Questioni sull'Ottima Repubblica ossia sulla Città del Sole/Articolo secondo
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ARTICOLO SECONDO.
Se sia più conforme alla natura, e più utile alla conservazione e all’aumento della repubblica e dei particolari, la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone, oppure la divisione difesa da Aristotile.
Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Aristotile nel 2.° libro della Politica argomenta in questo modo: o in questa comunanza, dice, i campi sarebbero propri e i frutti comuni o viceversa, o si gli uni che gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per coltivarlo, e avere egual parte di frutti con quelli che non lavorano, e da qui nascerebbero discordie e ruina. Nel secondo caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, e i campi sarebbero mal coltivati, poichè ognuno pensa più a sè che alle cose comuni, e dove v’è una moltitudine di servi il servizio è peggiore, mentre ognuno rimette sull’altro il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe lo stesso e inoltre un nuovo male, poichè ognuno vorrebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti, e la minore nelle fatiche, e quindi invece dell’amicizia, non vi sarebbe che discordia e frode.
Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fossero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell’agricoltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza stipendio; o meglio ancora tutti vorrebbero essere rettori, giudici o sacerdoti. Così onorando alcuni, si aggraverebbero gli altri, aggravando i primi di minor lavoro, e quindi vi sarebbe ancora dell’ingiustizia, come per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni.
Terza obbiezione. La comunanza distrugge la liberalità e la facoltà di esercitare l’ospitalità, di soccorrere i poveri, poichè chi nulla possiede del suo non può fare alcuna di queste cose.
Quarta obbiezione. È un’eresia il negare la giustizia della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino contro quelli che aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apostoli. E Soto nel lib. de Just. et Jure, dice che il concilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega potersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo disse: reddite quae sunt Caesaris Caesari.
In contrario rispondiamo prima in generale colle parole di S. Clemente papa nell'epist. 4, e che sono riferite da Graziano nel can. 2, quest. I. — Carissimi, l’uso di tutte le cose che sono in questo mondo dovea essere comune, ma per iniquità, l'uno disse essere sua questa cosa, l’altro quell'altra, ecc., e dice che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto fosse in comune, anche le donne. E così insegnano tutti i Padri commentando il principio della Genesi, poichì Dio non distribuì nulla e lasciò tutto in comune agli uomini perchè crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra. Così insegna Isidoro nel capo del jus naturale; e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i cristiani primitivi si vede da S. Luca, S. Clemente, Tertulliano, Grisostomo, Agostino, Ambrogio, Filone, Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa l’anno 470, fu fatta dal medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una parte toccasse al vescovo, l’altra alla fabbrica, l’altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il proprio, lo si permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il condannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggior splendore. Quindi sì per la presente che per la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a tutti, e insegna nell’omelia al popolo di Antiochia che nessuno è padrone de’ suoi beni ma solamente è dispensatore, come il vescovo di quelli della Chiesa, e quindi ogni laico il quale abusa de’ suoi beni e non ne comunica agli altri, esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della proprietà, non dell’uso, poi nell'estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò, se bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricchi, e da S. Ambrogio nel sermone 81, e S. Grisostomo lo inculca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: nemo dicat proprio a Deo percipimus omnia: mendacii verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Agostino nel trattato 8.° sopra Giovanni e il poeta Cristiano:
Si duo de nostris tollas pronomina rebus,
Praelia cessarent, pax sine lite foret.
E Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d’oro. E Ambrogio sopra il salmo 118 alla lettera L, dice: Dominus noster terram hanc possessionem omnium hominum voluit esse communem: sed avaritia possessionum jura distribuit: e nel libro de Virg. dice che la violenza, la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei carnali, non però ai leviti, che figuravano il cristianesimo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per l’iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. 1 degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coll’autorità degli storici tutte le cose essere comuni, ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam. V, insegna coll’esempio della repubblica civile delle api la vita in comune, tanto dei beni che della generazione, e coll’esempio delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E Gesù Cristo coll’esempio degli uccelli che non hanno nulla di proprio, che non seminano nè mietono, nè dividono la pastura; eppure, come dice il giurisperito: jus naturale est id quod natura omnia animalia docuit. Per cui egli è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose comuni.
Scoto nel 4 delle sentenze 15, risponde che la comunanza è di diritto naturale nello stato di natura ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa risposta poichè, come dice S. Tommaso il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione, ma non introdusse un nuovo diritto; quindi se la comunanza fu di diritto, la sola ingiustizia potè introdurre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu introdotta: per iniquitatem, idest per jus gentium contrarium juri naturali. Ma come vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è l’arte divina? Così il diritto sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per l’iniquità, cioè pel peccato originale, ma questo commento è vano, poichè come spiegherà le parole di S. Ambrogio, che dice la divisione introdotta dall’avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno rimessi nello stato di jus naturale; adunque questa che fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una comunanza naturale negativa, cioè che la natura non insegnò la divisione: ma non affermativa, come se avesse detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione verrebbe dall’iniquità e dall’avarizia, come insegnano i santi, se la comunanza nello stato di natura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tommaso insegna l’uso comune essere di diritto naturale, la distribuzione poi e l’acquisto della proprietà essere di diritto positivo. E questa divisione non può essere contraria alla natura, poichè questa proprietà è nel caso di necessità, e in tutto ciò che succede, il necessario divien comunità, come insegna parlando dell'elemosine; poichè tutto ciò che eccede i bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina di S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda però che il diritto di attribuire e di sollevare, e resta, giusta la dottrina di S. Grisostomo, Basilio, Ambrogio e Leone papa (ser. V, de Collectis), che i ricchi sono dispensatori non padroni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della Chiesa; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci, come loro la attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav. Poichè di diritto e non ingiustamente mangia il monaco e l’apostolo, quindi ha l’uso di diritto, non di solo fatto, giacchè questo ultimo diritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto pensa che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per odio contro i Francescani, poichè Clemente V e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s'inganna, e ingiustamente condanna un papa, poichè quei pontefici da lui citati non distruggono il diritto di gius naturale, ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che si distruggono coll’uso non si può distinguere l’uso dal dominio, come si vede nel trattato dell’usufrutto delle cose che si consumano coll’uso (lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma è bensì eretico chi nega l’uso di diritto agli Apostoli e a Cristo; poichè allora non avrebbero mangiato di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, contro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. L'invitato mangia di diritto, e il suo titolo è la donazione, non minore del titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, e a chi? ai poveri o alla repubblica? direi alla repubblica e ai poveri, ma perchè non vi è luogo a disputa poichè questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone.
Adunque colla nostra repubblica vengono tranquillizzate le le coscienze, tolta l'avarizia, radice di ogni male, e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e l’oppressione dei poveri, e l’ignoranza che invade anche gli ingegni meglio disposti, perchè fuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le inutili cure, e le fatiche, e il danaro che mantiene i mercadanti, e la illiberalità, e la superbia, e gli altri prodotti dalla divisione, e l’amor proprio, e le inimicizie, e le invidie, e le insidie, come si è mostrato distribuendosi gli onori secondo le attitudini naturali si tolgono i mali che nascono dalla successione, dall'elezione e dall’ambizione, come insegna S. Ambrogio parlando della repubblica delle api, e così seguiamo la natura che è l’ottima maestra, come nelle api. E l'elezione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma naturale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù naturali e morali.
Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede, poichè anche per Platone e i fondi e i frutti e le fatiche sono comuni; e nella nostra repubblica vengono distribuite dai magistrati dell’arti le fatiche secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti con tutta la moltitudine, come si vede nel testo; nè da alcuno può usurparsi nulla, nutrendosi tutti a tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e conformi alla salute; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la esecuzione, ecc., nè alcuno può far difficoltà, poichè tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che è conforme alla sua disposizione naturale, ciò che appunto praticasi nella nostra repubblica.
Alla seconda obbiezione si risponde, che ciascuno ben applicato dai Magistrati fin dall'infanzia, secondo disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo, si propone all'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non possono divenire se non gli eccellenti, secondo l’ordine dettato nel testo. Quindi nè il soldato vorrebbe divenir Capitano, né l’agricoltore sacerdote, dandosi gli incarichi secondo l’esperienza e la dottrina, non per favore e per parentele: ma adeguati alle cognizioni. E ciascuno riceve l'ufficio nel ramo in cui si distingue. Nè i primi magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, non governando arbitrariamente, ma seguendo la natura, applicano ciascuno all’ufficio conveniente. E non possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto altrui per ingrandire i figliuoli, conviene loro agir bene per essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per paga, ma per sè, pei figli e pei fratelli, nè alcuno ha bisogno di stipendio, avendo ognuno da vivere bene, ma dell’onore che le azioni valorose ottengono dai fratelli. I Romani fino alla guerra di Terracina combatterono senza stipendio e gareggiavano a morir per la patria; ma quando invase l’amore della proprietà, mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino insegnano che essi giunsero a tanto impero per l’amore della comunità, e Catone in Sallustio dice: pubblicae opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo animus liber, neque formidini neque cupiditati obnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai migliori si conservano per la comunanza dei beni utili e onesti sotto la guida della natura.
Alla terza obbiezione. Inconsideratamente parla Aristotile, e anche Scoto, per non dire empiamente. Forse che i monaci e gli apostoli non sono liberali perchè non posseggono in proprio? La liberalità non consiste nel dare quello che hai usurpato, ma nel porre tutto in comune, come afferma S. Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalla repubblica si onorino gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura, poichè presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tue le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui uffici con cui si mostra la liberalità: e se ne insti dirò che essi hanno mutata la liberalità in beneficenza che è alla prima superiore.
Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al solito, poichè lo stesso Agostino al cap. 4 de hoeres; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli che dicono non potersi salvare coloro che possedono in proprio qualche cosa, e parimente quelli che sostengono doversi usare il vago concubito delle donne, ma non perchè predicano la comunità, chè anzi è maggior eresia il negar la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano, di quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa potè accordare la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente e direttamente. Ma, come dice S. Agostino, che pur vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti, cioè piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chiamar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con Aristotile la permissione introdotta dalla corruttela? Diciamo che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i morti, al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che non è se non una procura, non l’uso del superfluo, e Alessandro, Alonzo e Tommaso Valden e Ricardo e il Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chierici essere veri padroni dei beni della Chiesa, e non accordano ai medesimi che l'uso. S. Tommaso non dà loro il dominio che della piccola porzione che consumano poichè non sono che usufruttuari dei fondi, nè possono lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chiamar eretico quello che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo: Reddite quæ sunt Cæsaris Cæsari, non rende padrone il medesimo se non di dispensare, o di nulla, poichè nulla appartiene a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose adunque sono di Dio e a Cesare solo come ammininistratore. Vedi nella Monarchia del Messia, ove si è scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice: reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic, sed qui maior est fiat minister. Perciò giustamente predica S. Tommaso la proprietà di amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l’imperatore il servo della Chiesa.