Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XL
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Il processo Monti e Tognetti.
La fuga di Lucia Monti da Roma
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XL.
IL PROCESSO MONTI E TOGNETTI.
LA FUGA DI LUCIA MONTI DA ROMA.
Me ne tornai a Firenze ed all’Arte. E, questa volta, dovevo considerarmi, ormai, non più in volontario esilio dalla mia città nativa. La Polizia Pontificia, quasi fosse presaga della sua prossima fine, vieppiù inferociva contro quanti avean dato mano al tentativo di insurrezione o ne erano in sospetto. Avrebbe tanto voluto avermi tra le unghie! A ciò impotente, era per allungar le sue rapaci mani sui miei capitali rimasti a Roma e, peggio ancora, sul mio studio, dove era tanta parte della opera artistica dei migliori anni miei. La sollecitudine affettuosa dell’amico Wilde e dell’amico Richmond, la generosa compiacenza del Console Britannico e il prestigio della bandiera del Regno Unito salvavano ogni mio bene. E fu giorno di gran festa, per me, quello in cui la mia nuda Ninfa nel bosco, sana ed incontaminata, tornò al mio studio di Firenze.
Ma s’infieriva, con persecuzioni, arresti, processi contro coloro che non avevano potuto scampare da Roma.
Si spinse innanzi, dandovi la maggiore importanza, il processo Monti e Tognetti, operai che eran stati materiali esecutori, per danaro, della innocua esplosione della mattina del 23 ottobre 1867 alla Caserma Serristori. Di questi due poveri diavoli, mentre tante ragioni permettevano di essere clementi, si vollero ad ogni costo far due vittime politiche.
Quantunque fosser gente prezzolata, Monti e Tognetti non furono da noi abbandonati. Nulla venne da noi omesso per salvarli o, quanto meno, render men terribile la lor sorte. Dovuto rinunciare a procurarne l’evasione, provvedemmo a tutto quanto occorreva alla loro difesa; avvocato, testimoni, perizie, nulla trascurammo. Da ultimo, disperando della lor sorte, ricorremmo anche al terrore, facendo sapere ai giudici che ci avrebber pagato con le loro vite quelle dei due disgraziati. Ma furon condannati a morte!...
Ci interessammo, allora, per ottenerne la grazia; autorevoli personaggi la invocarono, lo stesso Re Vittorio generosamente intervenne. Malgrado fino all’ultimo le disputassimo al carnefice, le teste di Monti e Tognetti caddero il 24 Novembre 1868 in Piazza dei Cerchi. Ferocia tanto più odiosa che il Sovrano, in nome del quale si eran condannati, era il Supremo Sacerdote della Religione di Cristo.
Giuseppe Monti lasciava, morendo, la giovine moglie Lucia, con un figliuoletto di otto mesi. Noi non li abbandonammo; ci parve sacro nostro dovere di provvedere alla vita dell’una e dell’altro. E cominciammo col raccogliere a loro favore, tra amici, una ragguardevole somma.
Ma questo non poteva bastare.
Dopo che il marito venne giustiziato, Lucia Monti era subito stata astutamente attorniata dai Gesuiti; i quali, volendo sottrarla alla pubblica pietà, che troppo testimoniava della crudeltà della condanna, avean deliberato di chiuderla in un monastero, di impadronirsi del figliuoletto e di educarlo a modo loro. Questo noi non potevamo permettere. La povera giovine, che già tanto era stata colpita con l’esecuzione del marito, non dovea essere condannata anch’essa menomandosene la libertà. E, poi, essa sarebbe stata condotta a rinnegare il suo amato; si sarebbe inculcato al figlio l’’esecrazione del padre. Giuseppe Monti avea troppo crudelmente espiato quanto avea fatto; egli era, comunque, morto per una causa giusta e nobile perchè la sua morte dovesse essere oggetto, per i suoi cari, di tanta orrenda disumanità.
Noi volemmo impedirlo, mettendo al sicuro dalla turpe macchinazione la vedova e l’orfanello di Giuseppe Monti, conducendoli fuori dello Stato Pontificio.
Questa piccola impresa non era punto agevole. La povera donna era sorvegliata continuamente da gendarmi, da poliziotti e da spie, che aveva intorno perfino tra le vicine di casa. Di Lucia Monti si volea conoscere ogni passo, ogni parola; e, se possibile, pur ogni pensiero. Tutti questi ostacoli, invece di disanimarci, acuivano la nostra volontà di riuscire. Era, anche questo, un lottare contro l’odioso ed odiato regime papale.
Io interessai all’impresa delle donne, le quali potevan dar meno nell’occhio. Fra queste, prima di ogni altra, mia nipote Adele Narducci, la quale mi aveva di recente dato ben altre prove della sua accortezza, della sua coraggiosa devozione alla nostra causa. E, pure, con premura accettarono di aiutare la signora Placidi e la moglie dell’amico pittore William Richmond, la quale avea un piccolo bambinello; e questo pure giovò al nostro intento.
Queste generose donne fecero opera preziosa. Specie nel mantenersi in continuo contatto con la Lucia Monti, ispirandole fiducia, sostenendone in ogni occorrenza l’animo.
I Gesuiti serravano da presso la giovine vedova. Un giorno questa non potè sottrarsi dall’andare nella Chiesa del Gesù dove erasi chiamata. Ma essa, prima di recarvisi, non dimenticò di farne avvertite le signore amiche, indicando l’ora in cui sarebbe andata al Gesù.
Quando Lucia Monti fu al Gesù, la menarono nella sagrestia; dove un padre Gesuita, molto commiserandola, con melate parole prima, e con severità dopo, tentò di farle rivelare i nomi dei mandanti del marito; contro i quali egli tentava di voltar l’animo della donna dicendole, ad ogni momento, di ricordarsi che costoro erano stati a mandare il marito suo al patibolo.
La poveretta, che era una onesta e sveglia marchigiana, non cedette ostinandosi nel silenzio. Il reverendo padre, allora, mutò registro. Facendo mostra di crederla molto bisognosa, si ingegnò ad eccitarne la avidità. Le offerse più maniere di aiuti. E finì per dirle di recarsi subito con un suo biglietto in un convento presso certe monache, delle quali gliene vantò la grandissima carità. Se vi fosse andata, di certo non ne sarebbe più uscita. Ma la Lucia si disimpegnò, mostrandosi ansiosa di andare a casa ove la vecchia madre sua l’attendeva ed avea bisogno di lei.
Quando la Lucia Monti tornò nella chiesa, una signora, che stava inginocchiata pregando in una delle cappelle laterali, cautamente le ammiccò di accostarsi. Era la signora Placidi la quale le bisbigliò di entrar nella sua carrozza che l’attendeva di fuori su la piazza.
— Non posso, son seguita, — quella mormorò.
Allora la signora Placidi, per sviar i sospetti della spia, cavò dalla borsa una piccola moneta e mettendola nella mano della donna, come per darle un’elemosina, con un fil di voce le disse:
— Faremo in altro modo! Coraggio!
Era ben chiaro che, se si voleva veramente salvare la sfortunata vedova e l’orfano, non si dovea perder tempo. E le brave signore non ne perdettero, agendo con grandissima prontezza e non minore abilità.
Esse mandarono subito una lor svelta donnetta a casa di una vicina della Lucia Monti con una piccola somma da dare a questa; ed assieme la più calda raccomandazione di non lasciar passar la sera senza prender seco il bambino e, facendo un lungo giro per far perdere le sue traccie a qualche possibile spione, recarsi, in qualunque modo, a casa della signora Placidi, che era in Piazza Trinità dei Monti N. 9.
In serata, senza esser veduta, Lucia Monti ed il suo bambino erano nell’appartamento della signora Placidi. Qui si trovava anche mia nipote Adele Narducci. La quale mandò subito un suo cognato allo studio di William Richmond, che non era distante, a proporre a questo di prestarsi a far passare la frontiera alla vedova Monti col figlio. Il caro Richmond e la sua signora, che nel frattempo era sopraggiunta, accettarono senza punto esitare di partecipare all’impresa.
Dopo questo tutto diveniva più facile. Venuta la notte, lo stesso cognato di mia nipote condusse, in una carrozza chiusa, Lucia Monti col suo bambino a casa dei Richmond e tornò a casa Placidi col piccolo Francis Richmond che era circa dell’età del figlio del giustiziato. Il piano escogitato era semplice quanto era ingegnoso: il piccolo Monti diveniva per alcune ore Francis Richmond e la madre sua ne diveniva la bambinaia, indossando le vesti ed adornandosi con veli, ori e coralli, che allora costumavano balie e bambinaie, mentre al bambino si sarebber messi i vestitini pieni di ricami del baby inglese.
La notte stessa l’amico Console, banchiere e pittore, Joseph Severn provvide ai passaporti. Gli impiegati ferroviari, che erano dei nostri, dettero segretamente i biglietti per Terni, che era, allora, la prima città della linea per Firenze passata la frontiera e promisero il loro aiuto all’imbarco e lungo il viaggio.
Frattanto, però, la Polizia era avvisata che la Monti ed il figliuoletto non si trovavano più nella lor casetta. Ed intuendo molto agevolmente, che si volean condurre fuori dello Stato i due sventurati, si ingegnò di impedirlo; e prese subito le due misure in conseguenza, specie alle porte della città e alla stazione della ferrovia.
Quando i Richmond, col loro falso figlio e la falsa bambinaia, furono alla stazione, trovarono il lor treno sorvegliato da parecchi gendarmi e sbirri. Questi avevan la consegna di non lasciar partire una donna con un bambino. Ma nemmeno per un momento pensarono che tal consegna potesse mai estendersi ai due giovani sposi inglesi col bambino che appariva loro. Senza dire che la Polizia Pontificia non era usa a menomamente inquietare chi viaggiasse con passaporto britannico.
Arrivati a Terni, i Richmond consegnarono Lucia Monti ed il suo figliuoletto alle sollecite cure di amici che, debitamente avvisati, pieni di premura li attendevano. Costoro provvedettero a farli proseguire, accompagnati, per Firenze dove io li accolsi nella mia casa di Via San Frediano.
La stessa sera i Richmond, ansiosi di ritrovare il loro piccino, col primo treno in partenza se ne tornarono a Roma.
La Polizia non tardò molto a conoscere la parte che aveano avuta i Richmond nella scomparsa da Roma di madre e figlio Monti. Non li inquietò e, d’altra parte, per farlo non avrebbe avuto alcun motivo legale. Ma, ciò malgrado, non mancò di sottoporli, per non poco tempo, ad una riguardosa ma assidua sorveglianza. Lo esser, così, tenuti in sospetto assai divertiva i due giovani ed allegri sposi.