelle galere con la catena al piede; e sono venuti a visitarmi nell’ergastolo. I frati non li fanno questi allievi.
Il rettore mi disse che gli alunni del liceo due volte l’anno solevano far un’accademia nel giorno del nome e nel giorno della nascita del re, cioè recitare versi italiani, latini, e greci in lode di Sua maestá; e che tutti quei versi doveva farli io professore di rettorica, perché gli alunni non sapevano, e gli altri professori non avevano questo debito. Mi sentii rovesciata addosso una pentola d’acqua bollente; non sapevo di aver quel dovere, e da adempierlo subito, ché tra pochi giorni sarebbe venuto il 12 gennaio 1836, in cui re Ferdinando compiva il suo ventesimo sesto anno. Mi dibattei come un cavallo selvaggio preso al laccio, e mi sentiva avvilito innanzi la mia coscienza. Non c’era che fare. Si pensò che la regina era per partorire, e che sarebbe stato meglio fare l’accademia in occasione del parto. Ella partorí il 16 gennaio, ed io mi messi a cantare; ma dopo quindici giorni venne la nuova che ella era morta, ed io dovetti cangiar tuono!
La morte della regina afflisse tutto il regno: il dolore fu sincero, il lutto generale. Giovane, bella, pia, compassionevole, morire mentre era lieta di un figliuolo, e cosí subito, e mentre si festeggiava il suo parto, era veramente una pietá. Si bucinò che Carlo principe di Capua avendo anch’egli la comune opinione che il re fosse impotente a generare, e vedendolo per due anni senza prole, aveva sperato di succedere al trono; ma che quando si accertò della gravidanza della regina, e poi del parto, e della prole maschile ne fu corrucciato a segno che venne a fiere parole col fratello, ed entrambi messero mano a le spade; che la regina li udí, balzò da letto, si gettò in mezzo, li divise; e che per questa paura, essendo ancor tenera del parto, la poveretta in capo a pochi giorni si morí. Questo fatto mi fu riferito da persona che soleva spillare tutti i segreti di corte. Certo è che quel Carlo fu violento e malvagio da giovane, e fieramente si odiarono col fratello. La cagione palese di quest’odio fu che egli sposò una signora inglese, e fece al sangue dei Borboni una macchia che il re fratello non gli perdonò mai, mai non volle riconoscerne la moglie ed i figliuoli, gli negò ogni avere, e lo ridusse ad andare povero e ramingo per l’Europa; ma la ragione segreta di sí pertinace odio fu quella contesa. Egli era noto per indole trista e brutte opere: di sua mano uccise un pover’uomo che egli sorprese in luogo riservato alla caccia reale presso Castellammare: batteva e feriva chiunque ne provocava lo sdegno; pigliava danari in prestito e non pagava: ed un creditore che andò a domandargli il suo avere, egli lo fece sbranare mezzo dai suoi mastini, e colui indi a pochi giorni morí. Gli anni, la buona moglie, i figliuoli, il bisogno mitigarono quell’animo. Né solo costui, ma gli altri fratelli del re si macchiarono di laide colpe. Leopoldo conte di Siracusa, luogotenente in Sicilia, fu richiamato per libidini troppe anche in un principe. Poi fece lo scultore e il liberale, e molti liberali annacquati gli erano intorno, taluno per bisogno. Ma Antonio conte di Lecce superò tutti in bassezza e bestialitá. Ritiratosi in un paese detto Giugliano, si accerchiò di bravi che per suo conto rapivano fanciulle e maritate, battevano e ferivano chiunque resisteva. Vestito da castaldo, andava pei mercati vicini, comperava e vendeva porci, buoi, cavalli, grano, granturco: spesso rissava coi villani, e dava e toccava pugna e nerbate: ingannava, frodava; truffava nei negozi, e se ne vantava come di astuzie. Colto da un marito fu precipitato da una finestra: cosí pesto, e marcio di libidini e di furfanterie, si morí ancora giovane. Monsignore Scotti gli recitò l’orazione funebre, nella quale non lodò nulla, e i vizi erano troppo noti e inescusabili, ma disse che era vissuto male e morto bene, ché Dio e grande e poteva averlo perdonato, e diede per certo il perdono e la salita di don Antonio in paradiso. Gli altri fratelli Luigi e Francesco di Paola non erano venuti su, e le loro valentie le fecero di poi. Intanto la madre loro Isabella seguitava a fare figliuoli con un tedesco: lo scandalo era troppo: il re volle che ella scegliesse pure un marito, ed ella finalmente si messe in grazia di Dio e tolse a marito un bel giovane. Insomma in quel sozzo lombricaio borbonico, il solo re Ferdinando fu costumato.
Dopo cinque mesi da la morte di Cristina egli andò a Vienna e tolse a seconda moglie Maria Teresa figliuola dell’arciduca Carlo. Costei scaricò una dozzina di figliuoli; odiò cordialmente i Napoletani che parlavano sempre di Cristina, e ripeteva sempre al marito: «Casticate, Fertinante, casticate». Egli seguí subito e bene il consiglio della nuova moglie, la quale gli stava sempre attaccata al fianco, come chiodo a la scarpa, ed egli la chiamava Centrella. Ma torniamo in Calabria.