Ricordanze della mia vita/Parte prima/XII. L'arresto
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - XI. Il cholera | Parte prima - XIII. Il carcere di Santa Maria Apparente | ► |
XII
L’arresto.
Il giorno 8 di aprile di quell’anno 1837 mi nacque il caro e benedetto figliuolo Raffaele Michelangelo Tiziano. Dovevo rifare mio padre, trassi buon partito dal nome, e vi aggiunsi altri due nomi di artisti, immaginando che cosí il mio figliuolo riuscirebbe un nuovo miracolo nell’arte, e avrebbe le virtú di tutti e tre quei grandi pittori. Chi sa come è fatto il cuore d’un padre può immaginare la mia gioia, le speranze, i disegni, i castelli che facevo. La Gigia ed io eravamo sempre attorno al bimbo, che veniva su vispo e robusto, e ragionavamo sempre di lui, e le amiche di mia moglie volevano vederlo diguazzare nell’acqua fredda, e ne maravigliavano assai.
Intanto mia sorella Teresina entrò nel monastero della Maddalena e dopo qualche anno si fece monaca: mio fratello Vincenzo tornò in Napoli e si fece frate alcantarino: Peppino impiegato nell’intendenza aveva preso moglie. Giovanni studiava architettura, ed Alessandro ancora giovanetto venne ad abitare con me per continuare i suoi studi. Finito il cholera io mi godeva la pace della mia famiglia, attendevo ai miei studi e ad insegnare nel liceo a quei bravi giovanotti. La sera passeggiavo fuori la cittá verso i Cappuccini con due amici, coi quali ragionavo degli avvenimenti del mondo, delle ultime rivoluzioni, di tanti condannati alla galera, e di tanti altri ridotti a mendicare la vita. Era una sera bellissima, le stelle scintillavano piú vive, avevamo ragionato un pezzo su la misera condizione della patria, ed io parlai loro la prima volta apertamente della giovane Italia, come di una novella religione politica della quale noi dovevamo essere apostoli e martiri ancora, spiegai loro ogni cosa, e terminai col dire: «Noi la vedremo un’Italia unita e forte, vedremo le armi di un console o del dittatore valicare le Alpi, cingere Vienna, e piantare su quei baluardi la nostra bandiera negra». I due amici non avevano fiatato, non m’avevano interrotto, e quando io ebbi finito mi si gettarono tra le braccia e mi strinsero forte.
Essi furono i primi affiliati a la setta che io feci in Catanzaro.
Per avere da Napoli le novelle politiche, e per ragguagliare il mio amico Musolino di ciò che io facevo, ci scrivevamo lettere con caratteri invisibili, le quali andavano e venivano per la posta con poca prudenza. Non mi domandate che cospirare era quello, e che fine io avevo.
Cospiravo perché non sapevo starmi cheto tra gli oppressi, né mettermi tra gli oppressori, perché rimanermi inerte mi pareva codardia.
Cosí passarono gli anni 1837 e 1838. Ma tosto ci fu un traditore.
Un prete mio amico G. L. volle che io conoscessi il parroco di un paesello chiamato Crichi, col quale ei mi disse che s’erano allevati insieme in seminario, e che era liberale e bravo, e si chiamava Nicola Barbuto. Quando io vidi questo parroco Barbuto sentii certa ripugnanza per lui, e mia moglie con quel fino senso che hanno le donne lo temeva come un nemico, che egli era brutto e nero come un topo e aveva il labbro leporino; pure io lo accolsi e gli feci dare un catechismo. Dopo alquanti giorni mi disse dover andare per sue faccende a Cosenza e poi a Napoli, e mi chiese lo raccomandassi a qualche persona. «Dagli pure le lettere», mi disse G. L., «e non dubitare della sua bruttezza». Io gliene diedi una per Raffaele Anastasio, farmacista in Cosenza, ed una pel Musolino in Napoli. Poi che il parroco fu partito sapemmo che egli aveva pariato piú volte con l’intendente, e io cominciai a sospettare, e ricordare la sua aria, i suoi occhi, e certo suo smarrimento quando mi chiese le lettere. G. L. non poteva darsi pace: io scrissi subito all’Anastasio ed al Musolino che si guardassero, e stetti in guardia per me. Tutto questo avvenne perché io non sapevo bene l’arte del cospirare, fidavo troppo negli amici, e non ricordavo la prescrizione del catechismo, uno con uno e non piú! Il reverendo parroco aveva rivelato ogni cosa all’intendente, che lo mandò al ministro in Napoli, perché egli aveva accusato me solo, temendo del prete che era paesano e poteva col tempo fare una vendetta calabrese. Non timore di Dio né fedelta al principe, ma desiderio di farsi ricco e potente spinse quest’uomo, che vedendo come la grazia di Dio gli fruttava poco, volle la grazia del governo.
La notte dell’8 maggio 1839 mentre io dormivo mi fu accerchiata la casa da gendarmi e poliziotti, i quali in nome della legge entrarono, messero sossopra carte libri masserizie, mi rubarono parecchie cose e fra le altre un paio di orecchini di mia moglie che parevano di diamanti. Intimarono a tutti di vestirci ed uscire: e chiusero la casa, e portarono via la chiave. Mia moglie con Alessandro che portava il bambino in collo fu condotta in casa di mio fratello Peppino; io accerchiato da birri fui condotto nel quartiere dei gendarmi, dove condussero anche il giovanetto Alessandro. Dopo ventiquattr’ore Alessandro fu liberato, e mia moglie tornò in casa, dove alla sua presenza fu fatta un’altra ricerca minutissima, e non trovarono nulla, e presero alcune carte per prendere qualche cosa. Io rimasi nel quartiere otto dí, guardato a vista da gendarmi che non mi lasciavano mai solo né la notte né il giorno. Tra quei gendarmi era un giovane bello di aspetto e di umore piacevole, il quale mi disse: «Voi siete professore, ed io voglio insegnare a voi una cosa, e ricordatevela: i nemici dell’uomo sono tre, carta, calamaio, e penna».
All’alba dell’ottavo giorno mi fecero montare a cavallo fra quattro gendarmi, e mi condussero a Tiriolo, paese che è su la grande strada delle Calabrie. Cavalcando passo passo sento di dietro venire correndo un altro cavallo, mi volto e vedo mio fratello Giovanni: i gendarmi gli vietarono avvicinarsi, ed ei porse loro del danaro per me, mi salutò mestamente, e tornossene. Stetti in Tiriolo sino a la mezza notte: in quell’ora giunse la diligenza, ed io vi montai con un solo sergente a nome Failla, che condusse anche sua moglie. Prima di entrare in diligenza egli mi disse: «Signore, debbo condurvi in Napoli, e son dolente di adempiere questo dovere, ma capite che è dovere. Potrei condurre con me altri gendarmi, potrei mettervi le manette, ma io fido in un galantuomo. Mi date la vostra parola che non fuggirete?» «Sí, vi do la mia parola». «Posso esser sicuro?» «Piú che se mi conduceste in mezzo ad un reggimento». «Va benissimo». E veramente ei mi fu molto cortese, non volle accettar danari che gli offrii, mi trattò con rispetto, e la moglie parvemi una buona donna. Nel quarto luogo della diligenza entro un pretarello magro e squarciato come un levriero, che con un fagottino sotto l’ascella camminava a piedi quando la diligenza andava adagio. «Dove si va, abate?» «A Roma, per vedere la canonizzazione del beato Alfonso de Liguori e del beato Francesco de Girolamo. E voi?» «Io? vo con questo sergente». «A Napoli?» «Voi andate a vedere un pochino di paradiso, ed io vo’ all’inferno, vo’ carcerato». Il povero prete mi aprí tanto un paio d’occhi in faccia, si fe’ pallido, e non disse piú che monosillabi.
La terza notte giungemmo in Napoli, e dismontammo innanzi l’uffizio delle poste. Quivi il sergente mi disse: «Abbiate un occhio al mio fucile, che non me lo rubino». Me lo porse e si allontanò con la moglie. A quell’ora, in quel luogo, in una cittá cosí grande di cui io conoscevo tutti i viottoli, nessuno sapendo che io era prigioniero, mi venne la tentazione di fuggire e gettare il fucile in qualche parte, ma avrei tradito un uomo che aveva fidato in me, lo avrei rovinato, fattolo arrestare, subissare: rimasi e gli consegnai il fucile quando ei tornò. Ei condusse la moglie in un albergo, e poi me in prefettura, dove mi disse: «Spero di rivedervi subito libero». Non ho piú riveduto quel gendarme galantuomo.
Nella prefettura fui chiuso in una stanza terrena dove era un cesso orribilmente fetido, ed un gran tavolato sul quale gettai il mio valigiotto, sul valigiotto poggiai il capo e mi addormentai come Diomede. Dopo non so quante ore sentii scuotermi forte e scrollare da una mano, e dirmi il carceriere: «Alzatevi, vi vuole il commessario». Nel balzare in piè mi trovai le mani rosse e fetide di cimici, che allora sentii per tutta la persona. Il commessario mi domandò: «Siete voi il professor Luigi Settembrini?» «Sono io». «Montate in carrozza». E aggiunse altre parole che io non intesi mezzo stordito come ero dal sonno. Montai con due sbirri che vollero una mancia perché non mi legarono, e fui menato in Santa Maria Apparente prigione dei ladri e dei rei di stato.