Racconti sardi/Di Notte/II
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II.
— Elias, Elias! — esclamava il padre di Simona. È inutile che tu urli chiedendo aiuto. Nessuno verrà, e la procella nasconde il tuo grido. Nessuno verrà! Tu devi morire lì, legato alla sedia ove ti assidevi ogni notte, dieci anni fa, ti ricordi, miserabile? ogni notte... in qualità di fidanzato leale ed onesto!... colla sedia che abbiamo gelosamente conservato per dieci anni... che ti aspettava... che getteremo sul fuoco intrisa del tuo sangue vigliacco...
— Difenditi! — diceva cupamente Simona. — Se non ci dai una sola scusa, almeno una, del tuo vile procedere, la tua morte sarà orribile! Difenditi! Scusati, e con una fucilata tutto sarà finito. Se no, guai a te!..
— E sei tu che parli così?... — rispose Elias. — Tu donna, tu che mi dimostravi la bontà in persona? Tu?
— T’odio! Tu mi hai disonorato; tu ch’eri il mio fidanzato, la vita mia, mi hai tradita, mi hai perduta! Il dolore ha ucciso in me ogni sentimento umano: t’odio, e da dieci anni non sogno che la vendetta. E che cosa è, vigliacco, l’angoscia che tu provi stanotte in confronto di ciò che ho sofferto io? È odio, e son io che ho spronato i miei alla vendetta...
— Uccidetemi dunque!.. mormorò Elias — Ma pensate che v’ha una coscienza... un Dio...
— Ci aggiusteremo noi con la nostra coscienza e con Dio! esclamò Tanu, uno dei fratelli, con un sorriso crudele e feroce che lasciò vedere due fila di denti bianchissimi, forti, da belva, scintillanti al riflesso del fuoco.
— La coscienza e Dio!... — saltò su Simona come una vipera. — Ne hai tu avuto coscienza, hai pensato a Dio tu?...
Elias chinò il capo.
— In nome di nostra figlia... disse.
— Dunque sai che ho una figlia?.....
— Sì, lo so. Se tu vuoi io la legittimo. La piglierò meco e un giorno sarà ricca, perchè io lo son diventato e con l’altra non ho figli...
— Come parli! — gridò Pietro, l’altro fratello. — Non hai dunque ancora compreso che non uscirai di qui nè vivo nè morto?... E accarezzò lungamente la canna del fucile, che teneva sulle ginocchia, dicendo con crudele lentezza: — Ti massacrerò io, io che ero il tuo amico, io che ti ho introdotto nella nostra casa dove lasciasti la sventura e il disonore. Ti ucciderò io e ti porrò io sotto terra, tristo serpente miserabile! Ah, con chi ti credevi tu? con chi ti credevi? La nostra famiglia ha vendicato sempre le offese ricevute, e noi, stanotte, noi che ti abbiamo cercato per dieci anni in tutti i villaggi di Barbagia, pei monti nevosi e per le gole dirupate, noi laveremo col tuo sangue la macchia impressa al nostro nome.
— Simona, Simona!... — mormorò il prigioniero volgendole, spaventato, uno sguardo supplichevole. — Nostra figlia...
— Taci, non nominarla! È il fiore nato dalla colpa, ma è pura come le nevi del Gennargentu! Tu la profani nominandola perchè sei vile, perchè sei infame! Tu le sei nulla... Suo padre è Dio!..
— Tu non le vuoi bene, Simona! Se l’ami lasciami vivere!...
Un lampo brillò negli occhi foschi della donna.
— Io adoro mia figlia e vivo solo per lei. Se essa sparisse dalla mia esistenza tutto crollerebbe intorno a me e sarei la più sfortunata fra le donne. Se l’amo! La mia figlia! La povera figliolina mia! È tutto il mio amore, la mia felicità! Ma ti ripeto di non più nominarla. Il suo ricordo, nonchè muovermi ad una pietà, impossibile in me dopo tutto ciò che è accaduto, accresce il mio odio, la mia sete di vendetta. E non vedo mai l’ora di saperti sotto terra affinchè, quando essa mi chiede di suo padre, io possa dirle, senza più arrossire: È morto!...
— Dunque è deciso! — gridò Elias. — Uccidetemi dunque! Vedete che son pronto! Saprò morire perchè non sono vile, come voi credete, perchè se errai non fu mia colpa, ma del caso e per volontà di Dio! Uccidetemi!..
— Uccidetemi!... — ripetè fuori il lugubre fischio del vento.
I cinque personaggi di questa tetra tragedia rusticana tacquero un momento. Una calma terribile segnava nei loro volti e il fuoco continuava a illuminare la scena con tinte sanguigne, e funebri chiaroscuri; una scena degna del fosco Caravaggio.
— Racconta dunque perchè mi hai tradito, senza scusa alcuna, dopo due anni di fervido amore! — Disse alla fine Simona, sempre fissa nella sua idea. — Se ti ricordi dovevamo sposarci subito perchè io ero madre. Tu partisti con un cavallo carico di castagne, di formaggio e di arnesi di legno che avresti venduto a Nuoro per comprarmi l’anello di sposa e i gioielli... Dovevi ritornare fra quattro o cinque giorni e mi lasciasti quasi piangendo... Son trascorsi dieci anni, dieci anni di angoscia, di lacrime e d’odio, ma mi pare ieri... E non tornasti; e un mese dopo ti seppi sposo a una fanciulla di Fonni!...
— Racconta! Se hai una scusa, ti ripeto, ti uccideremo con una sola fucilata, altrimenti, come è vero Cristo, come è vero che sei lì, legato, ti abbrucieremo vivo!..
L’accento di Simona era così duro che un brivido d’orrore corse per tutto il corpo di Elias. Tuttavia, dissimulando, rispose freddamente: — Non temo nè il fuoco, nè la palla; pure vi dirò come è accaduto. Non fu mia colpa, vi dico, ma volontà di Dio!... Sentite!... — E cominciò:
«Sì, son dieci anni e pare ieri! Io partii pensando a te e disegnando la nostra vita avvenire... ma Dio volle altrimenti! Ero due ore distante da Fonni, ove contavo di passare la notte, per proseguire l’indomani il viaggio verso Nuoro, allorchè cominciò a nevicare. Non ne feci caso, abituato com’ero a tutte le intemperie del tempo, e proseguii per il sentiero dirupato, attraverso le gole dei monti, camminando a piedi davanti al mio cavallino tanto carico. E cammina, cammina. Il vento mi batteva la neve sul volto, appiccicandola alle mie vesti, alle mie mani, persino alle ciglia e alle labbra. In breve il mio pastrano ne fu tutto coperto, e le bisaccie delle castagne e la groppa del cavallo, tutto, tutto quanto.......
Il sentiero sparve sotto la neve, ma io, che mi credevo pratico dei luoghi, proseguii senza turbarmi, in linea retta, gli occhi fissi sull’orizzonte dove di tanto in tanto credevo scorgere il profilo di Fonni. Il vento urlava pazzo per le montagne e la notte piombava, ma la neve cadeva sempre... Cadeva sempre, ammucchiandosi sui miei passi, e nessuna anima viva interrompeva la solitudine selvaggia dei monti. Solo noi, io che cominciavo a perdermi d’animo, bagnato fino alle ossa, cominciando a credere d’essermi smarrito, giacchè Fonni non compariva più sul mio cammino, — e il povero cavallo che tremava tutto e non poteva più andare innanzi. — La neve ingrossava; per ogni passo occorreva un quarto d’ora, e le tenebre si facevano ognora più folte. Mi pentivo di non essermi fermato in un ovile incontrato mezz’ora prima che la neve cominciava e dove il pastore m’aveva invitato a passare la notte, pronosticandomi la vicina bufera, — e ad un tratto, disperato del tutto, pensai di dar volta e ritornarmene là. Decisi di salire anzi a cavallo, perchè m’era impossibile proseguire a piedi, ma siccome l’animale era estenuato più di me, così gravemente carico come si trovava, lo scaricai di tutta quella roba che, mal come potei, misi al sicuro sotto un albero, sperando di ritrovarla l’indomani, lo montai e via!
«Avanti! — dicevo amorevolmente al mio povero cavallino, — stanotte ci riposiamo laggiù e domani sorgerà un bel sole che ci permetterà di ritornare qui. Ripiglieremo la nostra mercanzia e andremo a Fonni. Là giunti non c’è più che temere! Avanti, avanti!...
«Per un po’ il cavallo parve partecipasse alle mie idee e camminò, ma a un punto rallentò il passo e finì col fermarsi. Invano lo aizzai, lo carezzai, lo percossi; non si mosse più, ed io dovetti smontare e ripigliare il cammino a piedi, trascinando dietro, la povera bestia.
«Oh, che notte orrenda! — Il vento era cessato, ma la notte regnava folta e desolata sulle montagne e la neve cadeva, cadeva sempre. Una lieve luce bianca tramandata dal manto che copriva le rupi mi permettevano di non cadere in qualche precipizio, — ma a poco a poco i miei occhi si velavano, le gambe mi si intorpidivano sotto le ghette bagnate e tutto il mio corpo diventava freddo e inerte come la neve su cui mi trascinavo barcollando. Una volta, io e il cavallo, cademmo in un fosso; io mi rialzai a stento ma il cavallo non si mosse più ed io non pensai punto ad aiutarlo.
«Ripresi la via: ero interamente coperto di neve: grosse lagrime mi cadevano dagli occhi e finivano confondendosi con la neve che mi imbiancava la barba: le mani mi pendevano inerte e gelate sotto il pastrano freddo e pesante, e i piedi andavano, andavano, automaticamente, a caso, barcollando. E non un lume appariva nella notte, non una voce umana risuonava per l’orribile solitudine della montagna.
«A manca e a destra i picchi bianchi s’innalzavano perdendosi nel cielo color di cenere; dietro non scorgevo nulla attraverso la nebbia che scendeva lentamente dall’orizzonte e che presto mi avrebbe attorniato; davanti la china si stendeva sotto i miei piedi, piena di burroni e di precipizi. Non era certo questa la strada percorsa qualche ora prima, no, — e l’ovile non poteva comparire innanzi a me perchè m’ero smarrito! Oh, perchè non avevo proseguito verso Fonni? Forse non era poi tanto lontano dal sito dove avevo lasciato le bisaccie... forse... forse...
«Le forze mi venivano meno; dopo mezz’ora di faticoso e inutile cammino la nebbia mi raggiunse, acre, densa, nera, mi circondò, e proseguii la discesa, togliendomi l’ultimo barlume di luce. Ancora un passo e sarei caduto forse in qualche abisso: d’altronde m’era impossibile continuare perchè ora la neve mi giungeva al ginocchio e una volta affondati i piedi mi riusciva a stento trattenerli...
«Ero bagnato fino alle ossa; non vedevo più, e come gli occhi così mi si velò la mente! Caddi sulla neve e raccomandai la mia anima a Dio, pensando un’ultima volta a Simona!...