Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XLI
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A Firenze ed all'arte
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XLI.
A FIRENZE ED ALL'ARTE.
Dopo tre anni e più, durante i quali la cospirazione per liberare la città ove io nacqui mi aveva tanto conteso all’Arte mia, gli avvenimenti mi riconducevano, ed ora più stabile che mai, a Firenze; dove, come dissi, ero andato col proposito di restarci solo una settimana e che, invece, fu la città nella quale, — per più di dieci anni: fine del ’59 agosto del’70 — io abbia più a lungo dimorato.
Alle amare delusioni provate fu non poco sollievo ritrovarmi in un ambiente artistico assai vivo ed interessante, il poter ridarmi tutto all’Arte in piena libertà, senza altra preoccupazione ed altri impegni. I fatti dolorosi, che ho narrati, alimentarono per non poco aspre polemiche ed accanite lotte politiche di parole. Tutte cose che non potevano essere affar mio.
Questa mia lontananza da Roma diventava per me vero e proprio esilio. Io mi ributtai al mio lavoro. Avevo, da alcuni anni, di là d’Arno in un antico palazzo in Via San Frediano, presso la sponda sinistra del fiume, vasto e comodo studio con annessa casa di abitazione ed un piccolo grazioso giardino.... Quì stetti e molto lavorai fino al mio ritorno in Roma nel ’70....
Questa mia dimora fiorentina fu feconda di lavoro artistico. Sono di questi anni i miei quadri: «Una sera alle Cascine», «Effetto di tramonto fra gli alberi», «Le arene e l’acqua del fiume» e quello più grande, «Un giorno di scirocco sulla riva del mare presso Roma».
Ma il mio lavoro fu assai intenso anche in campagna. Dal vero lavorai a Livorno e, più ancora, alla mia Bocca d’Arno, sorgente per me inesauribile di inspirazione artistica. Ma, sull’ultimo, ebbi altro campo di lavoro sul mare a Castiglioncello. Allora era, questo, un remoto e delizioso sito sulla costa tra Livorno e Vada.
I colli macchiosi che finivano tra gli scogli della costa, belle alberate di pini ombrelliferi, ben segnate linee di monti lontani, deliziosi seni di mare, ne facevano un luogo assai pittoresco. E lo rendeva, pure, assai gradito soggiorno la compagnia che vi si trovava.
Castiglioncello, allora, con i poggi e le terre circostanti che digradano al mare, era di proprietà di Diego Martelli, l’amico fedele, l’intelligente difensore, il compagno d’armi del ’59 di quel vivace gruppo di artisti che furono detti i «Macchiaioli», di cui di sopra ho detto; ai quali è dovuto il bel movimento artistico che dava inizio alla Scuola Toscana di pittura, che tuttora dura feconda di eccellente lavoro.
Diego Martelli era anche un po’ il mecenate di questo gruppo di artisti, ai quali non ancora sorrideva il favore del pubblico; e per i quali il compratore era tuttora bestia ben rara. La loro arte era ancora lontana dallo aver ottenuto riconoscimento ufficiale ed il favore della stampa, che tanto contribuisce a far la fama degli artisti; e, per questa via, a procurar loro chi faccia acquisto della lor produzione artistica e ne assicuri la vita. Era così da noi, come era stato per gli eroi che diedero vita a quello splendore di arte, quale è stata la pittura francese che vittoriosamente combattè la pittura romantica dopo il 1830.
Raro è che gli artisti, specie i novatori, trovino chi acquisti le loro opere solo perchè le intendono e le amano. La maggior parte dei compratori, per lo più, comprano la fama e la firma, non l’opera d’arte, che troppo spesso non dice lor un bel nulla. E questo, ai giorni nostri, è quel che fa tanto e sempre più rara la vera e sentita arte. I dolorosi adattamenti di troppi vigorosi intelletti artistici al gusto scorretto o traviato del pubblico odierno, si vanno facendo più consueti e quella più rara; benchè la ricchezza, più diffusa oggi che un tempo, abbia fatto assai meno ristretto che non fosse prima il mercato della produzione artistica.
Trovare nei compratori delle proprie opere chi veramente le comprenda e le ami è, ora, per l’artista una fortuna punto frequente. Per questo riguardo, io posso considerarmi davvero beniamino della sorte. Perchè nella mia vita artistica assai lunga e che volge al suo termine, la mia produzione, comunque si voglia giudicare, è stata sempre inspirata solo al mio sentimento; nonostante ha trovato favore. E se la mia fama di artista non è stata clamorosa e vasta, i miei quadri erano, e sono tuttora, il più delle volte comprati da persone capaci di valutarli e perchè l’amavano davvero, senza bisogno di altrui suggestioni od incitamenti o per seguire la corrente che prevaleva. Questo mi ha sempre procurato, e tuttora mi procura, le maggiori soddisfazioni. E fa che meno mi sia doloroso di vedermi uscir dallo studio, o di non vederci più tornare, i miei lavori che io amo come carne della mia carne.
Il gruppo degli artisti che s’era formato a Firenze prima del ’59, come ho narrato, dopo la guerra vittoriosa, dopo i portenti del ’60 che aveano fatta l’Italia, avea ancor più vigorosamente continuata la sua bella battaglia per l’Arte vera e sincera. Firenze era divenuta la Capitate del giovine Regno.
Ma questo non avea davvero richiamato in folla i compratori agli studi degli ardenti novatori. Essi, più o meno, eran tutti nelle strettezze. E, per taluni di essi, benchè abbian dato e diano all’Arte Italiana, opere di gran valore, purtroppo, le strettezze non sono ancora cessate.
Diego Martelli, dal patrimonio che morendo il padre gli avea lasciato aveva possibilità di vita agiata, non ricca. Così non molto gli era dato di poter fare, coi suoi propri mezzi, per aiutar gli amici artisti a sbarcare il lunario. Ma, cuore d’oro, sollecito quanto ingegnoso, fornito di assai vaste relazioni, si ingegnava sempre a sovvenire, senza scapito della lor personale dignità, gli amici artisti; alla schiera dei quali eransi aggiunti anche due scultori nelle persone di Adriano Cecioni e del Fantacchiotti.
Quando era il quadretto od il disegno che ad essi facea vendere, quando eran ben retribuite lezioni, specie a damigelle straniere, che procurava loro; e quando, pure, erano alloggi e studi a buonissimi patti che riusciva a far loro ottenere. Così i bravi giovani, favoriti dai propri scarsi bisogni e semplici gusti, come dal gran buon mercato d’ogni cosa nella Toscana di allora, lavoravan di buon cuore e senza avvilirsi per un’arte nella quale credevano. E la giovinezza faceva il resto...
Un grande beneficio, pure, che i suoi amici artisti dovettero, in quel tempo, a Diego Martelli, fu di aver dato loro modo di vivere lunghi mesi della buona stagione a lavorar dal vero in campagna. Egli, concorrendovi pure la propria generosità, avea fatto che potessero starsene, con una spesa addirittura irrisoria, a lui vicino a Castiglioncello dove egli viveva per molti mesi dell’anno. Così, in quegli anni, a primavera ed anche prima Castiglioncello si andava popolando di pittori, ai quali si univa pure qualche amico amante del loro consueto buon umore, i quali vi rimanevano fino ad autunno inoltrato e qualcuno vi si indugiava anche d’inverno.
Così si formava, in quel bel sito della costa del mare di Toscana, una di quelle simpaticissime colonie di pittori, che a me, che vi dimorai a varie riprese per qualche tempo, ricordava quella della Locanda Martorelli all’Ariccia e quella di Marlotte. A Castiglioncello si unirono all’antica compagnia del «Caffè Michelangelo» altre giovanissime reclute. Ricordo, fra queste, Beppe Abati e Sernesi. Notevole Beppe Abati, giovane meridionale che era venuto a Firenze a studiar pittura; e là unitosi, per simiglianza di sentimento d’arte, ai «Macchiaioli» veniva anch’esso a Castiglioncello dove soleva fare lunghissime dimore. Egli, tuttora ineducato, dava gran promesse di sè. Castiglioncello gli fu fatale. Rimastovi quasi solo a lavorare, venne morsicato dal cane di un contadino. Assorto nella sua pittura, non vi fece alcun caso. Gli si sviluppò l’idrofobia. Condotto a Firenze, in breve vi moriva fra gli spasimi più atroci.
A Castiglioncello io non trovai le ispirazioni artistiche che mi avean dato la costa del mare presso Roma, la Campagna Romana, Bocca d’Arno, e che trovai più tardi, a Lerici ed a Perugia. Ma pure vi dipinsi di buona lena e vi vissi la vita che a me, sempre, più è piaciuto di vivere.
Anche la mia vita cittadina in Firenze era laboriosa e piena. Amici non mi facevano difetto in quella città. Non di rado ve ne capitavano da Roma, che mi portavano lettere dei rimasti e notizie di quanto vi avveniva. Pur fuori di ogni attività politica, io aveva sempre orecchie tese ed occhi aperti su quanto riguardava la mia città.
Anche amici stranieri capitavano a Firenze; e vi venivano o ci si fermavano per vedermi e trattenersi con me. Ricordo, fra costoro, Richmond, Giorgio Howard venuto per dipinger meco e, più volte, il mio Federico Leighton.
Leighton prese l’abitudine, conservata poi fino all’ultimo anno della sua vita, di venire ogni anno per alcune settimane in Italia. Si sarebbe detto che egli, che ancor fanciullo aveva forse in Italia — ove stette, a quell’età, assai a lungo con la madre sua — sentita la prima vocazione per l’Arte, sentisse il Diego Martelli. Mattia Montecchi. bisogno di tornar spesso ad abbeverarsi a questa massima fonte di ogni maniera di inspirazioni artistiche.
Quando egli venne fatto Presidente della «Royal Academy» avea per obbligo di leggere, ogni due anni, un discorso agli accademici riuniti; questo discorso egli costumava venire a scriverlo, fra il Settembre e l’Ottobre, in Perugia all’Albergo Brufani, ogni volta nella stessa camera da lui preferita, che avea cura di prenotare alcune settimane prima per il giorno stabilito del suo arrivo.
Queste settimane, che egli passava più qua più là in Italia, impiegava a dipinger studi di teste, di paese, ovvero studi e disegni di particolari per quadri che avea in lavoro; ovvero andava a rivedere le opere da esso predilette dei nostri antichi maestri.
L’ultima volta che l’amico mio dilettissimo dipinse in Italia fu in Roma, nel tardo autunno del 1895, pochissimi mesi prima della sua morte, nel cortile del Palazzo Odescalchi in Prati; fu soggetto di questo suo studio un bacile di rame lucido pieno di melagrane ben mature che posava su di un antico capitello. E lo dipinse con grande maestria, con quella sua foga da giovine, con tanto vero piacere, quali solo i veri artisti anche maturi possono provare.
Tali sue annuali dimore in Italia terminavano sempre con un piccolo viaggio di tre o quattro giorni, per andare a rivedere luoghi od arte che preferiva. lo gli era immancabilmente compagno in questi pellegrinaggi: od era Firenze dove Masaccio al Carmine avea sempre una nostra visita, od era Siena per Pinturicchio e per Duccio; era Mantova per il Mantegna, era l’Umbria, Orvieto, Venezia.... Il programma, preciso in ogni suo dettaglio, di queste nostre corse artistiche, egli mi scriveva vari giorni prima. Nulla vi mancava: il punto del nostro ritrovo, le ore delle partenze e degli arrivi, i nomi degli alberghi, l’impiego delle nostre giornate. Il tutto spiegato in festevoli lettere scritte nel miglior italiano toscaneggiante; ma non già quel dei libri o dei vocabolari, sibbene quello vivo del popolo. E così conosceva, pure, qualche po’ dei nostri dialetti. Quest’uomo straordinario, altrettanto bene che in italiano, poteva, scrivendo e parlando, servirsi anche del francese, tedesco e spagnolo.
Leighton ha potuto, nella sua non lunga vita, compiere una gran massa di lavoro e, nel tempo stesso, partecipare assiduamente alla vita mondana del suo tempo, coltivare una incredibile quantità di relazioni, coprire cariche pubbliche importanti. Quando venne nominato Lord ne compì assiduamente i doveri, come quelli di Presidente della «Royal Academy» e di Colonnello di un corpo di volontari. E potè farlo per la sapiente distribuzione del suo tempo, in cui non lasciava mai posto all’impreveduto. Ricordo che, quando tornò dal suo viaggio di Siria e si fermò in Italia, a me non riuscì di farlo trattener meco un sol giorno di più di quel che egli aveva stabilito. A spiegarmi perchè non poteva accontentarmi, mi fece vedere tutto quello che aveva prestabilito di fare e gli impegni da tempo presi con altri lungo la via, prima del suo arrivo a Londra. Quivi giunto, mi disse, per tal giorno e tale ora, egli fin da Damasco avea dato appuntamento allo studio di Londra ad una sua modella. Io, incuriosito di controllare se Leighton sarebbe riuscito ad esser tanto preciso, scrissi ad un amico che lo constatasse e me ne scrivesse. E questo mi scrisse che, veramente, mentre il nostro amico, all’ora precisa da tanti giorni fissata, saliva le scale del suo studio, la modella suonava alla porta della scala di servizio.
La mia amicizia con Federigo Leighton durò ininterotta, cordialissima per circa mezzo secolo. Quando ne conobbi la morte fu per me tanta desolazione come se fossi rimasto orfano.
Con Richmond, in quegli anni, lavorammo assieme nello studio e sul vero a Firenze; e lo stesso venne, nel 1868, a star meco qualche tempo a Bocca d’Arno. Ed assieme ci trovammo ad Assisi ove, colui che dovea lasciar in San Paolo di Londra testimonianza tanto eloquente del valore dell’arte sua, compì seri studi su le pitture di Cimabue e di Giotto.