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sempre desideroso di far cosa generosa e gentile, Leighton si precipitò da me e mi disse:

«— Vieni, vieni, debbo presentarti a Nino Costa, un vero artista, un grande artista!...

«Mi condusse presso Costa il quale, con una specie di graziosa rudezza, mi strinse la mano; e cominciammo a parlare in francese. Il mio italiano non era allora molto fluente ed il francese di Costa era assai romano, comunque facemmo la nostra reciproca conoscenza, e, Leighton avendoci lasciati soli, parlammo per del tempo.

«Questo incontro fu prontamente seguito da una visita che io feci allo studio di Costa, a Via Margutta.

«Io era, a quel tempo, un giovincello devoto all’arte, ma ingenuo nelle mie vedute; ovvero, per dir meglio, ignorante. Leighton avea guadagnato la mia ammirazione; mi piaceva il suo senso della linea, mi piaceva il ritmo del suo lavoro e mi avea colpito che tutti i quadri di lui, che io avea veduti, erano «nuovi» non già «nuovi» nell’odioso senso moderno, ma nuovi ch’erano, però, nelle vecchie linee. Avevo amato l’opera di Millais e di Holman Hunt e l’amo ancora, ma nell’opera di Leighton v’era, per me, qualcosa di distinto, di più greco e decorativo.

«Orbene. Il mio studio era in Via San Felice. Di qui camminai verso Piazza di Spagna e di là presi per Via Margutta e, per molte scalette, trovai la mia strada per giungere allo studio Costa.

«Alla mia bussata la porta si aprì ed ecco che venni accolto con un geniale benevolente saluto, sì raro da un grande uomo ad un novizio. Lo studio era guarnito di molte belle cose: armature, arazzi e curiosità. Ma non erano questi gli oggetti che mi attraevano. Su vari cavalletti stavano quadri che non dimenticherò mai; questi erano e sono del tutto diversi da qualunque altra pittura che io abbia vista. Grandi nel disegno come bassorilievi greci, pieni di una atmosfera singolare. Gli stessi riunivano un sistema di linee con apprez-